Le orche e le barche a vela – Il Mare sul Divano

È stata una bellissima serata quella di ieri al Mare sul Divano.

Vanessa Vaio, naturalista e divulgatrice scientifica, ci ha intrattenuti piacevolmente parlandoci della vita delle orche, della loro struttura sociale, del loro modo di comunicare e delle ipotesi sul perché improvvisamente abbiano iniziato ad attaccare in modo sistematico le barche a vela (e non solo) che navigano nell’Atlantico orientale, dallo stretto di Gibilterra fino al nord della Spagna e oltre.

Dal 2019 a oggi ci sono stati oltre 500 attacchi che hanno provocato gravi danni alle imbarcazioni e in alcuni casi l’affondamento.

Vanessa è stata bravissima a esporre gli argomenti con precisione scientifica ma in modo semplice e chiaro anche per noi che non siamo esperti dell’argomento, tenendo sempre viva la nostra curiosa attenzione.

Come di consueto la serata è proseguita nel solito conviviale modo, fatto di chiacchiere attorno a un piatto e un bicchiere di vino.

Il prossimo appuntamento del Mare sul Divano sarà il 7 maggio con Gianluca Marcon, navigatore e disegnatore.

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Le onde del libero arbitrio – Il Mare sul Divano

Dopo una pausa purtroppo molto lunga, giovedì scorso sono ripresi gli incontri del Mare sul divano, il salotto culturale del mare.

È stato nostro gradito ospite Marco Rossi, navigatore di lungo corso, sceso dalle distese ghiacciate dell’estremo nord per presentarci l’ultimo volume del suo Atlante romantico degli oceani.

La serata è stata interessante e piacevole, iniziata con colte dissertazioni e terminata italicamente con un bicchiere di vino.

Presto nuove inizative!

The sailor

Il mare, anzi la vita di mare, quale paradigma filosofico dell’esistenza umana in senso ampio. The sailor è la storia di un uomo più che, come il titolo suggerisce, di un marinaio. Un uomo che ha scelto la vita di mare, che ha fatto del mare, per amore del mare stesso, il pilastro fondante della sua esperienza terrena.

Chi parte per mare, e ancora di più chi lo faceva decenni fa quando le possibilità di restare in contatto con chi rimaneva a terra erano limitatissime, lo fa per fame di vita, di conoscenza, di esperienza. Lo fa senza preoccuparsi troppo del futuro più remoto. Addenta la vita, mordendola con appetito sano, consumandola avidamente. È cicala che canta gioiosa.

The sailor è un film, anzi un film-documentario, che racconta la vera storia di Paul Johnson, nato alle isole Shetland, da cui è partito da giovane. Ha attraversato quaranta volte l’Atlantico, ha avuto barche non molto diverse da quelle che abbiamo noi, ha avuto amori duraturi e fugaci, figli noti e ignoti, progettato imbarcazioni con la competenza di chi si è fatto l’esperienza sul campo.
Un film bello ma triste, perché ci mostra una cicala che consuma i suoi ultimi giorni in solitudine, senza figli, senza una donna accanto, vivendo a un livello minimo di sussistenza; una cicala senza pubblico e senza più voce per cantare, neppure per se stessa.

Birra a colazione, poi a seguire vodka, per un totale di circa un litro al giorno, Johnson vive alla fonda ai Caraibi, senza più navigare da anni, su una barca senza il motore funzionante, sudicia e in rovina, e che un ultra-ottantenne come lui non è più in grado di gestire, non solo di liberarla per prendere il mare.

È l’ultimo sgraziato verso di una poesia che incanta ma a volte truffa le anime pure.
Il mare nei secoli è sempre stato fatica, sudore, sale e rughe sulla pelle, incertezza, lontananza. Siamo noi che lo attraversiamo per diporto, quindi per divertimento, che ne cogliamo solo i lati più più piacevoli ignorandone le tante ruvidità. Siamo noi che abbiamo una casa dove tornare, con o senza qualcuno ad attenderci, che possiamo concederci di guardare al mare con inguaribile romanticismo.

Di tipi così sono pieni i mari di tutto il mondo e spesso mi sono chiesto se in loro prevalga lo spirito di libertà o l’apparentemente sano egoismo che la libertà a volte alimenta ma di cui prima o poi presenta il conto.

