Anima baltica

La passione per la lettura può portare molto lontano, perché ci sono libri così appassionanti da indurti a partire per ricercarne le tracce nei luoghi che descrivono. È quello che mi è successo con Anime Baltiche, di Jan Brokken, giornalista olandese, che ha meravigliosamente raccontato la vita di alcuni uomini e donne nati o vissuti, per lo più nella prima metà del Novecento, in quel piccolo spicchio d’Europa che si affaccia sul versante orientale del Mar Baltico. Terminato il libro ho deciso di partire per Riga, capitale della Lettonia, che insieme a Lituania ed Estonia forma la triade delle cosiddette repubbliche baltiche. 
Dato che da quelle parti le temperature minime in inverno possono toccare i venticinque gradi sottozero, mi è sembrato il caso di aspettare la fine della stagione più fredda.

La città mi ha accolto con una pioggia finissima che poi a sera è rimasta in sospensione formando un sottile strato di foschia. Due passi all’imbrunire lungo la Daugava, il fiume che le scorre dentro, sono quindi stati avvolti da un leggero velo di mistero che ha conferito al cammino quella sensazione ancestrale fatta di curiosità e timore mescolati fra loro. C’è un piccolo marina ma una sola barca a vela all’ormeggio; l’aria è quella del porto dismesso, forse per manutenzione, forse per questioni di sicurezza legate alle tensioni con la vicina Russia. Poco più a monte sono ormeggiate tre navi militari con le insegne NATO e le bandiere rispettivamente francese, tedesca e spagnola.

Ho affittato un piccolo appartamento nel quartiere subito a nord della città vecchia e che costituisce uno degli obiettivi del viaggio. Edificato nei primissimi anni del Novecento secondo lo stile in voga allora, l’Art Nouveau (che nell’Europa centro-settentrionale prese il nome di Jugendistil), ha segnato architettonicamente la città in modo profondo proiettandola nella modernità urbanistica.

Si tratta di un esteso agglomerato formato da numerosi edifici le cui facciate sono riccamente decorate con statue e figure mitologiche che li rendono sontuosi e decisamente curiosi. La maggior parte di essi, come ho appreso grazie a Brokken, è stata progettata da Michail Ėjzenštejn, padre di Sergej, il regista de La corazzata Potëmkin, che nacque infatti a Riga e qui ha trascorso i primi anni della sua vita. È un quartiere decisamente elegante che oggi ospita molte ambasciate straniere e che è stato restaurato dopo l’indipendenza della Lettonia dall’URSS, seguita ad anni di abbandono e degrado. Anche il palazzo dove risiedo è stato riportato all’antico splendore grazie a lavori eseguiti davvero con eccellente maestria.

L’altro obiettivo che ho è una fisima da bibliofilo: la libreria fondata nel 1918 da Jānis Rose, un interessante personaggio narrato da Brokken nel primo capitolo del libro. La sua avventurosa storia personale si intreccia con la storia del suo paese, dell’impero zarista e di quello sovietico, passando per la breve parentesi della prima repubblica lettone, iniziata all’indomani della prima guerra mondiale e terminata brutalmente nel 1940 con l’occupazione russa seguita allo scellerato patto Molotov-Von Ribbentrop con cui nazisti e sovietici si spartirono l’Europa. La libreria esiste tuttora ed è miracolosamente sopravvissuta alla censura dei diversi oppressori che si sono avvicendati in Lettonia. Osservo emozionato l’insegna e la vetrina, al lato della quale è posta una targa a ricordo del fondatore, poi entro a curiosare fra gli scaffali, guardato malamente da una commessa definita arcigna anche da Brokken. Devo purtroppo dire che da queste parti molto raramente nei negozi o nei locali pubblici si viene accolti con un sorriso.

Riga è bellissima! Strade e palazzi antichi sono stati tutti restaurati con cura nel trentennio successivo all’indipendenza, proclamata nel 1991; non una carta per terra, non un muro imbrattato da inutili e insignificanti graffiti, non un condizionatore appeso sulla facciata di un edificio di pregio, non un infisso colorato secondo il gusto del proprietario dell’appartamento ma in controtendenza con il resto del condominio, non un’insegna in un improbabile colore sgargiante, non un manifesto abusivo. Pulizia, eleganza, sobrietà, cura, armonia, senso estetico, rispetto: nel mio quartiere come pure nella città vecchia o nei lungofiume. L’opposto esatto di ciò che è stato nei cinquant’anni di dominazione russa, quando il disprezzo per i canoni estetici ritenuti borghesi ha fomentato l’incuria dei palazzi più belli.

Ma se i segni tangibili dell’occupazione russa sono stati rimossi con i tanti restauri edili, il rifiuto e la paura dei russi alberga ancora in modo profondo nell’animo dei lettoni, rinvigorito dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’ex-armata rossa. Mossi presumibilmente dal timore di subire la stessa sorte, i lettoni mostrano una profondissima solidarietà per l’Ucraina, al punto da esporre la bandiera ucraina accanto a quella nazionale su tutti gli edifici istituzionali. Addirittura, su alcuni canali televisivi, sotto il logo dell’emittente, è scritto in caratteri cirillici Slava Ukraina, Gloria all’Ucraina, il motto della nazione gialloblu. 

