Unn’è tempu

La Sicilia, a torto o a ragione, viene generalmente associata al mare e al turismo estivo. Andarci fuori stagione costituisce la rottura di uno schema, cosa divenuta quasi obbligatoria un po’ ovunque se si vuole ricercare la veracità di un luogo invece di viverlo nei mesi in cui si acchitta per assecondare le esigenze e gli stereotipi di chi lo visita distrattamente. Il fuori stagione consente inoltre di schivare il caldo asfissiante e l’affollamento turistico soffocante. Ho chiesto come si dicesse “fuori stagione” in dialetto siciliano: “unn’è tempu“, non è tempo, mi è stato detto; un’espressione generica e spendibile in diversi ambiti. Io credo invece che il tempo di viaggiare sia diventato proprio quello che i più considerano “fuori tempo”: in epoca di esplosione demografica muoversi controcorrente è quasi imprescindibile, doveroso.

La temperatura a Palermo è comunque mite anche in autunno, forse più per le normali caratteristiche climatiche della città che per gli effetti del riscaldamento globale, anche se durante alcune giornate del mio soggiorno un libeccio deciso ha portato nuvole e pioggia creando una cappa di leggera cupezza. Anche questo, in fondo, è uno stereotipo che si rompe, quello del legame inscindibile della Sicilia con il sole: e io, gli stereotipi, li detesto. La Palermo che cerco in questi giorni non è quella da cartolina, fatta di spiagge e mare bello. Quando visito una città cerco di coglierne l’anima girando per le strade, osservando le persone e il modo in cui vivono, si muovono e si relazionano tra loro, guardando il funzionamento del tessuto economico e sociale, o anche leggendo qualche libro che la racconti da un punto di vista particolare. Forse è una pretesa, e ancora di più lo è per Palermo che certamente è una città molto complessa da comprendere, quasi da sfogliare strato per strato.


Un’interrogativo che mi pongo spesso quando sono in un luogo del nostro continente geograficamente lontano dalle sedi delle principali istituzioni della UE è quanta Europa ci sia, cosa sia sorto dalla mescola di usi e tradizioni locali secolari con le indicazioni culturali (nel senso ampio del termine) dell’Unione Europea che cerca, giustamente, di creare uno standard generale e uguale per tutti. A Palermo la risposta appare piuttosto semplice: di Europa ce n’è pochissima, quasi nulla. Per rendersene conto basta passeggiare per la città, sia nei quartieri eleganti attorno al Politeama e al teatro Massimo, che nelle zone più popolari, come la Kalsa, la Vucciria o Ballarò. Nelle prime, una borghesia raffinata e colta dà l’impressione di essere saldamente ancorata, per scelta o costrizione, alle proprie abitudini e al proprio modo d’essere, mentre nelle seconde il degrado raggiunge purtroppo livelli da metropoli nordafricana e i mercati storici famosi, come quello del Capo, inscenano uno spettacolo molto pittoresco e affascinante ma certamente non al passo con i tempi e per questo forse unico in Italia e in Europa. In alcuni angoli sembra di essere negli anni Sessanta/Settanta.

Va detto però che, al netto di questo degrado (che a Ballarò è davvero sconvolgente), Palermo è un bellissimo agglomerato urbano mediterraneo che mischia fasti antichi, per lo più di epoca arabo-normanna o barocca, con costruzioni del periodo umbertino, siano esse villini liberty o palazzi borghesi, e con la fitta selva di brutti edifici costruiti dal secondo dopoguerra in poi durante quello che è passato alla storia come il sacco di Palermo, operato dalla mafia con la complicità dei politici di allora. Si può dire quindi che la città ha mantenuto sempre costantemente la propria identità pur avendo cambiato spesso aspetto. A differenza di altre città italiane, non ha subito un’immigrazione di proporzioni tali da stravolgerne l’anima; anche la presenza attuale di extracomunitari non sembra numericamente in grado di incidere troppo. Gli odori delle spezie esotiche che si sprigionano da alcune finestre si fondono con l’odore del mare, e già questo basta per farmi stare bene e sentire a casa.