Ricordo un tale davvero somigliante a Johson, su un’isoletta dalle parti di Rodi, forse Kastellorizo, su un piccolo sloop di una quarantina d’anni di età vincolato al fondo e agli scogli con un groviglio di cime che lasciava intendere un’immobilità di lunga durata. Tutti i pomeriggi scendeva a terra con un dingy rigido a remi tutto rappezzato, comprava pane, sigarette e alcol e se ne tornava a bordo in solitudine. Una volta ho provato a scambiare due chiacchiere con lui e mi ha raccontato una storia che, ripensandola oggi, sembra ricalcata su quella del protagonista di The sailor: una vita senza a radici, tante donne e tanti amici in rapporti fondati sulla fugacità, da anni senza contatti con i figli, supportato da qualche anima pia locale in caso di necessità. Basta uno scafo con un albero piantato in coperta per rendere queste persone diverse da un qualsiasi anziano triste e solo delle metropoli?

Sempre in Grecia, nel golfo di Patrasso, c’è un’isoletta molto graziosa che si chiama Trizonia, in cui è stato costruito un porto che per ragioni burocratiche non è mai entrato in funzione; una vicenda simile a tante storie italiane. Nel porto hanno trovato riparo stabile molte barche i cui proprietari non possono permettersi di pagare neanche la manciata di spiccioli richiesta nei porti greci. Hippy di mare salpati da qualche paese del Nordeuropa con pochi soldi in tasca e la testa piena di sogni non a buon mercato come credevano. Alle prime difficoltà pratiche si sono arenati sul molto di Trizonia e proseguono la loro esistenza di mare, se esistenza di mare si può definire, su tristi scafi ammalorati di cui a stento riescono a permettersi una manutenzione che li tenga almeno a galla. A volte stendono una prolunga fino a un bar o una finestra di qualcuno che generosamente gli permette di ricaricare un po’ le batterie. Alcuni di loro, tristemente, appaiono troppo in là con gli anni per pensare a un riscatto con se stessi, una nuova opportunità, un futuro più comodo: proprio come Johnson, che a un certo punto si stupisce di essere vissuto così a lungo.

Il protagonista del film non si mostra pentito delle sue scelte e, almeno a parole, si dice felice della vita che ha vissuto, anche se l’alcolismo sembra tradire una serenità interiore davvero scarsa. Come il suonatore Jones della poesia di Edgar Lee Masters poi cantata magnificamente da De Andrè che, dopo aver rinunciato al benessere della famiglia di origine, alla soglia dei novant’anni si dichiara senza rimpianti. Ma un conto è leggerlo in versi, un conto veder trascinare stancamente e in solitudine gli ultimi scampoli di una esistenza, chissà se poi davvero piena e felice.

Esopo e La Fontaine ci hanno mostrato due estremi: l’incoscienza godereccia della cicala e la triste e arida esistenza della formica. Nelle mille sfumature di mezzo sta forse il segreto della vita, che quel grande filosofo che è stato Massimo Troisi definì con una memorabile battuta: meglio cinquanta giorni da orsacchiotto rispetto ai cento da pecora o uno solo da leone.
Le barche costano e non bastano i sogni a pagarle. Senza sogni non si parte, senza soldi non si torna.

Unn’è tempu

La Sicilia, a torto o a ragione, viene generalmente associata al mare e al turismo estivo. Andarci fuori stagione costituisce la rottura di uno schema, cosa divenuta quasi obbligatoria un po’ ovunque se si vuole ricercare la veracità di un luogo invece di viverlo nei mesi in cui si acchitta per assecondare le esigenze e gli stereotipi di chi lo visita distrattamente. Il fuori stagione consente inoltre di schivare il caldo asfissiante e l’affollamento turistico soffocante. Ho chiesto come si dicesse “fuori stagione” in dialetto siciliano: “unn’è tempu“, non è tempo, mi è stato detto; un’espressione generica e spendibile in diversi ambiti. Io credo invece che il tempo di viaggiare sia diventato proprio quello che i più considerano “fuori tempo”: in epoca di esplosione demografica muoversi controcorrente è quasi imprescindibile, doveroso.

