Non esisto – Alberto Schiavone

Nessuno sa qual è il punto finale di un essere umano"

Provo sempre una grande gioia quando incappo inaspettatamente in un romanzo di grande qualità, ancora di più se arriva dopo alcune letture non esaltanti di autori che invece in altre occasioni ho apprezzato molto. In Non esisto di Alberto Schiavone c’è spessore letterario, capacità narrativa, stile originale, analisi introspettiva dei personaggi senza indulgente pietismo né, al contrario, giudicante moralismo; il tutto condito da un pizzico di poesia.

Una giovane donna esce dal carcere dopo aver scontato una pena per un reato di cui non si hanno dettagli, e si ritrova ad affrontare le ordinarie difficoltà della vita quotidiana in solitudine e senza risorse economiche, ricostruendo la propria esistenza un po’ alla volta con tenacia, combattendo con i propri fantasmi interiori e un passato che riemerge per ricondurla nell’abisso.

Quello che colpisce di questo romanzo, per parafrasare Hannah Arendt, è la banalità del dramma, la sensazione cioè che a volte il confine tra un’esistenza serena e appagante e l’inferno sia davvero sottile e per buona parte affidata al caso. Avete presente il bellissimo Match point di Woody Allen? Quando la pallina prende il nastro, nulla del nostro destino è più nelle nostre mani.

Una sensazione simile l’ho avuto con Il sole dei morenti, di Jean-Claude Izzo, in cui si narra di un uomo, un piccolo borghese che conduceva una vita tranquilla e che in un attimo perde tutto, famiglia, lavoro, casa, e diventa un barbone di strada, di quelli sporchi e maleodoranti che tutti evitano. La sensazione chiarissima, al termine della lettura, fu che può capitare a chiunque, la stessa sensazione che ho quando osservo gli avventori della mensa dove ogni tanto vado a cucinare come volontario.

Il punto quindi, come anche evocato dalla copertina, è cosa fare della libertà quando usciamo dalla gabbia. Maria, la protagonista, sente di non esistere perché le manca il riconoscimento degli altri e gli esseri umani, in quanto animali sociali, non sono in grado di sopravvivere isolati perché la loro marginalizzazione diventa la gabbia immateriale da cui è più difficile liberarsi.
Davvero da leggere!

La conquista dell’infelicità – Raffaele Alberto Ventura

"In una società in cui tutto è permesso ma nulla è possibile, ognuno deve imparare a convivere con la consapevolezza che probabilmente non diventerà mai se stesso."

Decisamente uno dei saggi più interessanti che ho letto negli ultimi tempi, una via di mezzo fra l’analisi sociologica e il trattato filosofico, con sconfinamenti in molte altre branche del sapere umano, dall’economia, alla storia, alla psicologia.

Parte dal presupposto che il paradigma su cui si è fondata la società occidentale dell’ultimo secolo, quello del benessere basato sulla crescita, è ormai insostenibile e che lo stesso sia alla base dell’insoddisfazione generalizzata della classe media, le cui aspettative di crescita personale sono nella maggior parte dei casi irraggiungibili, malgrado percorsi formativi interminabili. Non è certo un inedito scoop ma l’originalità dell’autore, antropologo e ricercatore a Parigi, sta nell’illustrarlo attraverso diversi personaggi letterari e cinematografici in modo acuto spaziando da Amleto a Fantozzi, ma anche Ibsen, Spinoza, Kant, Freud e tantissimi altri grandi protagonisti della cultura degli ultimi secoli.

La dicotomia fra avere ed essere, stigmatizzata nel celebre libro di Fromm, ci spiega Ventura, è ormai superata perché l’uomo di questa epoca per adempiere al comandamento morale di diventare ciò che è, di realizzarsi cioè come individuo, ha bisogno di avere, e avere è diventato sempre più difficile a causa della scarsità delle risorse o dell’insostenibilità del loro consumo. Un esempio banale? Io sono un velista ma lo sono in virtù del fatto che posso permettermi di pagare di tasca mia il fatto di esserlo. Se dovessi farmi pagare da altri, un sponsor ad esempio, mi scontrerei con la tragica realtà che gli aspiranti sponsorizzati sono in numero infinitamente superiore ai potenziali sponsor.

La salvezza, se di salvezza si può parlare, risiede non tanto nella capacità di ridurre i propri bisogni (un concetto tutt’altro che recente anche se ultimamente lo si chiama downshifting) ma nell’accettare l’infelicità e la malinconia per ciò che sono, ovvero normali stati d’animo e non patologie da curare con terapie farmacologie o psichiche. E sì, perché la ricerca del sé sembra essersi trasformata da opportunità in condanna. Questo ha trasformato la borghesia da classe privilegiata in classe disagiata che da anni si batte più per conservare ciò che ha che per accrescerlo; e perdere cento euro fa incazzare molto di più di quanto faccia gioire vincere la stessa cifra al superenalotto.

Mala tempora currunt… ce lo dice la cronaca, le guerre in corso, le trasformazioni climatiche o geopolitiche. Ventura ce lo sbatte in faccia, forse con un pizzico eccessivo di pessimismo, a volte in salsa marxiana, ma certo che tutti i torti non li ha.