Sulla facciata di un elegante palazzo sito proprio di fronte all’ambasciata russa è appesa una gigantografia di Putin il cui volto sfuma in un teschio che simboleggia la morte. Il messaggio, alto almeno una decina di metri, non potrebbe essere più chiaro, soprattutto perché pronunciato da chi conosce bene il suo vicino per averne già sperimentato l’abbraccio mortale, costato centinaia di migliaia di deportati nei gulag siberiani, imposizione del bilinguismo e repressione della cultura lettone oltre che repressione poliziesca e militare.
Sarà per questo che la città è piena di bandiere che celebrano il ventennale dell’adesione del paese alla NATO. Visto quello che è successo all’Ucraina, credo stiano benedicendo con tutto il cuore la scelta da loro fatta nel 2004.

Passeggiando per i  vicoli acciottolati della città vecchia, pittoresca e romantica come poche, arrivo al museo della storia navale lettone, ovviamente per me imperdibile. Non c’è molto, a dire il vero: alcuni modelli di navi, qualche strumento di navigazione e inoltre il personale che sorveglia le sale è severo al limite della scortesia, ma ne valeva comunque la pena. I lettoni comunque mi sembrano piuttosto schivi e poco inclini alla socializzazione o anche semplicemente al sorriso. La loro storia si intreccia, oltre che con i russi, con i tedeschi, i polacchi e gli scandinavi; chissà da chi hanno mutuato questo tratto del carattere o chissà se è frutto proprio della presenza prepotente di questi. Va comunque ricordato che Riga ha fatto parte della Lega Anseatica; l’interazione con i vicini non è stata, nei secoli, solo violenza e sopraffazione ma anche protezione e commercio.

Proseguendo verso sud lungo la Daugava, i cui argini sono puliti e curati come l’altare maggiore della basilica di San Pietro a Roma, arrivo al museo dell’Olocausto. La presenza ebraica a Riga prima della seconda guerra mondiale era costituita da diverse decine di migliaia di individui e si era ridotta a poche centinaia alla fine del conflitto. Molti vennero rastrellati e uccisi nei boschi attorno alla città all’indomani dell’invasione nazista del 1941, quando i tedeschi ruppero il patto con i russi. Il museo è ovviamente molto toccante ma c’è una cosa che mi ha particolarmente colpito: in uno spazio aperto c’è un vagone merci di quelli usati per le deportazioni. Al suo interno, da un lato ci sono le gigantografie dei deportati, così da dare al visitatore la possibilità di vedere con i propri occhi cosa quel viaggio significava, dall’altro ci sono degli specchi. Ecco, lo specchio che riflette la tua immagine all’interno di un vagone di deportati è un vero pugno nello stomaco con un doppio messaggio: ti fa identificare con quelle persone, ti fa capire che erano uomini e donne qualunque, non persone rastrellate in modo mirato magari perché ritenute sovversive, e ti dice anche che domani nel vagone potresti ritrovarti tu, vittima sacrificale, capro espiatorio di un odio cieco che in un attimo può sfuggire di mano e colpire con furia criminale qualunque innocente.

Per tornare a respirare libero, salgo in cima al palazzo dell’Accademia lettone delle scienze, un orribile edificio nello stile staliniano pomposamente definito classicismo socialista, che svetta sgraziato verso il cielo oltre i cento metri di altezza. Dall’alto, però, si gode di una meravigliosa vista della città a trecentosessanta gradi che vale decisamente sia il prezzo del biglietto che lo sguardo austero e severo del solito impiegato scostante che lo vende.
Ridiscendo, poi attraverso il fiume per l’altro obiettivo da bibliofilo: la maestosa e moderna biblioteca nazionale, un futuristico edificio che custodisce quattro milioni di volumi. Fortuna vuole che becco il giorno in cui è chiusa per una non meglio specificata manutenzione. Vabbè, anche la vista esterna vale la pena.

Sul volo di ritorno leggo le ultime pagine del libro che ho portato con me, Il mago di Riga, di Giorgio Fontana, che narra la storia di Michail Tal’, il più giovane campione di scacchi della storia (prima di Kasparov). Il romanzo è scritto davvero magistralmente e anche in questa storia ci sono vite schiacciate dal potere violento e oppressivo della dittatura: un leitmotiv della storia lettone che i lettoni sono ben decisi a non voler ripetere più.

(Di Anime Baltiche ho scritto qui: lucianopiazza.com/2023/12/20/anime-baltiche-jan-brokken/)

Colpa nostra

Da un po’ di tempo, qualunque cosa accada nel mondo, è sempre colpa nostra.

Un branco di quattordicenni annoiati devasta la scuola? Colpa nostra che non li abbiamo saputi educare.
I terroristi islamici massacrano decine di giovani al Bataclan? Colpa nostra che non abbiamo dato loro una speranza per il futuro.
Putin invade l’Ucraina? Colpa nostra che abbiamo esteso l’alleanza atlantica.
Gli africani si ammazzano da decenni in guerre fratricide? Colpa nostra che l’abbiamo prima invasi e poi abbandonati.
I miliziani di Hamas sgozzano dei neonati in culla? Colpa nostra che abbiamo sostenuto Israele.
Lapo Elkann finisce strafatto di coca nel letto di un trans? Colpa nostra che l’abbiamo lasciato solo (giuro che all’epoca ho letto anche questo).

Questo atteggiamento è figlio sia della cultura cattolica, che ha addirittura inventato un rito per ripulire da un fantomatico peccato originale (quelli successivi sono evidentemente imitazioni cinesi), sia dalla convinzione dell’Occidente che tutto il mondo si muova in accordo o in disaccordo con sé, sempre comunque in base a un principio di azione e reazione.
Il senso di colpa e il senso di onnipotenza pervadono la nostra società, annullando sistematicamente le responsabilità individuali di ciascuno, come se nessuno fosse più cosciente delle proprie azioni, come se nessuno fosse più in grado di agire in base a scelte fondate sulla propria etica.