La temperatura a Palermo è comunque mite anche in autunno, forse più per le normali caratteristiche climatiche della città che per gli effetti del riscaldamento globale, anche se durante alcune giornate del mio soggiorno un libeccio deciso ha portato nuvole e pioggia creando una cappa di leggera cupezza. Anche questo, in fondo, è uno stereotipo che si rompe, quello del legame inscindibile della Sicilia con il sole: e io, gli stereotipi, li detesto. La Palermo che cerco in questi giorni non è quella da cartolina, fatta di spiagge e mare bello. Quando visito una città cerco di coglierne l’anima girando per le strade, osservando le persone e il modo in cui vivono, si muovono e si relazionano tra loro, guardando il funzionamento del tessuto economico e sociale, o anche leggendo qualche libro che la racconti da un punto di vista particolare. Forse è una pretesa, e ancora di più lo è per Palermo che certamente è una città molto complessa da comprendere, quasi da sfogliare strato per strato.


Un’interrogativo che mi pongo spesso quando sono in un luogo del nostro continente geograficamente lontano dalle sedi delle principali istituzioni della UE è quanta Europa ci sia, cosa sia sorto dalla mescola di usi e tradizioni locali secolari con le indicazioni culturali (nel senso ampio del termine) dell’Unione Europea che cerca, giustamente, di creare uno standard generale e uguale per tutti. A Palermo la risposta appare piuttosto semplice: di Europa ce n’è pochissima, quasi nulla. Per rendersene conto basta passeggiare per la città, sia nei quartieri eleganti attorno al Politeama e al teatro Massimo, che nelle zone più popolari, come la Kalsa, la Vucciria o Ballarò. Nelle prime, una borghesia raffinata e colta dà l’impressione di essere saldamente ancorata, per scelta o costrizione, alle proprie abitudini e al proprio modo d’essere, mentre nelle seconde il degrado raggiunge purtroppo livelli da metropoli nordafricana e i mercati storici famosi, come quello del Capo, inscenano uno spettacolo molto pittoresco e affascinante ma certamente non al passo con i tempi e per questo forse unico in Italia e in Europa. In alcuni angoli sembra di essere negli anni Sessanta/Settanta.

Va detto però che, al netto di questo degrado (che a Ballarò è davvero sconvolgente), Palermo è un bellissimo agglomerato urbano mediterraneo che mischia fasti antichi, per lo più di epoca arabo-normanna o barocca, con costruzioni del periodo umbertino, siano esse villini liberty o palazzi borghesi, e con la fitta selva di brutti edifici costruiti dal secondo dopoguerra in poi durante quello che è passato alla storia come il sacco di Palermo, operato dalla mafia con la complicità dei politici di allora. Si può dire quindi che la città ha mantenuto sempre costantemente la propria identità pur avendo cambiato spesso aspetto. A differenza di altre città italiane, non ha subito un’immigrazione di proporzioni tali da stravolgerne l’anima; anche la presenza attuale di extracomunitari non sembra numericamente in grado di incidere troppo. Gli odori delle spezie esotiche che si sprigionano da alcune finestre si fondono con l’odore del mare, e già questo basta per farmi stare bene e sentire a casa.


Già, la mafia: un marchio di infamia che tutti i palermitani, anche quelli onesti, si portano purtroppo addosso. Secondo Roberto Alajmo, autore del breve saggio Palermo è una cipolla, si è generato un senso di colpa negli abitanti della città per aver esportato la mafia nel mondo. Che il fenomeno mafioso non sia più subìto, accettato o minimizzato in modo omertoso bensì finalmente osteggiato dalla società civile si percepisce chiaramente: ovunque ci sono monumenti, steli, lapidi, murales (istituzionali o spontanei) che celebrano i caduti nella guerra alla criminalità organizzata. A Capaci è impossibile non provare un forte turbamento guardando la casupola bianca da dove è stato azionato il telecomando che ha fatto esplodere la bomba che ha provocato la morte di Falcone e degli altri che erano con lui: di notte viene illuminata con un fascio di luce che fa spiccare le parole “No mafia” poste sulla facciata. Come pure si resta turbati camminando lungo certe strade, sapendo che sono state il teatro di omicidi efferati compiuti in pieno giorno nella quasi certezza dell’impunità.

Forse non c’è stata quella rivoluzione culturale che è sempre parsa lì lì per esplodere dopo le stragi dei primi anni Novanta (ma del resto l’Italia tutta ha disatteso le speranze sorte in quegli anni, dopo Tangentopoli), ma certamente Palermo si è ribellata e le conseguenze si sono viste. Quella mafia è stata sconfitta, non esiste più. Resta da vedere se insieme sia sparito anche il tragico dilemma che, sempre secondo Alajmo, doveva affrontare qualunque imprenditore prima di avviare un’attività, e cioè quello fra un’umiliante connivenza e una resistenza eroica che aveva alte probabilità di risolversi nel tragico modo in cui è finito Libero Grassi. L’impressione comunque è di una città decisamente più tranquilla e sicura rispetto anche a pochi decenni fa e che meriterebbe di più di quello che al momento si ritrova ad avere.