Sfiorando Albione

Il mare frange rabbiosamente sui mille scogli che mi circondano, esplodendo con fragore sinistro e lasciando al vento teso il compito di dissolvere in un’aria già densa di umidità i resti frammentati della deflagrazione. In questo scenario attraverso il campo minato di rocce affioranti davanti all’Île-de-Bréhat, percorrendo rigidamente il tracciato marcato dalle segnalazioni marittime cardinali. Stamattina sono salpato all’alba per sfruttare al massimo le ore di luce e coprire prima del buio le cinquanta miglia che ho in programma fino a Saint-Quay-Portrieux, un porto corazzato contro qualunque meteo o marea. Insieme a me sono partite altre due barche, una francese e una inglese: mi sono sentito confortato di aver fatto la scelta giusta, quella di salpare con previsioni di due metri d’onda e vento oltre i trenta nodi ma portante. D’altra parte, con la corrente che c’è da queste parti, senza una forte spinta non si avanza.

In teoria passata l’Île-de-Bréhat dovrei essere ridossato, in realtà ogni paio d’ore c’è un groppo, il vento passa da quindici a trenta nodi e le onde da un metro a due metri e mezzo. In Mediterraneo quando entri in un golfo hai la sensazione di essere in uno spazio protetto, qui invece sembra di stare sull’ottovolante. Però non mi ferma nessuno: ogni tanto cancello dal computer il waypoint che ho raggiunto e mi focalizzo sul successivo, continuando a fare lo slalom fra gli ostacoli naturali a una velocità che adesso, fra vento e corrente, è sempre sopra i sette nodi. Quando inizia a piovere me ne vado sottocoperta e lascio Piazza Grande a gestirsela da sola in attesa che smetta.
Alle sei e mezzo di sera scorre alla mia dritta il fanale verde del molo di sopraflutto ed entro nel marina. Dieci ore circa dalla partenza: niente male considerando il tratto che ho fatto a bassissima velocità per la corrente contraria.

È incredibile l’escursione di marea che c’è qui: siamo intorno ai dodici metri. I pali su cui scorrono i pontili galleggianti hanno una altezza impressionante durante la bassa e le passerelle che poggiano sulle banchine sono lunghissime per non diventare ripide come scale a pioli quando sono inclinate verso il basso. Una sera, rientrando in porto dopo il solito rito gastronomico a base di ostriche e Muscadet, mi fermo in cima alla passerella e guardo la sua estremità, dodici metri più in basso, appoggiata al pontile illuminato da una fila di luci: sembra una pista di atterraggio e io il pilota che deve centrarla con il proprio velivolo. Ma forse sono solo gli effetti del Muscadet… a voi, torre di controllo!

A Saint-Quay-Portrieux si sta davvero bene, tutto funziona alla perfezione e il costo non è elevato, quindi decido di fermarmi qualche giorno per riposare un po’. Il marinaio, però, vive in un eterno conflitto interiore: cerca la quiete quando è sballottato dai flutti ma gli basta stare poco tempo fermo in porto per sentire dentro di sé la frenesia del richiamo del mare, quell’anelito interiore, quella sirena irresistibile che lo spinge a sciogliere gli ormeggi dal molo e partire. Ed ecco allora per me una nuova alba con la prua sull’orizzonte, a cercare un’isola che c’è: Jersey, poco più di cento chilometri quadrati appartenenti al regno di sua maestà britannica, malgrado si trovi a pochissima distanza dalla costa francese.

Il mare è stranamente calmo, spianato dal sudovest dei giorni scorsi; non sono più abituato a vederlo così. Il vento è poco ma con questo mare non me ne serve molto per avere una velocità dignitosa. Un gigantesco campo eolico, lungo dieci miglia e largo quattro, mi costringe a una deviazione di rotta per rispettare il divieto di non attraversarlo, mentre mi chiedo quali logiche, economiche, ecologiche, o altro, possano rendere conveniente piantare decine di questi enormi ventilatori in mezzo al mare e collegarli in qualche modo alla terraferma. Arrivo nel tardo pomeriggio nella rada che ho scelto; alcune boe libere mi risparmiano la fatica di calare l’ancora: passo due cime nel gavitello e stappo la solita birra di benarrivato. Sto sottocoperta perché fa un po’ freddo, quando sento delle voci: esco fuori e un gruppo di una ventina di nuotatori, partiti dalla spiaggia, mi ha scelto come traguardo e sta sguazzando attorno alla barca. Scambiamo due parole, io con il cappello di lana in testa, loro nell’acqua in costume da bagno, poi se ne ripartono con nonchalance verso la riva, lasciandomi con il dubbio di chi, se io o loro, abbia sbagliato l’abito. Torno giù prima di congelarmi e chiudo il tambuccio: loro, sicuramente.