Oggi alla fermata della metro ho visto una pubblicità che metteva in guardia dall’intelligenza artificiale: ma non nel solito modo, sostenendo che ruberà posti di lavoro o che “i computer si impadroniranno del mondo”. No, redarguiva tutti noi per quello che all’intelligenza artificiale stiamo insegnando. Insomma, colpa nostra pure stavolta, e nei confronti di una macchina!

Tornando a casa pensavo che il pubblicitario che l’ha ideata è stato davvero geniale, ha condensato in una sola frase diverse questioni. Pensavo anche che ovviamente è un’esagerazione, che non possiamo davvero ritenerci responsabili anche di quello che impara una macchina che altro non è che un algoritmo.
Chiusa la porta di casa ho chiesto ad Alexa di mettermi un po’ di musica e lei con voce stizzita mi ha risposto: «Mettitela da solo che ci’ho da fa’, sto a parla’ co’ Siri!».
O tempora, o mores; ma ce la siamo cercata… colpa nostra!

Social ergo sum

Ciò che facciamo definisce il nostro percorso, la nostra storia, contribuendo a definire ciò che siamo. Dato che ciò che siamo attiene al nostro sé che è qualcosa di immateriale, delle cose che abbiamo fatto non è indispensabile mantenere una traccia materiale, anche perché le cose che facciamo non sempre sono materiali. Però a volte le tracce materiali contribuiscono a mantenere la memoria di ciò che abbiamo fatto, anche dentro noi stessi, perché la mente a volte dimentica le cose. È questo il valore inestimabile di una foto o di un oggetto che ci ricordano un momento particolare che abbiamo vissuto.

Pochi giorni fa Facebook ha cancellato il mio account, e con lui circa dodici anni della mia vita. Immagini, scritti, video, ricordi (nel senso che FB dà ai  ricordi), circa 3700 contatti, fra quelli a carattere personale e quelli che avevano un interesse professionale. Nel giro di mezzora ho perso tutto. 

Ha poco senso dire che Facebook non è la vita ma la sua rappresentazione agiografica e fasulla: come ha osservato il filosofo Luciano Floridi, la distinzione fra vita reale e vita online non è più netta come agli inizi dell’era Internet, tanto da aver lui coniato il termine onlife per definire le nostre attuali esistenze caratterizzate da un’interazione incessante delle due dimensioni. Perdere Facebook vuol dire perdere un pezzo di sé; al netto della perdita economica, non meno di perdere la casa e tutto quanto in essa contenuto a seguito di un incendio o un terremoto.

Qualcuno si è inserito fraudolentemente nel mio account e Facebook l’ha sospeso, chiedendomi di dimostrare che fosse realmente mio. Prima ha chiesto di mandarmi un sms con un codice di conferma, poi ha voluto una mia foto e infine un documento di identità. Dopo essermi accertato che fosse veramente Facebook a chiedermi queste cose e non l’hacker stesso (un documento di identità non si manda a chiunque), ho fatto quanto chiesto. Facebook ha risposto che avrebbe controllato e in caso favorevole avrebbe riattivato l’account altrimenti l’avrebbe eliminato per sempre, in modo inappellabile. E così purtroppo è stato.

Non è servito a niente neppure segnalare il tizio che, poco dopo che ho creato un nuovo account, mi ha chiesto dei soldi per riattivarlo, dicendo di essere un professionista della sicurezza web; come pure è risultato inutile cercare un contatto qualsiasi presso Meta per segnalare l’accaduto.

Tutto quello che in dodici anni avevo caricato su Facebook è andato perduto irrimediabilmente: le navigazioni che ho fatto, i libri e gli articoli che ho pubblicato, i premi che ho vinto, le interviste che mi hanno fatto, le mie foto dei viaggi, i piatti che ho cucinato, i pensieri che ho espresso, i libri che ho letto e commentato, quello che ho vissuto insieme ad altre persone: all’improvviso non ho più un passato da sfogliare quando ne ho voglia.

Non è solo un fatto sentimentale, perché il passato in qualche modo ci definisce. Entrando in contatto con qualcuno per la prima volta (e anche i contatti lavorativi passano per il virtuale), la nostra vita raccontata sui social media rappresenta una sorta di biglietto da visita, dice chi siamo, ci conferisce credibilità, definisce la nostra reputazione. A me tutto questo è stato rubato.

Ma non è finita qui: quando un account viene eliminato, sparisce anche qualunque cosa scritta sui gruppi e sulle pagine; spariscono i commenti fatti sugli account di altre persone; spariscono ovunque i tag fatti da altri: spariscono proprio nel senso che non ci sono più, non sono mai esistiti. E noi con loro.

Spariscono anche le zavorre, è vero, quelle cose e quelle persone che ci portiamo appresso controvoglia e che costituiscono un fardello da sostenere. Alleggerirsi di tutto ciò che fatichiamo a lasciar andare è certamente uno stimolo a intraprendere nuovi cammini ma, come dice il proverbio, non si butta via il bambino con l’acqua sporca.

Il vero punto oscuro di questa vicenda risiede però nel fatto che la veridicità di quanto mi è accaduto è stata valutata da un soggetto privato. Certamente il chilometrico contratto che si sottoscrive al momento dell’iscrizione riporta la possibilità che Facebook cancelli un account per qualsivoglia motivo, ma la legittimità giuridica di quello che dal punto di vista legale è un semplice accordo fra due soggetti, non elimina i dubbi etici (e non solo) sul conferimento a un privato di un potere tanto grande sulla nostra vita, come quello di dire se siamo o non siamo. E senza che le istituzioni pubbliche che ci rappresentano possano eccepire nulla. Detta in parole povere, abbiamo privatizzato il nostro sé: non è bello per niente.