A passeggio per il centro incappo nel set cinematografico de I leoni di Sicilia, il best seller che ha raccontato la saga familiare dei Florio, partiti praticamente dal nulla e arrivati a essere una delle famiglia più ricche d’Europa nel giro di un paio di generazioni, per poi dissolversi con la stessa rapidità con cui avevano accumulato la loro ricchezza. Il romanzo evidenzia soprattutto gli aspetti frivoli di una storia che è invece interessante da molti altri punti di vista, speriamo quindi che il film banalizzi un po’ meno le vicende. E il pensiero va al Gattopardo di Visconti, proprio mentre cammino nella bellissima piazza su cui affaccia il palazzo Valguarnera-Gangi al cui interno è stata girata la famosa scena del ballo.

Ma Palermo, come tutta la Sicilia, è anche il trionfo della gastronomia, che spazia dal salato al dolce. Per gusto personale preferisco il primo al secondo (cannoli a parte) ma la fantasia dei siciliani nella preparazione del cibo è davvero inarrivabile, sia che si tratti di street food che di cucina raffinata. Resta un’annosa questione, quella della declinazione, al maschile o al femminile, di uno dei prodotti alimentari più conosciuti di tutta l’isola: arancino o arancina? Nel dubbio, facendo l’ordinazione al bancone di un bar, ho troncato la vocale finale biascicando fintamente, perché su certe cose da queste parti non è lecito scherzare, proprio come succede a Roma quando si sente dire della carbonara fatta con la pancetta anziché con il guanciale: si rischia seriamente la lite. Perché noi italiani siamo così: bravissimi a trasformare la farsa in tragedia ma purtroppo eccellenti anche nel viceversa. Un tratto del nostro carattere per il quale pare essere sempre tempo.

Autunno caldo

Il garrito incessante di un gabbiano riecheggia oltre i faraglioni di mezzogiorno illuminati da un accecante sole pomeridiano, mentre con un piccolo colpo di retromarcia lascio che la catena dell’ancora si distenda opportunamente. Cala Brigantina offre un ridosso sufficiente dalla leggera tramontana prevista per questa notte, e anche dai modesti residui di onda che altrimenti, in assenza di un vento deciso, potrebbero disturbare il riposo notturno.

La bianca scogliera di monte Guarniere, chiazzata di verde da una vegetazione bassa e stentata, incombe a picco sul mare incastonando nella bellezza un ancoraggio che più tranquillo non si potrebbe desiderare: non un solo rumore disturba la quiete assoluta di questo ottobre inoltrato a Palmarola, un’isola meravigliosa che in estate sconta la vicinanza a Roma e lo sciame di barche e gommoni che arrivano da Ponza. Ero qui due mesi fa, nel pieno della stagione turistica e l’atmosfera era di tutt’altro genere.

Fa ancora caldo, decisamente troppo per essere autunno, ma faccio buon viso al cattivo gioco dei cambiamenti climatici e ne approfitto per fare un tuffo in quest’acqua cristallina e tonificante. A parte Piazza Grande, nessun’altra barca a godere di questo incanto di madre natura; i vantaggi del “fuori stagione” che però, viste le temperature, è un fuori stagione solo sul calendario. Probabilmente, il periodo migliore per navigare nel Tirreno è diventato questo: clima mite e pochissime barche in giro, così poche che stamattina ho ottenuto senza difficoltà il permesso di accostare in banchina a Ponza; provateci ad agosto!

Ogni tanto fa capolino una mosca mezzo addormentata che ronza un po’ sottocoperta senza troppa convinzione; lo fa con una lentezza sufficiente a darmi il tempo di prendere la mira con la racchetta elettrica, quella che si usa per le zanzare, ed eliminarne per sempre il fastidio. Altri disturbi non ce ne sono, a parte una barca che arriva in serata e propone la sua compilation musicale a un volume ferragostano. Nella pausa fra due brani, suono la tromba da allarme generale e gli urlo, per favore, di abbassare. Chissà se a sortire l’effetto è la tromba, l’urlo o il “per favore”, fatto sta che immediatamente abbassano e nella piccola baia torna la quiete.