Porti con la porta

Tra le tante difficoltà della navigazione nella Manica c’è il fatto che i porti sono spesso accessibili solo in determinate condizioni di marea. Alcuni vanno addirittura completamente in secco con la bassa ed è incredibile vedere le imbarcazioni adagiate sul fango che l’acqua ritirandosi lascia dietro di sé. Sono porti in cui stazionano piccole barche a motore e qualche volta barche a vela con la doppia deriva oppure attrezzate con due pali di sostegno laterali che impediscono loro di finire coricate su un fianco. Altri, per ovviare al problema, hanno una chiusa all’ingresso che viene serrata quando la marea cala, così da trattenere l’acqua e permettere alle barche di galleggiare anche quando fuori tutto si trasforma in una palude. Infine ci sono i porti accessibili in qualunque condizione, ma non sono molti e non sempre la distanza fra di essi è percorribile in una giornata di navigazione.

Navigare di notte oppure arrivare di notte in un porto sconosciuto sono due cose che stando da solo a bordo in queste acque difficili preferisco evitare. In mare è normale fare lo slalom fra una quantità enorme di segnalazioni marittime e pedagni di attrezzature da pesca, e la corrente di marea provoca spesso una deriva tale che senza una buona visuale è difficile valutare esattamente se si è sulla traiettoria giusta per evitare un ostacolo; figuriamoci se l’ostacolo non è ben visibile! Ma la corrente è spesso forte anche dentro il porto e quindi, anche in considerazione del fatto che è molto raro avere assistenza a terra durante l’ormeggio, senza luce tutto diventa molto complicato, se non pericoloso. Insomma, la rotta va programmata nel modo più accurato possibile per evitare brutte sorprese.

Lascio la boa nell’ansa protetta dell’Aber Wrach’ con discreta calma, tanto le miglia in programma non sono molte, poco più di trenta; l’idea è di arrivare fino a Roscoff dove c’è un bellissimo e moderno marina accessibile in qualunque condizione. Le previsioni danno vento fino a trenta nodi, ma sarà portante quindi non sarà una navigazione pesante. Inizialmente ho la corrente contraria e avanzo piuttosto lentamente, poi verso l’ora di pranzo si inverte e Piazza Grande inizia a correre sull’acqua come un cavallo lanciato al galoppo fra onde alte un paio di metri. Sul VHF sento lanciare un Pan Pan ma qui gli avvisi via radio vengono dati solo in francese e non riesco a capire di cosa si tratti.
Decido di chiamare il porto, più per avere informazioni sull’ingresso che altro, perché in Bretagna generalmente non vengono accettate prenotazioni: – Mi dispiace, – mi risponde una voce cortese all’altro capo del telefono – ma oggi ospitiamo una tappa della regata Solitaire du Figaro e quindi non abbiamo alcuna disponibilità di ormeggio. -Fantastico!

Il piano B, perché in mare bisogna sempre avere un piano B, è Trébeurden, che però è uno di quei porti con la chiusa e inoltre richiede circa quindici miglia di navigazione in più. Chiamo, per sicurezza, perché se anche qui dovessero darmi buca sarei nei guai. Il posto c’è, la chiusa apre alle 17:30 ma per il mio pescaggio mi consigliano di aspettare fino alle 18:30. Nessun problema perché non credo di arrivare prima di quell’ora. Mi dicono dove mettermi ma ovviamente per la manovra di attracco dovrò vedermela da solo. Le condizioni meteo intanto si sono fatte piuttosto dure: i trenta nodi di vento previsti ci sono abbondantemente tutti, la corrente e il mare formato pure e come ciliegina sulla torta ogni mezzora una scarica di pioggia. Io però trovo tutto questo terribilmente affascinante altrimenti sarei restato a fare gli aperitivi in rada alla Maddalena.

In prossimità del porto mi si presenta un problema non da poco: uscire dal pozzetto per mettere i parabordi e le cime per l’ormeggio, perché con quest’onda il pilota automatico ha bisogno di velocità per mantenere un minimo la rotta. Compio dei numeri da equilibrista fra gli scogli davanti all’ingresso e un campo boe dove le barche saltano come marionette, facendo avanti e indietro diverse volte, poi torno al timone e punto deciso la chiusa, larga solo una decina di metri, poco più del doppio di Piazza Grande. Una volta dentro provo a infilarmi in un finger ma la corrente mi dà chiari segnali che da solo non avrei il tempo di saltare a terra a mettere le cime prima che la barca venga trascinata via. Dall’unica imbarcazione al pontile dei transiti vedo una testa sporgersi dal tambuccio, gli faccio un cenno e vengono ad aiutarmi. Un po’ maldestramente ma, bene o male, alla fine sono ormeggiato: alla faccia del groppo durato giusto i dieci minuti della manovra!
Tiro un sospiro di sollievo e stappo una birra: al crepuscolo è la giusta ricompensa per questa faticosa giornata.

Che Raz di corrent!

Dopo una breve sosta a Concarneau, in teoria una fermata tecnica, in pratica un’altra bella cittadina bretone da visitare con piacere, mi preparo ad affrontare due dei passaggi più difficili della zona, il Raz di Sein e il canale di Ouessant, per entrare così nel canale della Manica. Sia Sein che Ouessant sono piccole isole, e fra loro e la terraferma la corrente di marea subisce forti accelerazioni che condizionano pesantemente la navigazione. Faccio una prima giornata di vela fino a una piccola baia dove trovo dei gavitelli liberi e ci passo una notte non tranquillissima ma dignitosa. Poi, prima dell’alba, mollo la boa e apro le vele per sfruttare il vento perfetto da sud che avrò al traverso per una decina di miglia e poi in poppa una volta entrato nel Raz di Sein. Secondo le previsioni, quando sarò lì, dovrei avere circa un paio di nodi di corrente contraria: avanzerò lentamente, ma avanzerò. Il sole si solleva pigramente alle mie spalle infuocando maestosamente il cielo intorno alle grosse nuvole addensate sull’orizzonte; superb!