Unn’è tempu

La Sicilia, a torto o a ragione, viene generalmente associata al mare e al turismo estivo. Andarci fuori stagione costituisce la rottura di uno schema, cosa divenuta quasi obbligatoria un po’ ovunque se si vuole ricercare la veracità di un luogo invece di viverlo nei mesi in cui si acchitta per assecondare le esigenze e gli stereotipi di chi lo visita distrattamente. Il fuori stagione consente inoltre di schivare il caldo asfissiante e l’affollamento turistico soffocante. Ho chiesto come si dicesse “fuori stagione” in dialetto siciliano: “unn’è tempu“, non è tempo, mi è stato detto; un’espressione generica e spendibile in diversi ambiti. Io credo invece che il tempo di viaggiare sia diventato proprio quello che i più considerano “fuori tempo”: in epoca di esplosione demografica muoversi controcorrente è quasi imprescindibile, doveroso.

La temperatura a Palermo è comunque mite anche in autunno, forse più per le normali caratteristiche climatiche della città che per gli effetti del riscaldamento globale, anche se durante alcune giornate del mio soggiorno un libeccio deciso ha portato nuvole e pioggia creando una cappa di leggera cupezza. Anche questo, in fondo, è uno stereotipo che si rompe, quello del legame inscindibile della Sicilia con il sole: e io, gli stereotipi, li detesto. La Palermo che cerco in questi giorni non è quella da cartolina, fatta di spiagge e mare bello. Quando visito una città cerco di coglierne l’anima girando per le strade, osservando le persone e il modo in cui vivono, si muovono e si relazionano tra loro, guardando il funzionamento del tessuto economico e sociale, o anche leggendo qualche libro che la racconti da un punto di vista particolare. Forse è una pretesa, e ancora di più lo è per Palermo che certamente è una città molto complessa da comprendere, quasi da sfogliare strato per strato.


Un’interrogativo che mi pongo spesso quando sono in un luogo del nostro continente geograficamente lontano dalle sedi delle principali istituzioni della UE è quanta Europa ci sia, cosa sia sorto dalla mescola di usi e tradizioni locali secolari con le indicazioni culturali (nel senso ampio del termine) dell’Unione Europea che cerca, giustamente, di creare uno standard generale e uguale per tutti. A Palermo la risposta appare piuttosto semplice: di Europa ce n’è pochissima, quasi nulla. Per rendersene conto basta passeggiare per la città, sia nei quartieri eleganti attorno al Politeama e al teatro Massimo, che nelle zone più popolari, come la Kalsa, la Vucciria o Ballarò. Nelle prime, una borghesia raffinata e colta dà l’impressione di essere saldamente ancorata, per scelta o costrizione, alle proprie abitudini e al proprio modo d’essere, mentre nelle seconde il degrado raggiunge purtroppo livelli da metropoli nordafricana e i mercati storici famosi, come quello del Capo, inscenano uno spettacolo molto pittoresco e affascinante ma certamente non al passo con i tempi e per questo forse unico in Italia e in Europa. In alcuni angoli sembra di essere negli anni Sessanta/Settanta.

Va detto però che, al netto di questo degrado (che a Ballarò è davvero sconvolgente), Palermo è un bellissimo agglomerato urbano mediterraneo che mischia fasti antichi, per lo più di epoca arabo-normanna o barocca, con costruzioni del periodo umbertino, siano esse villini liberty o palazzi borghesi, e con la fitta selva di brutti edifici costruiti dal secondo dopoguerra in poi durante quello che è passato alla storia come il sacco di Palermo, operato dalla mafia con la complicità dei politici di allora. Si può dire quindi che la città ha mantenuto sempre costantemente la propria identità pur avendo cambiato spesso aspetto. A differenza di altre città italiane, non ha subito un’immigrazione di proporzioni tali da stravolgerne l’anima; anche la presenza attuale di extracomunitari non sembra numericamente in grado di incidere troppo. Gli odori delle spezie esotiche che si sprigionano da alcune finestre si fondono con l’odore del mare, e già questo basta per farmi stare bene e sentire a casa.


Già, la mafia: un marchio di infamia che tutti i palermitani, anche quelli onesti, si portano purtroppo addosso. Secondo Roberto Alajmo, autore del breve saggio Palermo è una cipolla, si è generato un senso di colpa negli abitanti della città per aver esportato la mafia nel mondo. Che il fenomeno mafioso non sia più subìto, accettato o minimizzato in modo omertoso bensì finalmente osteggiato dalla società civile si percepisce chiaramente: ovunque ci sono monumenti, steli, lapidi, murales (istituzionali o spontanei) che celebrano i caduti nella guerra alla criminalità organizzata. A Capaci è impossibile non provare un forte turbamento guardando la casupola bianca da dove è stato azionato il telecomando che ha fatto esplodere la bomba che ha provocato la morte di Falcone e degli altri che erano con lui: di notte viene illuminata con un fascio di luce che fa spiccare le parole “No mafia” poste sulla facciata. Come pure si resta turbati camminando lungo certe strade, sapendo che sono state il teatro di omicidi efferati compiuti in pieno giorno nella quasi certezza dell’impunità.