Già, la quiete. Una volta era questo uno dei miei obiettivi principali andando per mare; negli ultimi tempi si è aggiunto il fresco. Se il primo scopo può dirsi pienamente centrato durante questa navigazione, il secondo è stato raggiunto solo a tratti. Un paio di giorni fa il termometro sottocoperta ha sfiorato i trenta gradi; incredibile e preoccupante. Non basta il pensiero delle bollette del gas, che in questo modo si alleggeriscono, a consolare.

La quiete, dicevo. Quella meravigliosa sensazione che si prova calando l’ancora in una rada deserta, in una baia protetta, al riparo di un frangiflutti, dopo una navigazione impegnativa, forse una bolina. Si raggiunge il ridosso e tutto all’improvviso si placa, la burrasca resta fuori e il ruggito delle onde arriva ormai ovattato e innocuo. Resto fedele al detto che recita: “di bolina vanno solo i regatanti e i cretini” e, non essendo un regatante, quando mi ritrovo con le vele cazzate a ferro vengo colto dall’atroce dubbio di far parte dell’altra categoria. Ieri, però, non è dipeso da me: le previsioni erano di 10/12 nodi, ne sono arrivati quasi 25 e il mare si è inevitabilmente alzato. E allora, giunto dopo alcune ore a destinazione, mi sono goduto ancora di più la quiete dell’ancoraggio.

E quieta, nella notte, dondola Piazza Grande sul suo calumo mentre il tonnetto che strada facendo ha abboccato alla traina finisce parte in padella con pomodorini e capperi e parte a carpaccio con una scorzetta d’arancia e finocchietto selvatico. Se ne spande il profumo, in questo caldo autunno che conserva ancora piacevoli sentori d’estate.

Di queste isole in autunno ho già scritto in passato:
Chiuso per non ferie
Tirreno d’inverno
Omnia mea mecum sunt

Era d’agosto

Il bagaglio di un’ospite, smarrito a Termini, ha ritardato la partenza di ventiquattro ore ma anche quest’anno Piazza Grande è salpata verso il mare aperto discendendo fino alla foce il fiume che l’inverno la custodisce, fino a vedere spalancarsi davanti a sé quella sterminata distesa d’acqua salata che, come nessun’altra medicina al mondo, riesce ad curare l’anima di chi naviga.
Un poco di attenzione nel passaggio fra i fanali rosso e verde per via della secca fangosa non segnalata che si è creata recentemente lungo la riva destra poi, una volta fuori, un vento leggero al traverso ci dà il giusto passo sulla rotta che conduce verso sud. Sarà una navigazione nelle acque domestiche del Tirreno centrale, forzatamente tranquilla per via di un problema di salute che al momento mi sconsiglia di affrontare rotte impegnative come in passato; l’importante, però, è prendere il mare, comunque sia.
C’è una ragione in più, quest’anno, che preme insistentemente in questa direzione: il caldo asfissiante che da oltre due mesi sta soffocando le città italiane. Parto anche per cercare un po’ di refrigerio.

Che sia conseguenza dell’azione dell’uomo o semplicemente una fase ciclica della vita del globo terrestre, il riscaldamento globale è un imprescindibile fatto con cui bisogna fare seriamente i conti: a livello politico con azioni che possano limitarlo o mitigarne gli effetti sulla vita del pianeta e delle persone, a livello personale perseguendo stili di vita che consentano di contenere la sofferenza fisica che spesso genera. Sì, sofferenza fisica: almeno per me, di questo si tratta. Vuoi per l’età non più verde, vuoi per il tanto caldo che negli ultimi dieci anni ho preso navigando in zone dove le temperature sono elevate (Andalusia, Nordafrica, Turchia), da un po’ di tempo quando il termometro supera i trenta gradi avverto un disagio che va oltre il semplice fastidio: non mi piace vivere perennemente bagnato di sudore, dormendo male e poco, cercando di evitare, per quanto possibile, qualunque lavoro o attività fisica che possano peggiorare la sudorazione, e patendo anche in termini di concentrazione mentale.
Una volta il disagio era limitato a due o tre settimane l’anno, ora sono tre o quattro mesi: troppi, davvero troppi.
Si parla sempre più spesso di migrazioni climatiche e se la tendenza attuale verrà confermata credo che saremo in molti a dover considerare la cosa.
Al momento, intanto, cerco un po’ di sollievo nella brezza che spinge Piazza Grande facendola avanzare a circa quattro nodi. Calo anche la traina, dopo aver rifatto il nodo al Rapala per evitare strappi delle prede dovuti all’usura del filo di nylon.