Quando sono a poche centinaia di metri dall’iconico faro del Raz, quello posto su un piccolo scoglio e fotografato spesso nella tempesta, vedo le onde, che sono alte un paio di metri, spianarsi improvvisamente e intuisco che la corrente è ben più forte. Appena esco dal ridosso del promontorio prospicente l’isola di Sein, un violento flusso d’acqua mi investe e malgrado il LOG segni una velocità di cinque nodi abbondanti per rotta 340°, il GPS mi indica una velocità di meno di un nodo con direzione 220°. Ho acqua sottovento quindi sono tranquillo, ma certo che così non vado da nessuna parte! Decido di dare un’aiutino con il motore e riesco a rimettere più o meno la barca in rotta e a percorrere le due miglia e mezzo del canale in circa un’ora e mezza. Nel frattempo mi godo lo spettacolo maestoso di un mare che a tratti ribolle, sotto un cielo plumbeo da cui ogni tanto viene giù uno scroscio di pioggia. C’è un’atmosfera surreale: la superficie del mare su cui avanzo lentamente è piatta ma a poca distanza vedo onde importanti, mentre sopra di me volteggiano sterne e cormorani con le ali ferme, in planata sul vento.

Siamo in periodo sigiziale quindi il coefficiente di marea è altissimo, ma la stessa forza che ho in opposizione nel giro di poche ore volge a mio favore e Piazza Grande inizia a correre di vento, di onde, e di corrente a oltre otto nodi, recuperando in fretta il tempo perso al Raz. In queste condizioni il canale di Ouessant lo affronto con relativa semplicità, a parte l’attenzione alle numerose segnalazioni marittime – boe cardinali oppure mede rosse e verdi – che indicano il percorso corretto per non finire a scogli in questo che è un vero e proprio campo minato. Passato Ouessant il vento aumenta, la corrente aumenta, le onde aumentano e la velocità supera spesso i dieci nodi. Inizia anche a piovere forte e, visto che in giro non c’è nessuno, chiudo il tambucio e me ne resto sottocoperta, aggiustando di tanto in tanto la rotta grazie a telecomando dell’autopilota che ho provvidenzialmente installato prima di partire. Piazza Grande fa la sua parte in modo eccellente.

La mia destinazione è l’Aber-Wrac’h, un fiume che si trova proprio all’ingresso della Manica e al cui interno, a un paio di miglia dal mare, c’è un piccolo porto che ho già contattato, anche per chiedere eventuale assistenza all’ormeggio visto che sono da solo e la corrente e il vento sono molto forti, quest’ultimo oltre i trenta nodi. L’ingresso nel fiume ha un percorso rigidamente segnalato ma per entrare devo orzare molto e quindi mi ritrovo quasi di bolina, investito da pioggia e schizzi di acqua di mare. Mi riparo dietro lo sprayhood mettendo di tanto in tanto la testa fuori per controllare e dare quale piccola aggiustatina alle vele o alla rotta. Speravo che l’onda calasse una volta dentro ma non è così: l’alta marea ha sommerso tutti gli isolotti che potevano smorzare il mare e devo percorrere un lungo tratto prima che l’acqua si quieti.

Sono stanco, domani vorrei salpare presto, e l’idea di entrare in porto e perdere tempo sia per l’ormeggio che per registrarmi non mi esalta. Davanti all’ingresso ci sono alcune barche alla boa, decido di unirmi a loro quando mi si accosta il gommone del porto per offrirmi aiuto nel passare la cima nel gavitello: un bel colpo di fortuna per una manovra che da solo con vento forte è davvero difficile. Pago direttamente al tizio in gommone, poi spengo il motore e insieme si spegne tutto il movimento che ha accompagnato questa lunga giornata di navigazione. Al tramonto il vento cala fino quasi a esaurirsi e il silenzio scende su questa meravigliosa insenatura dall’atmosfera lacustre. Stappo un prosecco per festeggiare l’ingresso nella Manica, o English Channel che dir si voglia, e brindo a questo mare difficile ma entusiasmante.
Alla via così!

Ostriche e Muscadet

Man mano che avanzo verso nord gli effetti delle maree incidono sempre di più sulle mie navigazioni. Sia sulla loro programmazione, che in certi passaggi deve per forza di cose tenere conto della corrente che viene generata dal su e giù delle acque, sia nelle manovre in porto dove gli angusti spazi non lasciano molta possibilità di errore. Per di più, qui in Bretagna, non si usa dare assistenza all’ormeggio; quando si chiama, via radio o al telefono, viene assegnato un posto, spiegato più o meno dove dirigersi una volta entrati, e tanti saluti. Stando da solo a bordo, se la corrente è forte può essere un problema, perché l’ormeggio su finger da soli senza supporto a terra è una cosa complicata. A Crouesty, all’ingresso del Golfo di Morbihan, a un certo punto per rallentare ho dovuto ingranare la retro nel canale di accesso ai pontili perché anche con il motore in folle ero troppo veloce! Il marina però è bellissimo, molto grande ed efficiente e ha anche un supermercato molto vicino. Hic manebimus optime!