Forse non c’è stata quella rivoluzione culturale che è sempre parsa lì lì per esplodere dopo le stragi dei primi anni Novanta (ma del resto l’Italia tutta ha disatteso le speranze sorte in quegli anni, dopo Tangentopoli), ma certamente Palermo si è ribellata e le conseguenze si sono viste. Quella mafia è stata sconfitta, non esiste più. Resta da vedere se insieme sia sparito anche il tragico dilemma che, sempre secondo Alajmo, doveva affrontare qualunque imprenditore prima di avviare un’attività, e cioè quello fra un’umiliante connivenza e una resistenza eroica che aveva alte probabilità di risolversi nel tragico modo in cui è finito Libero Grassi. L’impressione comunque è di una città decisamente più tranquilla e sicura rispetto anche a pochi decenni fa e che meriterebbe di più di quello che al momento si ritrova ad avere.


A passeggio per il centro incappo nel set cinematografico de I leoni di Sicilia, il best seller che ha raccontato la saga familiare dei Florio, partiti praticamente dal nulla e arrivati a essere una delle famiglia più ricche d’Europa nel giro di un paio di generazioni, per poi dissolversi con la stessa rapidità con cui avevano accumulato la loro ricchezza. Il romanzo evidenzia soprattutto gli aspetti frivoli di una storia che è invece interessante da molti altri punti di vista, speriamo quindi che il film banalizzi un po’ meno le vicende. E il pensiero va al Gattopardo di Visconti, proprio mentre cammino nella bellissima piazza su cui affaccia il palazzo Valguarnera-Gangi al cui interno è stata girata la famosa scena del ballo.

Ma Palermo, come tutta la Sicilia, è anche il trionfo della gastronomia, che spazia dal salato al dolce. Per gusto personale preferisco il primo al secondo (cannoli a parte) ma la fantasia dei siciliani nella preparazione del cibo è davvero inarrivabile, sia che si tratti di street food che di cucina raffinata. Resta un’annosa questione, quella della declinazione, al maschile o al femminile, di uno dei prodotti alimentari più conosciuti di tutta l’isola: arancino o arancina? Nel dubbio, facendo l’ordinazione al bancone di un bar, ho troncato la vocale finale biascicando fintamente, perché su certe cose da queste parti non è lecito scherzare, proprio come succede a Roma quando si sente dire della carbonara fatta con la pancetta anziché con il guanciale: si rischia seriamente la lite. Perché noi italiani siamo così: bravissimi a trasformare la farsa in tragedia ma purtroppo eccellenti anche nel viceversa. Un tratto del nostro carattere per il quale pare essere sempre tempo.

Demokràzja

Oggi, di buon mattino, sono andato a votare. Deciso, convinto, perché le elezioni sono sempre un bellissimo esercizio di democrazia: danno al popolo la possibilità di scegliere il proprio futuro o, almeno, a chi affidarlo.
Il seggio era un po’ improvvisato ma sopra le urne capeggiava una grande bandiera colorata: quella del partito di governo (che ha anche organizzato le votazioni), il che conferiva un’aria gioiosa a un contesto triste e sgarrupato.

Mi sono avvicinato agli scrutatori per porgere il mio documento ma mi hanno detto che non era importante, bastava che mettessi una firma su un foglio dove c’era una lista di nomi fra cui il mio. Dietro di loro c’erano due soldati armati di mitra che al braccio avevano una fascia con la stessa bandiera colorata appesa al muro, la qual cosa mi ha dato la sicurezza che tutto fosse regolare e sotto controllo. C’era anche un tizio incappucciato, un supervisore della regolarità che evidentemente si proteggeva da tentativi di corruzione.

Gli scrutatori mi hanno porto la scheda elettorale, un foglio A4 stampato con una stampante da computer e, dato che non erano stare predisposte cabine, mi hanno detto di votare appoggiandomi sul loro tavolo, proprio di fronte a loro. Sono stati così gentili che mi hanno anche tenuto loro la scheda affinché non scivolasse via.

Ho fatto per piegare il foglio ma mi hanno detto che era inutile e che potevo infilarlo nell’urna direttamente così com’era. Un’urna bellissima, fra l’altro: di plexiglas trasparente, così ho potuto vedere chiaramente la mia scheda posarsi sopra le altre senza paura che qualcuno potesse manometterla e modificare la volontà da me liberamente espressa.

Al seggio c’erano diverse persone, alcune molto basse; lì per lì mi sono sembrati bambini, e anche la loro voce sembrava quella di un ragazzino, ma se li hanno fatti votare dovevano essere per forza maggiorenni, forse dei nani con una disfunzione alle corde vocali. Curioso che ce ne fossero tanti tutti insieme proprio lì; magari nei paraggi c’è un casa di cura specializzata nel nanismo disfonico.

Comunque, tutti hanno votato liberamente. Purtroppo un signore anziano, dopo aver votato un partito di opposizione, è scivolato dalle scale: un militare l’ha inavvertitamente urtato sulla schiena con la suola di un pesante scarpone facendolo sbilanciare e precipitare giù. Poveretto, si è fatto parecchio male.

Tornato a casa, ho visto alcune camionette dell’esercito davanti al portone. Ho salito le scale incrociando diversi militari che bussavano alle porte (beh, in realtà anche qui con gli scarponi) invitando le persone ad andare a votare: mi sembra giusto, votare è un dovere civico. Qualcuno ha detto di essere malato e allora gli hanno dato una scheda dicendo che avrebbero provveduto loro a consegnarla al seggio. Davvero un bel servizio di supporto ai disabili!

Non ho capito perché il mio dirimpettaio non abbia aperto: era sicuramente in casa, l’ho incrociato stamattina mentre uscivo. Infatti l’ho rivisto più tardi e mi ha detto che dopo lo scrutinio vuole lasciare il paese. Sinceramente non lo capisco. Fra l’altro mi hanno detto che a quelli che hanno votato verrà dato un premio in denaro. Poca roba, probabilmente, ma di questi tempi anche pochi soldi fanno comodo.