Già, la mafia: un marchio di infamia che tutti i palermitani, anche quelli onesti, si portano purtroppo addosso. Secondo Roberto Alajmo, autore del breve saggio Palermo è una cipolla, si è generato un senso di colpa negli abitanti della città per aver esportato la mafia nel mondo. Che il fenomeno mafioso non sia più subìto, accettato o minimizzato in modo omertoso bensì finalmente osteggiato dalla società civile si percepisce chiaramente: ovunque ci sono monumenti, steli, lapidi, murales (istituzionali o spontanei) che celebrano i caduti nella guerra alla criminalità organizzata. A Capaci è impossibile non provare un forte turbamento guardando la casupola bianca da dove è stato azionato il telecomando che ha fatto esplodere la bomba che ha provocato la morte di Falcone e degli altri che erano con lui: di notte viene illuminata con un fascio di luce che fa spiccare le parole “No mafia” poste sulla facciata. Come pure si resta turbati camminando lungo certe strade, sapendo che sono state il teatro di omicidi efferati compiuti in pieno giorno nella quasi certezza dell’impunità.

Forse non c’è stata quella rivoluzione culturale che è sempre parsa lì lì per esplodere dopo le stragi dei primi anni Novanta (ma del resto l’Italia tutta ha disatteso le speranze sorte in quegli anni, dopo Tangentopoli), ma certamente Palermo si è ribellata e le conseguenze si sono viste. Quella mafia è stata sconfitta, non esiste più. Resta da vedere se insieme sia sparito anche il tragico dilemma che, sempre secondo Alajmo, doveva affrontare qualunque imprenditore prima di avviare un’attività, e cioè quello fra un’umiliante connivenza e una resistenza eroica che aveva alte probabilità di risolversi nel tragico modo in cui è finito Libero Grassi. L’impressione comunque è di una città decisamente più tranquilla e sicura rispetto anche a pochi decenni fa e che meriterebbe di più di quello che al momento si ritrova ad avere.


A passeggio per il centro incappo nel set cinematografico de I leoni di Sicilia, il best seller che ha raccontato la saga familiare dei Florio, partiti praticamente dal nulla e arrivati a essere una delle famiglia più ricche d’Europa nel giro di un paio di generazioni, per poi dissolversi con la stessa rapidità con cui avevano accumulato la loro ricchezza. Il romanzo evidenzia soprattutto gli aspetti frivoli di una storia che è invece interessante da molti altri punti di vista, speriamo quindi che il film banalizzi un po’ meno le vicende. E il pensiero va al Gattopardo di Visconti, proprio mentre cammino nella bellissima piazza su cui affaccia il palazzo Valguarnera-Gangi al cui interno è stata girata la famosa scena del ballo.

Ma Palermo, come tutta la Sicilia, è anche il trionfo della gastronomia, che spazia dal salato al dolce. Per gusto personale preferisco il primo al secondo (cannoli a parte) ma la fantasia dei siciliani nella preparazione del cibo è davvero inarrivabile, sia che si tratti di street food che di cucina raffinata. Resta un’annosa questione, quella della declinazione, al maschile o al femminile, di uno dei prodotti alimentari più conosciuti di tutta l’isola: arancino o arancina? Nel dubbio, facendo l’ordinazione al bancone di un bar, ho troncato la vocale finale biascicando fintamente, perché su certe cose da queste parti non è lecito scherzare, proprio come succede a Roma quando si sente dire della carbonara fatta con la pancetta anziché con il guanciale: si rischia seriamente la lite. Perché noi italiani siamo così: bravissimi a trasformare la farsa in tragedia ma purtroppo eccellenti anche nel viceversa. Un tratto del nostro carattere per il quale pare essere sempre tempo.