Dato che per un paio di giorni soffierà forte, oltre quaranta nodi, per visitare il Golfo di Morbihan, un ampio bacino costellato di isole e scogli, mi affido a un battello turistico che lo attraversa fino all’Île-d’Arz, che sta proprio nel mezzo. Piove, anzi c’è il sole, anzi ripiove, anzi… E via così. Un detto locale recita che in Bretagna fa bel tempo molte volte al giorno, e io ne ho avuto la precisa conferma. Appena sbarcato, in compagnia di un’amica, ci incamminiamo per visitare l’isola ma in un attimo il sole sparisce e inizia a piovere forte, in orizzontale visto il forte vento. Ho previdentemente indossato la cerata da vela, ma nel giro di pochi minuti i miei jeans sono zuppi come se mi fossi tuffato in mare. Cerco un riparo, ma siamo in un punto completamente aperto. Provo a resistere fino a quando sento una goccia d’acqua scorrere lungo la schiena e insinuarsi nella biancheria intima. Mi dichiaro sconfitto e mi rassegno a una giornata con i pantaloni zuppi addosso; un toccasana per le mie articolazioni.

L’Île-d’Arz è bellissima, selvaggia, cosparsa di casette con i tetti in ardesia, nel tipico stile bretone, e con ampie zone che con la bassa marea diventano paludosi acquitrini. In uno di questi c’è un mulino cinquecentesco ad acqua restaurato di recente e un paio di vecchie barchette abbandonate. Alle spalle, una piccola spiaggia dove ha terminato la sua vita una grossa imbarcazione in legno di cui resta praticamente solo lo scheletro lasciato a marcire. Fascino, sapore di antico, aura di mistero. In giro, vuoi perché il meteo non è dei migliori, vuoi perché ormai siamo a settembre, non c’è quasi nessuno. I pantaloni nel frattempo mi si sono asciugati addosso per il vento ma neanche dieci minuti e parte un nuovo sgrullone: è il mio giorno fortunato!

L’indomani, con Piazza Grande sempre ferma in porto per il ventone, altro giro terrestre. Stavolta tocca a Vannes, una cittadina graziosa ma molto turistica, e poi a quello che probabilmente è uno dei paesini più incantevoli della zona: Auray-Saint-Goustan. Si tratta di un villaggio medievale meravigliosamente conservato, oggi ovviamente riconvertito al turismo ma pervaso da una quiete che stordisce. Devo dire che in Francia non mi è mai capitato di trovare locali con la musica ad alto volume per attirare i clienti, la qual cosa mi piace molto perché quella di imporre agli altri i propri cacofonici decibel la trovo un’abitudine davvero pessima, a tratti violenta.

Dici Bretagna e pensi alle ostriche, che qui sono quasi uno stile di vita. Ci sono molti bar à huitres, locali dove servono quasi esclusivamente ostriche e molluschi crudi, accompagnati da un vino bianco, generalmente Muscadet, prodotto nella Loira atlantica. La mia amica mi porta in uno di questi, nascosto tra una piccola pineta e le scogliere di Morbihan, dove mi assicura hanno le migliori ostriche della zona. In realtà si tratta di un produttore che ha allestito una decina di tavoli e serve le sue ostriche appena tirate fuori dall’acqua. Quando il cameriere arriva con il vassoio pieno, ho un moto di commozione: il sole rosseggia sull’acqua creando una meravigliosa atmosfera che appaga l’anima e le ostriche saporitissime provvedono a soddisfare il corpo. Anima sana in ostrica sana!

A Houat con Jonathan

Sono le sette di mattina quando apro gli occhi al termine di un lungo sonno, iniziato ieri sera prima delle dieci per via della stanchezza accumulata. Sento la pioggia picchiettare lievemente la coperta, sento il vento fischiare leggero fra le sartie, sento il mare sciabordare un poco intorno allo scafo: ecco, tre ottimi motivi per restarmene al calduccio sotto le coperte, visto pure che da un paio di giorni la temperatura si è abbassata di qualche grado e la mattina fa un po’ freschetto. Neanche dieci minuti e una lama di sole mi trafigge oltrepassando l’esile barriera costituita dalla tendina dell’osteriggio della cabina: segno che le nuvole sono passate e l’alba si sta manifestando in tutta la sua splendente pienezza. Metto il naso fuori dal tambucio e resto ammaliato dalla luce calda del primo mattino che accende l’isola di Houat, di fronte alla Bretagna, dove ho ancorato ieri pomeriggio dopo una piacevole veleggiata di circa quaranta miglia.