Agosto è il mese delle ferie degli italiani e per questo mi aspetto porti e rade affollate, anche se alcuni amici in giro già da un po’ mi segnalano vuoti sorprendenti e inaspettati: forse la crisi economica ed energetica si stanno veramente facendo sentire anche nelle fasce di popolazione meno disagiate. Ma i nostri connazionali al Ferragosto non rinunciano, quindi per quel periodo prevedo il consueto casino. Che poi, il problema non sta tanto nell’affollamento (tutti hanno il diritto di navigare) quanto nella qualità delle persone che si incontrano per mare ad agosto.
La sensazione è che i più si catapultino sulle proprie imbarcazioni trascinandosi tutte le nevrosi proprie delle città, cercando una prepotente affermazione di sé attraverso un’inutile aggressività che si manifesta negli incroci di rotta o in certe assurdi comportamenti quando si sta all’ancora.
Precedenze non rispettate, gommoni che sfrecciano in planata fra le barche alla fonda, grossi motoscafi che sfiorano le barche a vela a folle velocità alzando onde ripide che spesso provocano danni oltre che ovvio disagio. Quest’anno, mentre gironzolavo cercando il punto giusto per calare l’ancora, un tale già ancorato ha iniziato a recuperare la propria catena frettolosamente e, richiamando la mia attenzione, mi ha detto: «Non ti mettere lì perché mi ci devo mettere io», indicando un punto indefinito della superficie del mare. In pratica, «Il parcheggio l’ho visto prima io» in versione nautica!
Le volte che hanno calato l’ancora a pochi metri da Piazza Grande, ormai non le conto più, limitandomi ad affrontarle con rassegnata pacatezza.
Il mare è rispetto, solo con la cultura del mare ci può essere spazio per tutti. Ma forse non solo in mare.

A Ponza, impossibile trovare un posto al pontile: ma con quei prezzi, se pure fosse… Per fortuna c’è Khaled, che per dieci euro fa il taxi-boat con le barche alla fonda al Frontone, la spiaggia vicino al porto. Puntuale, efficiente, cortese, offre un servizio utile che permette, a chi lo desidera, di fare comunque due passi a terra.
E, sempre per fortuna, Piazza Grande ha due pannelli solari che nelle giornate estive erogano quasi 1 kWh al giorno, consentendo ai servizi di bordo di funzionare regolarmente senza la necessità di andare in banchina per ricaricare dalla rete elettrica; alla faccia di Putin!
Sempre belle le Pontine, ed effettivamente noto meno barche del solito per il periodo. Certo, il via vai di gommoni e barchini è quello consueto ma alle sette di sera fanno tutti ritorno in porto restituendo quiete alle rade che spesso impestano con il loro rumoroso sciamare, apparentemente vacuo e senza meta.
Non trovo però un po’ di refrigerante sollievo: anche se le temperature la sera calano, la barca restituisce nella notte il calore accumulato durante il giorno rendendo poco confortevole il riposo notturno.
Per dare un’idea: di giorno le stoviglie riposte negli stipetti sono calde al tatto; mai successo prima di quest’anno.

Ci spostiamo verso sud, facendo tappa a Torre del Greco. Sono stato diverse volte a Napoli, anche in barca, ma non conosco nessuna delle cittadine della fascia costiera, per questo accolgo con favore la disponibilità di un’amica, ospite in passato di Piazza Grande, a trovarci un posto in porto. Una sosta utile anche per fare cambusa e rifornimento di acqua. La città non si può certo definire bella ma, come un po’ in tutta la zona, la carica di umanità e simpatia delle persone fa passare in secondo piano il degrado e la sporcizia (anche se venendo da Roma non sono nella posizione più adatta a notare certe cose).
Che il posto non sia proprio tranquillo lo attesta anche la curiosa abitudine di proteggere i citofoni con una grata di ferro.
Mangio uno dei più buoni casatielli della mia vita che aggiunge una grassa tessera al mosaico adiposo che si va componendo sul mio addome. Ma d’altra parte, l’eterno dubbio resta irrisolto: meglio essere magri o felici? Ci penso su spalmando di alici il tipico pane torrese a base di grano duro, secondo la ricetta locale. Poi molliamo le cime alla volta dell’isola più bella del Tirreno e forse d’Italia (insieme a Pantelleria).