Autunno caldo

Il garrito incessante di un gabbiano riecheggia oltre i faraglioni di mezzogiorno illuminati da un accecante sole pomeridiano, mentre con un piccolo colpo di retromarcia lascio che la catena dell’ancora si distenda opportunamente. Cala Brigantina offre un ridosso sufficiente dalla leggera tramontana prevista per questa notte, e anche dai modesti residui di onda che altrimenti, in assenza di un vento deciso, potrebbero disturbare il riposo notturno.

La bianca scogliera di monte Guarniere, chiazzata di verde da una vegetazione bassa e stentata, incombe a picco sul mare incastonando nella bellezza un ancoraggio che più tranquillo non si potrebbe desiderare: non un solo rumore disturba la quiete assoluta di questo ottobre inoltrato a Palmarola, un’isola meravigliosa che in estate sconta la vicinanza a Roma e lo sciame di barche e gommoni che arrivano da Ponza. Ero qui due mesi fa, nel pieno della stagione turistica e l’atmosfera era di tutt’altro genere.

Fa ancora caldo, decisamente troppo per essere autunno, ma faccio buon viso al cattivo gioco dei cambiamenti climatici e ne approfitto per fare un tuffo in quest’acqua cristallina e tonificante. A parte Piazza Grande, nessun’altra barca a godere di questo incanto di madre natura; i vantaggi del “fuori stagione” che però, viste le temperature, è un fuori stagione solo sul calendario. Probabilmente, il periodo migliore per navigare nel Tirreno è diventato questo: clima mite e pochissime barche in giro, così poche che stamattina ho ottenuto senza difficoltà il permesso di accostare in banchina a Ponza; provateci ad agosto!

Ogni tanto fa capolino una mosca mezzo addormentata che ronza un po’ sottocoperta senza troppa convinzione; lo fa con una lentezza sufficiente a darmi il tempo di prendere la mira con la racchetta elettrica, quella che si usa per le zanzare, ed eliminarne per sempre il fastidio. Altri disturbi non ce ne sono, a parte una barca che arriva in serata e propone la sua compilation musicale a un volume ferragostano. Nella pausa fra due brani, suono la tromba da allarme generale e gli urlo, per favore, di abbassare. Chissà se a sortire l’effetto è la tromba, l’urlo o il “per favore”, fatto sta che immediatamente abbassano e nella piccola baia torna la quiete.

Già, la quiete. Una volta era questo uno dei miei obiettivi principali andando per mare; negli ultimi tempi si è aggiunto il fresco. Se il primo scopo può dirsi pienamente centrato durante questa navigazione, il secondo è stato raggiunto solo a tratti. Un paio di giorni fa il termometro sottocoperta ha sfiorato i trenta gradi; incredibile e preoccupante. Non basta il pensiero delle bollette del gas, che in questo modo si alleggeriscono, a consolare.

La quiete, dicevo. Quella meravigliosa sensazione che si prova calando l’ancora in una rada deserta, in una baia protetta, al riparo di un frangiflutti, dopo una navigazione impegnativa, forse una bolina. Si raggiunge il ridosso e tutto all’improvviso si placa, la burrasca resta fuori e il ruggito delle onde arriva ormai ovattato e innocuo. Resto fedele al detto che recita: “di bolina vanno solo i regatanti e i cretini” e, non essendo un regatante, quando mi ritrovo con le vele cazzate a ferro vengo colto dall’atroce dubbio di far parte dell’altra categoria. Ieri, però, non è dipeso da me: le previsioni erano di 10/12 nodi, ne sono arrivati quasi 25 e il mare si è inevitabilmente alzato. E allora, giunto dopo alcune ore a destinazione, mi sono goduto ancora di più la quiete dell’ancoraggio.

E quieta, nella notte, dondola Piazza Grande sul suo calumo mentre il tonnetto che strada facendo ha abboccato alla traina finisce parte in padella con pomodorini e capperi e parte a carpaccio con una scorzetta d’arancia e finocchietto selvatico. Se ne spande il profumo, in questo caldo autunno che conserva ancora piacevoli sentori d’estate.