Non è facile da queste parti trovare un posto in cui passare la notte in tranquillità. Sia la marea che lo swell rendono impraticabile o quanto meno scomoda qualunque rada che sulla carta sembra invece offrire un buon ridosso. La prima costringe spesso a tenersi molto lontano dalla riva aumentando conseguentemente l’esposizione al secondo che, come tutti i moti ondosi, tende a insinuarsi ovunque seguendo il profilo della costa. Stanotte è andata bene perché il vento ha tenuto, ma avevo messo in conto la possibilità di un’altra notte passata a rollare oscillando come un pendolo se, contrariamente alle previsioni, avesse mollato. Eravamo tre barche in tutto a condividere la meraviglia di questo ancoraggio: quando mi sono svegliato le altre due erano già salpate via. Sulla spiaggia deserta una coppia mattiniera passeggia romanticamente insieme a un cane eccitato dai gabbiani che sembrano prendersi gioco di lui sfidandolo con la loro aerea inafferrabilità; più lui cerca di abbrancarli, più questi si spostano di qualche metro saltando via con un distratto colpo di ali.

Dopo l’incanto de L’Île-d’Yeu ho fatto una breve sosta a Pornic. Doveva essere uno scalo tecnico invece ho avuto la sorpresa di trovare una cittadina davvero graziosa, adagiata sulle rive di un canale che va quasi completamente in secca con la bassa marea lasciando le numerose imbarcazioni alla boa posarsi sul suo letto fangoso, fra gusci di ostriche selvatiche e uccelli di varie specie che razzolano guardinghi alla ricerca di un piccolo crostaceo, di un vermetto o di qualche altro cibo per loro edibile. È domenica pomeriggio e le strade sono piene di gente, per lo più famiglie e vacanzieri che si godono gli ultimi scampoli di ferie. Da domani anche in Francia riprende l’attività lavorativa a pieno ritmo e le località costiere torneranno alla loro consueta tranquillità invernale; e il costo dei porti si abbasserà, cosa che non mi dispiace affatto! Quando inizia a piovere mi rifugio sotto la tenda di un locale che serve ostriche e Muscadet; se non puoi eliminare un problema, sfruttalo a tuo favore!

Purtroppo a Pornic ho subito un piccolo danno durante la manovra di ormeggio. Non era prevista assistenza e c’erano una ventina di nodi di vento, quindi sono dovuto entrare un po’ allegrotto nel posto assegnato; di prua, come è preferibile sui finger. Il vento era al giardinetto e la poppa si è abbattuta leggermente. Nulla di ché se avessi avuto sottovento un’altra barca a vela: mi sarei appoggiato con delicatezza e i parabordi avrebbero attutito completamente il colpo. Invece c’era una barca a motore ormeggiata di poppa, con una prua altissima, di quelle molto svasate, così prima che i parabordi potessero fare il loro dovere, la battagliola si è appoggiata sulla falchetta del vicino. Nessun danno per lui, per me invece un candeliere piegato vistosamente. Così è chiaro perché barche a vela e barche a motore non devono essere ormeggiate vicine; non, come sostiene qualcuno, per incompatibilità caratteriale dei rispettivi proprietari.

Un gabbiano si posa sul pulpito di poppa, sostenendosi con le zampe sulla zattera; è un esemplare giovane, come si evince dal piumaggio, inevitabile il pensiero a Jonathan Livingston, il protagonista di un romanzo un po’ stucchevole che furoreggiava ai tempi della mia infanzia. Condivido con lui qualche momento, poi mi vedo costretto a scacciarlo prima che scambi Piazza Grande per un deposito di deiezioni aviare.

Ho diverse piccole avarie da sistemare e il meteo dei prossimi giorni suggerisce di restare in porto, quindi, anche in questo caso, sfrutterò l’avversità a mio favore. Devo solo trovarne uno con un posto disponibile, cosa niente affatto scontata da queste parti.
Sollevo l’ancora e apro le vele; la Bretagna è davanti a me.

L’isola Dio

Dopo un po’ la bassa marea la riconosci anche ad occhi chiusi: la percepisci dall’odore emanato dalle alghe e dai crostacei che il mare scopre quando si ritira. Un odore forte, dolciastro, che rende l’aria leggermente stantia e penetra nelle narici lasciando in bocca il sapore dell’oceano. Viceversa, quando la marea è alta, l’odore scompare come per magia e l’aria diventa più pulita. Quindi per sapere se si è in alta o in bassa, spesso basta respirare a fondo con il naso. D’altra parte in Vandea, nel periodo sigiziale, quello di massima ampiezza, fra l’alta e la bassa c’è un’escursione di cinque o sei metri; valori che possono rendere accessibili i porti solo in certi orari e che determinano correnti nell’ordine di qualche nodo. In Bretagna sarà anche peggio, lo so.

Dopo una breve sosta a Les Sables d’Olonne, per onorare quello che è un vero e proprio tempio della vela sportiva oceanica, sono in rotta per L’Île-d’Yeu, una piccola isola una trentina di miglia più a nord. Quando arrivo in prossimità della costa, lo scarto fra prua magnetica e prua vera dovuto alla corrente è di circa trenta gradi: se guardo avanti sembra che stia puntando esattamente la grande spiaggia sul lato meridionale ma dal GPS risulta un chiaro e abbondante margine di sicurezza. La navigazione non è stata molto rilassante: il ciclone Erin che ha investito l’Irlanda ha lasciato uno swell che rispetto a ieri si sta riducendo ma è ancora oltre i due metri. E il vento, a dispetto di quanto noi mediterranei immaginiamo dell’Atlantico, è stato piuttosto ballerino. Arrivo a Port Joinville, lo scalo dell’isola, con l’alta marea, quindi nessun timore all’ingresso.