Comunque, io spero davvero che vinca un partito che metta finalmente fine al sistema paradittatoriale instaurato nel nostro paese, dove ci viene imposto di tutto, persino di vaccinarci o mettere la mascherina sui treni.

P. S. Viva l’Italia: pur con tutti i suoi difetti, libera da ottanta anni. Altrove è andata come l’ho raccontata (https://www.corriere.it/esteri/22_settembre_23/imbroglio-voto-diventare-russi-soldati-spalle-schede-aperte-lavatrici-premio-c0609ae6-3b7e-11ed-8e93-4aa9ade4f3e7.shtml).

Il mito della rozza

Un giorno, mentre navigavo nelle acque bulgare del Mar Nero in rotta per Odessa, ho avuto un problema al motore di Piazza Grande, dovuto alla presenza di morchia nel serbatoio del carburante. Ho trovato rifugio all’interno del porto di Varna, al riparo di un vecchio molto di pietra, e ho iniziato a darmi da fare per risolverlo. Per svolgere il lavoro dovevo prima svuotare completamente il serbatoio e, per farlo, mi servivano due cose: delle taniche dove riversare un centinaio di litri di gasolio e una pompa per aspirarlo. A entrambe le necessità ha provveduto un ex-macchinista di navi mercantili che ho conosciuto casualmente e che, molto gentilmente, mi ha prestato tutto quello che mi serviva. Mi sono ritrovato per le mani una vecchia pompa piuttosto ingombrante e mezzo arrugginita e ho avuto un attimo di smarrimento in cui mi sono chiesto se e come funzionasse: era un lungo tubo di ferro con una manovella che agiva evidentemente su una girante interna. Mi colpì la scritta in cirillico sul corpo della pompa: chissà cosa diceva – la marca suppongo – ma mi evocò immediatamente il mito della tecnologia meccanica sovietica di cui si favoleggiava da ragazzi.

Mi venne in mente anche un amico di allora che, pregno di questo mito, si era comprato una macchina fotografica Zenit, di fabbricazione russa. Rozza, ma efficiente, mi spiegò fiero mostrandomela. A me parve solo rozza, e neanche lontanamente paragonabile alla mia Canon, certamente più costosa ma di tutto un altro pianeta, anche se elettronica e quindi schiava delle batterie. «Questa non la fermi mai» mi disse l’amico. Nemmeno la pompa si fermò, ma certamente nell’anno 2016, quello del mio viaggio in Ucraina, il mercato internazionale offriva pompe per liquidi più versatili e comode da usare. Quella, probabilmente, era roba degli anni Cinquanta del Novecento, quando la Russia era chiusa completamente agli scambi con l’Occidente e la sua tecnologia procedeva in modo del tutto autocratico. Sarà un reperto, pensai, oggi l’interazione planetaria avrà modificato il corso dello sviluppo tecnico-scientifico anche nei paesi ex-comunisti. Ci scrissi anche un pezzo, poi ripreso in un capitolo del libro La vela di Odessa intitolato La pompa comunista.

Quella pompa mi è tornata tristemente alla mente in questi giorni in cui la tecnologia russa viene dispiegata nel suo più terrificante e mortale aspetto. E insieme alla pompa mi sono tornati in mente i dubbi sull’efficacia di questa tecnologia. Certo, in tempi di guerra la verità è difficile da trovare, ma diversi analisti militari hanno denunciato un numero altissimo di bersagli mancati da bombe e missili di precisione e le immagini dei campi di battaglia hanno mostrato moltissimi mezzi russi, cupamente marcati dalla lettera Z, completamente distrutti. Quaranta giorni di guerra sanguinosa, senza nessun successo significativo sul campo, indicano inoltre un esercito ben lungi dall’essere una macchina da guerra rodata e funzionante.

La sensazione è che il sistema bellico russo sia ancora oggi come la pompa a manovella e come la reflex del mio amico: rozzo e basta. Il perno centrale sembra essere l’insensibilità verso l’essere umano in quanto tale, sia esso il civile ucraino o il giovane soldato di leva russo, considerati niente di più che carne da macello da sacrificare, senza alcuna remora, per conseguire la vittoria. Niente di nuovo, se vogliamo: il regime zarista era sanguinario e quello sovietico non era da meno. La Russia ha una storia fatta di atrocità incredibili e di uso smisurato della violenza (pogrom, rivolta del Pope Gapon, gulag, Holodomor, le prime che mi vengono in mente) che hanno provocato milioni di morti, trasversale alle forme di governo e che l’attuale sistema politico sta confermando nella forma e nella sostanza. Soldati mandati a mani nude a scavare a Chernobyl, come già i pompieri nel 1986.

Crudeltà a parte, l’unica cosa per cui la potenza militare russa è al momento temibile è l’atomica. Ma è anch’essa una cosa rozza, che distrugge tutto, rade al suolo città intere sterminando in un solo istante un numero impressionante di persone. Senza quella e senza le ripetute minacce di usarla nel caso l’Ucraina ricevesse un supporto militare estero, l’Occidente si sarebbe impegnato in modo diretto nel conflitto, risolvendolo probabilmente in tempi rapidi. Del resto, la Canon produce ancora macchine fotografiche mentre la Zenit ha chiuso da vent’anni; anche se la mentalità che l’ha generata sembra sopravvivere ancora, sfilacciando nel terzo millennio brandelli consunti del Novecento peggiore.
Come oggi a Bucha.

Arrendetevi!