Volendo definire Procida con un solo termine, direi verace. A differenza di quasi tutte le altre piccole isole italiane non si è trasformata in un’industria per il turismo di lusso ma conserva quei tratti paesani che solo nell’entroterra continentale si riescono a volte ancora a trovare. Alcuni angoli, poi, fatti di piccoli archi e vicoli a gradini, rasentano l’iconografia immaginaria della marina dove, prima o poi, ci si aspetta sbarchino i Turchi annunciati dal suono a distesa delle campane. A sventolare sulle teste dei turisti, i panni stesi alle finestre: una delle immagini più belle da vedere nei centri storici ormai tutti invasi dalle insegne dei marchi internazionali dell’alta moda.
Il porto è un salasso: 130 euro per una notte. Ma c’è mio figlio a bordo, ci tengo a fargli vedere l’isola. Alla Corricella si commuove anche lui di fronte a tanta bellezza: qui era il bar di Troisi nel film Il postino (la casa, invece, era a Salina). Assaggiamo le lingue di Procida, un dolce da colazione a base di crema pasticcera: niente male davvero

Sfiorata Ischia, dove passiamo un paio di notti alla fonda, ci muoviamo alla volta della Costiera amalfitana, costeggiandola interamente e godendo di un panorama davvero unico. Colpisce passare dal disordine dell’area napoletana alla cura maniacale che si nota in ogni casa che si affaccia sul mare in questo tratto di costa. Purtroppo il traffico è davvero intenso, spesso insostenibile: un viavai incessante di piccoli traghetti e soprattutto di motoscafi con enormi motorizzazioni che fanno gite giornaliere con i turisti, per lo più americani e giapponesi, sfrecciando fra le barche all’ancora e creando un moto ondoso incrociato che rende impossibile anche solo fare un bagno intorno alla propria barca. Mare Forza yacht, praticamente (lo so, la forza è del vento, ma mi sia concesso).
Se crisi c’è, non è da queste parti.

Per trovare un po’ di quiete ce ne andiamo a Salerno. Se c’è una cosa che mi piace è arrivare in barca nelle grandi città. Intendiamoci, non che non mi piacciano i porticcioli pittoreschi delle isolette (stile Grecia, per capirsi), ma entrare in una grande città che magari trasuda storia da ognuno dei palazzi che compongono la linea di edifici del fronte mare ha un fascino per me incomparabile.
A Salerno sono già stato tanti anni fa, con la barca precedente, e tornarci non fa che rinnovare il ricordo piacevole che ne avevo. Il centro storico oltre che molto bello è davvero ben tenuto; pulito, curato, ordinato ma non per questo non vissuto. Verace anche lui.
Peccato solo per l’orribile costruzione a esedra, eretta recentemente proprio sul porto commerciale e non ancora ultimata: sproporzionata rispetto agli edifici circostanti, non ha uno stile compatibile con le costruzioni preesistenti; anzi, non ha proprio uno stile, e le colonne che la adornano su tutti i piani appaiono grossolane quanto inutili, sia funzionalmente che esteticamente.

Una cosa colpisce navigando in Campania: la musica. Ormai da anni, tutti – bar, esercizi commerciali o privati cittadini – si sentono in dovere di diffondere la loro musica (musica? Mah!) urbi et orbi ad un volume da discoteca. Non c’è rada o porto che in estate non abbia la sua martellante e insulsa colonna sonora: un disturbo acustico permanente, a tutte le ore, soprattutto serali. Perché il sacrosanto diritto di alcuni di divertirsi debba prevalere sul diritto di tanti alla quiete e al riposo non lo capirò mai, ma almeno in Campania, invece del solito estivo tormentone ispanico o di un anonimo tunz-tunz, c’è musica napoletana, melodica, arrangiata, suonata da musicisti capaci.
Una sera, cenando in una trattoria in un vicolo, siamo stati allietati durante tutto il pasto dalle canzoni di Renato Carosone. Quale migliore sottofondo per un piatto di linguine con pesce spada e friggitelli (un accostamento ardito ma vincente)? E al momento dell’amaro, inaspettatamente, è arrivata la melodia di Era de maggio, cantata da Roberto Murolo: un’immortale poesia in musica!