L’origine del nome è incerto, forse derivante dalla lingua celtica. Una volta, però, ho visto scritto L’Île Dieu, che si pronuncia alla stessa maniera ma letteralmente significa l’Isola Dio. Stordito dalla bellezza e dalla quiete che avvolge questo francobollo di terra immerso nel Golfo di Biscaglia, m’è sembrato un nome appropriato; sarà che sono stato sempre affascinato più dalle cose terrene che da quelle celesti. E con questo credo di aver già detto nel modo più esplicito possibile quanto questo posto mi sia entrato immediatamente nel cuore! Un detto francese recita più o meno: a Saint-Tropez si va per essere visti, all’Île-d’Yeu per nascondersi. Diciamo che è un luogo decisamente antimondano, dove non ci sono grandi alberghi, la gente gira per lo più in bicicletta e bar e ristoranti non sparano a tutto volume il tormentone ispanico dell’estate. Un’isola chic ma senza essere radical.

Joinville, il centro principale, è un dedalo di stradine e case bianche un tempo dimora di pescatori e oggi acquistate a peso d’oro dai francesi continentali; sempre ristrutturate con estremo gusto e senza cafonate alloctone. Fuori dal paese tanti altri piccoli agglomerati, tutti con le stesse caratteristiche architettoniche, sempre attorniati da un’aura di quiete ed eleganza. E sempre poco fuori dal paese, uno spiaggione lunghissimo la cui estensione è ovviamente dipendente dalla marea: alcuni coraggiosi fanno il bagno, altri stanno gonfiando la vela del loro surf munito di foil mentre una lunga fila di piccoli catamarani sportivi giace nella parte più alta dell’arenile in attesa di un meteo più clemente. Sulla sabbia, dove l’acqua si è ritirata, il mare ha disegnato alcuni arabeschi puntellati qua e là da ciuffi di alghe, piccoli sassi e gusci di conchiglie vuoti.

Camminando in direzione dell’altro versante dell’isola incappo in un cartello con il classico “voi siete qui” che aiuta a orientarsi anche nell’epoca di Google Maps. I contorni disegnati dell’isola sono sfumati perché cambiano di molto a seconda dell’alta o della bassa marea. Così, i colori diventano tre: uno scuro per la terraferma, uno blu per il mare, e uno chiaro per illustrare quella fascia costiera che a seconda delle fasi di marea appartiene all’uno o all’altro regno naturale. Il lato occidentale dell’isola è quello più selvaggio. Qui l’onda infinita che parte dall’altro capo del mondo martella incessantemente la costa e oggi, per di più, il vento soffia a Forza 6. Ma gli scenari che offre sono davvero incantevoli. C’è anche un antico castello duecentesco, piacevolmente visitabile.

Arrivo a Port Moulle, una piccola insenatura la cui forma offre una protezione naturale dall’oceano a una manciata di piccole imbarcazioni che finiscono in secca durante la bassa marea. Resto estasiato dall’atmosfera incantevole che c’è, fatta di silenzio sotto cui soggiace un rombo ovattato di onde oceaniche che frangono violente. Su un lato un piccolo ed elegante ristorante, decorato in stile marinaro-chic mi offre l’opportunità di dare una degna conclusione alla giornata: l’ostrica qui è sempre dietro l’angolo. E chi sono io per non approfittarne!

Attraverso Biscaglia

Un’opaca falce di luna, incollata ad un cielo nero come la pece, non riesce a stemperare il buio quasi assoluto della notte. Il pozzetto è appena rischiarato dal modesto bagliore dello schermo del computer che il tambuccio lascia trapelare. Quando la prua colpisce in pieno un’onda, gli spruzzi esplodono riflettendo il rosso e il verde delle luci di via producendo una sorta di spettacolo pirotecnico, che si riflette a sua volta sulla coperta e sulle vele bianche illuminandole all’improvviso per qualche secondo. Nessuna luce all’orizzonte, nessun segnale sull’AIS: non ci sono altre navi o imbarcazioni intorno a me, sono completamente solo in questo tratto orientale del Golfo di Biscaglia che sto tagliando in diagonale.

Sono partito questa mattina da Bermeo, un piccolo porto peschereccio poco a est di Bilbao, nei Paesi Baschi, dove mi ero ancorato al precario ridosso del molo di sovraflutto. Mi sono svegliato all’alba ma un problema all’alternatore mi ha fatto perdere alcune ore prima di risolverlo e quindi solo in tarda mattinata ho salpato l’ancora in direzione di Arcachon, in Nuova Aquitania, un’estuario che ha il vizio di insabbiarsi rendendo quindi pericoloso l’ingresso. Piazza Grande ha preso subito un passo meraviglioso: un vento tra i dodici e i diciotto nodi e senza uno swell importante l’ha posta in un’andatura di bolina larga a oltre sei nodi, stabile e confortevole. Le circa cento miglia che ho da percorrere, penso, scorreranno via in un baleno!