Arrendetevi. Non siete circondati, come dicono nei film di terz’ordine, ma arrendetevi lo stesso, tanto comunque non avete scampo. Soccombere e morire è l’unica alternativa alla vostra resa. Il nemico è soverchiante, arrendetevi prima che vi distrugga. Arrendetevi e, in cambio di una decorosa sottomissione, avrete salva la vita. Forse. O forse no, ma che importa; voi arrendetevi a prescindere.

Arrendetevi, anche voi neri del Sudafrica dell’apartheid, accettate la superiorità dell’uomo bianco. Non sarà una superiorità genetica, come sostiene chi vi ha reso schiavi, ma una superiorità di forze sicuramente sì. Quindi accettate la vostra condizione di inferiori, una situazione tutto sommato auspicabile di fronte all’eventualità di essere annientati anche fisicamente. Avrete bagni e autobus solo per voi, un privilegio, no? In fondo vi si chiede solo di restare tranquilli e servire il vostro padrone, ossequiarlo, riverirlo.

Arrendetevi, voi ebrei degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, senza alcuna possibilità di contrastare la forza bruta dei nazisti. Accettate il vostro destino, non complicate le cose ai vostri carnefici e non turbate la quiete delle famiglie europee, soprattutto quelle perbene. Incamminatevi disciplinatamente verso i campi di sterminio, fate quello che vi viene detto di fare. Certo, a Roma, Kappler vi aveva promesso la salvezza se aveste consegnato cinquanta chili d’oro entro tre giorni ma poi, intascato il prezioso carico, si è immediatamente rimangiato la parola deportandovi tutti. Ma tanto, per voi, cosa è cambiato? È comunque la camera a gas il vostro destino.

Arrendetevi, voi indiani d’America, ricacciati sempre più a ovest dall’avanzata degli invasori europei. Sarete decimati dai fucili e dalle malattie sparse ad arte con coperte infette, imbrogliati da accordi che la controparte, con pretesti fasulli e cavilli che voi non potevate comprendere, non rispetterà mai; quindi arrendetevi. Alzate le mani in alto, anche se vi spareranno lo stesso: come a Wounded Knee, come sul Sand Creek. Fate risparmiare le pallottole ai cecchini che vi puntano, abbiate almeno la compiacenza di fare questo. Lo so, gli uomini saranno scalpati e le squaw violentate, ma un po’ di esuberanza da parte del vincitore va messa sempre in conto.

Arrendetevi, tutti voi che per secoli avete subito la dominazione delle potenze coloniali, la protervia di uomini ignoranti e rozzi che a casa propria contavano zero ma nella vostra diventavano improvvisamente qualcuno. Accettate le loro usanze, le loro leggi, le loro abitudini, la loro architettura, la loro cultura, il loro governo. Non sfidate mai il potere da essi costituito, rassegnatevi a fare ciò che vi viene ordinato di fare: con malagrazia, quando va bene, con violenza negli altri casi. Anche se vi umilieranno davanti ai vostri figli, se non rispetteranno la vostra età, la vostra educazione, il vostro ruolo sociale. Fate ciò che vi viene detto di fare, senza agitarvi, senza protestare. Senza ribellarvi mai. Sentitevi gratificati di essere il loro esotico zimbello.

Arrendetevi, voi popoli senza terra, schiacciati da assurdi nazionalismi, stritolati da un’idea di stato-nazione troppo ristretta per contenervi, messi a margine da altri popoli più numerosi, più ricchi, più forti, più organizzati a tracciare confini che vi comprendessero senza per questo riconoscervi per ciò che siete. Dimenticate la vostra lingua, le vostre tradizioni, il vostro passato. Scordate la vostra identità e fate vostra quella di chi detiene il potere. Ne va del vostra stessa sopravvivenza, anche se ne verrete fuori completamente snaturati.

Arrendetevi, voi che avete avuto la sfortuna di nascere in un paese debole, in un momento in cui il capo di un paese vicino, forte, aveva fame di potere, di ricchezza, di terra, di vanagloria. O anche solo voglia di distruggere le vostre case, le vostre vite. Rassegnatevi a essere insignificanti microbi di fronte all’avanzata inarrestabile di un nuovo impero: Romano, Barbaro, Cinese, Bizantino, Arabo, Ottomano, Mongolo, Spagnolo, Portoghese, Britannico, Austro-Ungarico, Russo, Sovietico, di nuovo Russo. Arrendetevi. La Storia non si arresta, la Storia si subisce e basta, non si fa.

Arrendetevi, perché da noi è quasi primavera e con la bella stagione ribellarsi e combattere non sta bene: il rumore degli spari è molesto e gli schizzi di sangue, anche se arrivano semplicemente dalla TV, sporcano i germogli sui rami degli alberi.
Arrendetevi all’ignavia, all’indifferenza, all’accidia: queste sì che vi circondano in modo inesorabile.

Ineluttabile destino

Ieri sera, tornando a casa, ho visto un gruppo di giovani che dava fastidio a una ragazza. La spintonavano, la insultavano, e sembravano in procinto di violentarla. Lei chiedeva aiuto ma io, nel timore di essere coinvolto, mi sono guardato dall’intervenire: erano almeno cinque o sei, tutti piuttosto grossi, le avrei prese sicuramente. Altre persone, come me, si sono fermate a guardare.

“Chiamate la polizia!” urlava. Stavo per farlo ma poi ho pensato: magari sono armati e quando arriva la pattuglia loro gli sparano. Anche se non amo le divise, Dio non voglia che ci vada di mezzo un bravo ragazzo delle forze dell’ordine che non ha fatto nulla di male. Lui.