Di fresco, purtroppo, neanche l’ombra (è il caso di dirlo!), né in navigazione né tantomeno a terra, ma quanta poesia si respira da queste parti, in ogni luogo! Siamo lontani anni luce dall’asettico aspetto di molte rinomate località di vacanza, confezionate a misura di turista dopo una valutazione preventiva del suo portafogli. Qui in Campania tutto ancora ha il sapore della vita quotidiana e non del baraccone stagionale; resiste un’identità che è riuscita a non omologarsi pur stando al passo con i tempi e soprattutto senza chiudersi alle contaminazioni esterne. Non è un caso che i bar mettano spesso musica di Pino Daniele: identità e contaminazione, appunto, canzone napoletana e ritmi jazz/blues.

Torno in barca con uno dei migliori equipaggi che abbia mai avuto, simpatico e capace; il clima a bordo è stato sempre sereno, amichevole, collaborativo, sia sopra che sottocoperta. Aspetto che tutti vadano a nanna poi metto la testa fuori dal tambucio: una falce di luna spunta dietro la collina, le luci delle case si riflettono sulla superficie appena increspata del mare e una lievissima brezza spira da terra: tutto appare armonioso e silenzioso. È ancora pace, è ancora amore; anche se fa davvero tanto caldo.

La nave faro – Mathijs Deen

Se si definisce marinaio colui che naviga, essere imbarcato su una nave che sta sempre ferma, ancorata nello stesso punto, può generare un senso di squalifica, di frustrazione, in chi si fa parte dell’equipaggio, soprattutto se ha vissuto o anche solo sognato grandi avventure per i sette mari.

Una nave-faro serve a posizionare una segnalazione luminosa in un punto dove non è possibile costruire un vero faro. O meglio, serviva, perché ormai le navi-faro sono state sostituite da boe automatiche. Questo romanzo racconta la vita a bordo di una di esse, centrandosi soprattutto sull’aspetto umano, sul profilo dei marinai che ne formano l’equipaggio, in un equilibrio che viene improvvisamente e curiosamente rotto dall’arrivo di un capretto vivo che, nelle intenzioni del cuoco, è destinato a diventare uno stufato.

I cambi di turno trasbordando su piccoli battelli raggiunti attraverso la biscaccina in un mare agitato, la nebbia che improvvisa cala e rende la nave ferma un invisibile bersaglio la cui unica difesa sono le segnalazioni sonore previste, i ricordi che si affollano alla mente dei marinai tracciandone la personalità e le cicatrici dell’anima.

Paradossalmente, come l’autore fa dire a un personaggio, chi è imbarcato su una nave-faro vive sul mare, gli altri si limitano ad attraversarlo da un porto all’altro, da terra a terra, avendo il mare come intervallo e non come destinazione. Il mare in questione, in questo libro, è il Mare del Nord di fronte all’Olanda.

Mi ha ricordato Marinai perduti di Jean-Claude Izzo, un bellissimo romanzo simile a questo non nelle vicende ma nella descrizione della vita di mare: non avventura ma routine, non gloria ma sopraffazione, non donne ma sudore e fatica. Da questo punto di vista il mare è un grande inganno per i sognatori. Il mare dà, il mare prende.

La tempesta corsa

Alcuni giorni fa c’è stata una forte tempesta sulla costa ovest della Corsica che ha causato l’affondamento di parecchie barche. Avendo letto su Facebook alcuni suggerimenti piuttosto pittoreschi su come affrontare situazioni del genere, ho scritto un articolo per provare a fare un poco di chiarezza e che Solovela ha avuto la bontà di pubblicare.

Lo trovate qui: https://www.solovela.net/art…/3/barche-tempesta/1352339/la

Per leggerlo occorre registrarsi, ma la registrazione è gratuita.

Intervista su La vela di Odessa

Sono stato recentemente intervistato da SVN Solovelanet a proposito di Odessa e del libro che ho scritto sulla mia navigazione in Mar Nero.
Se da un lato la cosa mi inorgoglisce per il prestigio di cui gode la rivista, dall’altro mi duole che sia una guerra a riportare l’attenzione mediatica su quel viaggio.
Quella a Odessa resta una delle più belle esperienze di mare che abbia mai fatto.
L’articolo completo è qui: SVN solovelanet – SVN 64 (uberflip.com)
Il libro è questo: https://lucianopiazza.com/la-vela-di-odessa/