Dopo due mesi in cui ho conosciuto due sole andature, il motore e il bordeggio con venticinque nodi e due metri d’onda, mi è sembrato un peccato sprecare un ben di Dio di tale portata. Allora ho accostato venti gradi e puntato la prua su La Rochelle: le miglia sono così diventate duecento ma ho calcolato di riuscire ad arrivare prima della seconda notte di navigazione, ed eccomi qui. Ogni tanto una leggera variazione di direzione o intensità del vento mi costringe a qualche piccola regolazione fino a ridurre un poco il genoa. Calato il sole, la notte scorre serena con i consueti sonnellini di venti minuti; cullato dall’onda, dallo sciabordio sullo scafo e dalla sensazione che la barca sappia perfettamente come comportarsi anche senza il mio costante controllo.

È l’alba quando uno stormo di gabbiani mi viene incontro garrendo, annunciandomi implicitamente la prossimità di una costa che ancora non si mostra ai miei occhi. Ho molte miglia ancora da fare e impiego il tempo per scegliere dove fermarmi una volta arrivato. Dopo navigazioni così lunghe mi piace dare ancora in una baia protetta, gustare il passaggio repentino dal movimento alla quiete assoluta. Purtroppo la rada de La Rochelle non ha posti con queste caratteristiche e rischio di passare la notte nel frullatore. Il porto, viceversa, ha problemi di bassifondi nel canale di accesso e per fatalità arriverò esattamente al culmine della bassa marea. Del mare si bisogna prendere quello che può offrire, non ci sono altrimenti.

Dall’ingresso della baia al porto sono circa otto miglia, rischio di arrivare con il buio, una complicazione ulteriore che preferisco evitare. Accendo il motore per dare un aiuto alle vele e mi allineo nel canale proprio quando sta scemando l’ultimo chiarore del giorno. Tengo un’occhio fisso sull’ecoscandaglio ma fortuna vuole che abbia davanti un’altra barca a vela: mi accodo disciplinatamente a questa mia inconsapevole apripista nella speranza che non abbia un’ingannevole deriva mobile. È ormai buio quando accosto al molo d’accoglienza. Da una barca attraccata pochi minuti prima di me scendono alcune persone a cui chiedo gentilmente di prendere le mie cime. Le passano a doppino e quando me le restituiscono do volta sulle gallocce e sento che sto mettendo il punto a questa lunga navigazione: trentaquattro ore per centottantotto miglia. Mi aspetta una notte di risposo nella quiete dell’acqua immobile del porto. Fuori, l’oceano che mi ha condotto fin qui.

Schivando orche


La sveglia è puntata alle cinque per poter salpare prima dell’alba, al primo chiarore, e sfruttare così al massimo le ore di luce. Alle quattro, però, sono già in piedi perché durante la notte è calato il vento e la barca rolla da morire. Poco male, me la prendo comoda; mi faccio una moka doppia e ricontrollo il meteo e la rotta. Ho davanti circa sessanta miglia fino a Sines; niente di che se non fosse per un paio di handicap. Il primo è che non ci sono porti né rade lungo la strada, quindi una volta partito bisogna per forza andare fino in fondo; il secondo sono le orche, che da un paio di giorni hanno rifatto capolino proprio nel tratto di mare che devo affrontare.

L’indicazione è di mantenersi nella batimetrica dei venti per limitare eventuali interazioni. Il problema, oltre al fatto che così la rotta da percorrere si allunga perché bisogna seguire il profilo della costa senza tagliare mai, è che non sempre questo è possibile. A volte, in presenza si scogliere a picco, già a poche decine di metri dalle rocce ci sono profondità importanti, e chi va per mare sa bene quanto sia pericoloso navigare in prossimità degli scogli. Ma non ho molta scelta: o così, o niente. Accetto il rischio, salpo l’ancora e parto.

Le prime miglia le percorro con l’attenzione di un predatore in cerca del pasto. Scruto continuamente la superficie del mare, sobbalzando a ogni ombra scura fra i flutti, a ogni riflesso strano di luce, a ogni uccello marino che sfiora l’acqua, a ogni pedagno lasciato dai pescatori. Poi, piano piano mi rilasso, con l’aumentare della luce aumenta anche la visibilità e mi concedo qualche momento sottocoperta per controllare la carta nautica e cercare un eventuale riparo dove dare ancora in caso di attacco da parte delle orche, anche in considerazione del fatto che sono da solo. Momenti rapidi, perché ci sono anche da schivare le tantissime reti da pesca disseminate un po’ ovunque.

Il vento è poco, il mare è in scaduta e l’onda, benché di un metro abbondante, è lunga e poco fastidiosa. Avanzo così, grazie alla spinta dell’entrobordo, per circa undici ore, progressivamente sempre più rilassato, malgrado dai canali Telegram arrivino segnalazioni di avvistamenti delle bestiole poco sotto Cabo Espichel, subito a nord di Sines. Alle cinque entro in porto e calo l’ancora davanti alla spiaggia dedicata a Vasco de Gama, il grande navigatore portoghese. C’è la sua statua proprio sopra il porto, sembra scrutarmi severo: chissà se ai suoi tempi si penava così per i cetacei. Intanto domani altre quaranta miglia fino a Setubal. Alla via così!