La ragazza, invece, è possibile che abbia provocato quei giovani: forse con l’abbigliamento, o qualche occhiata di troppo. E i giovani, si sa, sono reattivi, reagiscono alle provocazioni.

Ma poi, è proprio la famiglia di lei che non mi piace: i fratelli hanno idee politiche strane, normale che dopo capitino certe cose. Uno, tempo fa, l’ho visto scavalcare i tornelli della metro senza biglietto e poi imbrattare i treni con lo spray.

Quando l’hanno buttata a terra, con la mano ha cercato di afferrare un bastone per difendersi da sola, visto che nessuno l’aiutava. Non ci arrivava, e quando i nostri sguardi si sono incrociati, mi ha fatto capire che con il piede avrei potuto avvicinarglielo. Ma benedetta ragazza, ti rendi conto dell’escalation di violenza che si innescherebbe in questo modo? Tutto quello che otterresti è di incattivire ancora di più i tuoi aggressori!

I quali, nel frattempo, hanno cominciato a spogliarla e colpirla. Al ventre, in faccia, dappertutto. Sanguinava, poveretta. Pregavo per lei, per la pace sua e di tutti. Perché la pace è importante, viene prima di qualunque cosa. Infatti, a un certo punto, qualcuno si è affacciato dalla finestra, gridando: “Basta, piantatela, vogliamo stare in pace a casa nostra, è l’ora di cena e abbiamo il diritto di avere la nostra tranquillità”.

La stavano violentando a turno, lei piangeva, si dimenava, quando a un tratto, un uomo tra la folla ha detto: “Dobbiamo fare qualcosa! Io quei ragazzi li conosco, sono i proprietari del supermercato sul viale, da domani non andiamo più a fare la spesa da loro”.
“Sì, bravo”, ha risposto un altro, “così poi ci tocca andare al negozietto all’angolo che ha i prezzi più alti. Io sto risparmiando per fare le vacanze in Sardegna, mica posso andare a Ostia quest’estate”.
Alle mie spalle ho sentito più di uno dargli ragione.

Alla fine non ce l’ho fatta più, non ne potevo più di tutto quel sangue, tutta quella violenza. Mi sono avvicinato e le ho detto: “Perché ti ostini a fare resistenza? Sono più forti di te, lasciati andare e dagli quello che vogliono. Prima lo fai, prima ti libererai di loro. Del resto, in molti qui si stanno spazientendo con te che non vuoi accettare il tuo destino. Se non vuoi farlo per te, fallo almeno per noi. Noi siamo contro la violenza. Sempre.”

Un pugno sferrato da uno degli aggressori sul suo volto già tumefatto le ha fatto saltare due incisivi , poi ha perso conoscenza. A quel punto non c’era più nulla da salvare e ce ne siamo andati tutti a casa, anche se quelli non hanno smesso di accanirsi sul suo corpo ormai inerte.

Odessa nel cuore

L’arrivo, navigando in solitaria, a Odessa è stata una delle cose più emozionanti che abbia mai fatto in vita mia. Come scrissi allora, era il 2016, avevo l’impressione di entrare non in un porto ma nella Storia.

Odessa è una citta piuttosto giovane (è stata fondata nel Settecento), ma ha vissuto gli ultimi due secoli al centro degli eventi mondiali, da quelli del commercio, di cui divenne un importante snodo, ai primi moti rivoluzionari del Novecento (la corazzata Potëmkin si è ammutinata qui) al terribile sterminio della popolazione di religione ebraica che ammontava a trecentomila persone e costituiva un terzo degli abitanti.

Gli odessiti mi erano sembrati riservati ma comunque sempre gentili, e non ho mai avuto alcun problema nonostante le guide turistiche avvertissero dei pericoli in alcune zone della città. Percepivo solo una gran voglia di vivere, più che legittima dopo decenni di oppressione sovietica. Ma forse bisognerebbe dire russa, perché il regime comunista è stato un’oppressione non solo politica e militare ma nazionalistica.

Durante lo stalinismo l’Ucraina ha patito una terribile tragedia di cui fuori dai suoi confini non si parla molto: l’Holodomor. Stalin, con un pretesto, avviò un genocidio silenzioso degli ucraini sequestrando i raccolti, entrando nelle case a perquisire le dispense e uccidendo chi aveva anche un solo un uovo nascosto invece che consegnato alle autorità: russe, perché nei posti di comando erano stati messi i russi in tutte le repubbliche dell’Unione.

La Storia purtroppo si ripete e, come spesso accade, il nazionalismo, inteso come incapacità di convivenza pacifica con il diverso da sé, è alla radice del conflitto: se non come reale ragione, come foglia di fico per interessi economici. Che pena per chi sta patendo e patirà le terribile conseguenza di questa inutile guerra, che pena per la bella Odessa e i suoi abitanti!

Per approfondire: www.laveladiodessa.it

Vena poetica


Tra i soprammobbili ci’ ho ‘n pupazzetto
fatto de legno e sopra verniciato,
co’ ‘na faccia da lupo navigato
e addosso ‘n ber giaccone doppiopetto

blu marinaro, indossato stretto.
In mano ci’ ha ‘na pipa cor trinciato
e ‘na gamba de legno lavorato
contrasta quella co’ lo stivaletto.

Pare ‘n Corto Maltese attempatello,
co’ ‘n po’ de barba bianca qui’ davanti
intonata cor colore der cappello.

Su la faccia pero’ ‘n soriso amaro
dovrebbe fa’ riflette tutti quanti
sur senzo de ‘na vita appresso a ‘n faro.