Di queste isole in autunno ho già scritto in passato:
Chiuso per non ferie
Tirreno d’inverno
Omnia mea mecum sunt

Era d’agosto

Il bagaglio di un’ospite, smarrito a Termini, ha ritardato la partenza di ventiquattro ore ma anche quest’anno Piazza Grande è salpata verso il mare aperto discendendo fino alla foce il fiume che l’inverno la custodisce, fino a vedere spalancarsi davanti a sé quella sterminata distesa d’acqua salata che, come nessun’altra medicina al mondo, riesce ad curare l’anima di chi naviga.
Un poco di attenzione nel passaggio fra i fanali rosso e verde per via della secca fangosa non segnalata che si è creata recentemente lungo la riva destra poi, una volta fuori, un vento leggero al traverso ci dà il giusto passo sulla rotta che conduce verso sud. Sarà una navigazione nelle acque domestiche del Tirreno centrale, forzatamente tranquilla per via di un problema di salute che al momento mi sconsiglia di affrontare rotte impegnative come in passato; l’importante, però, è prendere il mare, comunque sia.
C’è una ragione in più, quest’anno, che preme insistentemente in questa direzione: il caldo asfissiante che da oltre due mesi sta soffocando le città italiane. Parto anche per cercare un po’ di refrigerio.

Che sia conseguenza dell’azione dell’uomo o semplicemente una fase ciclica della vita del globo terrestre, il riscaldamento globale è un imprescindibile fatto con cui bisogna fare seriamente i conti: a livello politico con azioni che possano limitarlo o mitigarne gli effetti sulla vita del pianeta e delle persone, a livello personale perseguendo stili di vita che consentano di contenere la sofferenza fisica che spesso genera. Sì, sofferenza fisica: almeno per me, di questo si tratta. Vuoi per l’età non più verde, vuoi per il tanto caldo che negli ultimi dieci anni ho preso navigando in zone dove le temperature sono elevate (Andalusia, Nordafrica, Turchia), da un po’ di tempo quando il termometro supera i trenta gradi avverto un disagio che va oltre il semplice fastidio: non mi piace vivere perennemente bagnato di sudore, dormendo male e poco, cercando di evitare, per quanto possibile, qualunque lavoro o attività fisica che possano peggiorare la sudorazione, e patendo anche in termini di concentrazione mentale.
Una volta il disagio era limitato a due o tre settimane l’anno, ora sono tre o quattro mesi: troppi, davvero troppi.
Si parla sempre più spesso di migrazioni climatiche e se la tendenza attuale verrà confermata credo che saremo in molti a dover considerare la cosa.
Al momento, intanto, cerco un po’ di sollievo nella brezza che spinge Piazza Grande facendola avanzare a circa quattro nodi. Calo anche la traina, dopo aver rifatto il nodo al Rapala per evitare strappi delle prede dovuti all’usura del filo di nylon.

Agosto è il mese delle ferie degli italiani e per questo mi aspetto porti e rade affollate, anche se alcuni amici in giro già da un po’ mi segnalano vuoti sorprendenti e inaspettati: forse la crisi economica ed energetica si stanno veramente facendo sentire anche nelle fasce di popolazione meno disagiate. Ma i nostri connazionali al Ferragosto non rinunciano, quindi per quel periodo prevedo il consueto casino. Che poi, il problema non sta tanto nell’affollamento (tutti hanno il diritto di navigare) quanto nella qualità delle persone che si incontrano per mare ad agosto.
La sensazione è che i più si catapultino sulle proprie imbarcazioni trascinandosi tutte le nevrosi proprie delle città, cercando una prepotente affermazione di sé attraverso un’inutile aggressività che si manifesta negli incroci di rotta o in certe assurdi comportamenti quando si sta all’ancora.
Precedenze non rispettate, gommoni che sfrecciano in planata fra le barche alla fonda, grossi motoscafi che sfiorano le barche a vela a folle velocità alzando onde ripide che spesso provocano danni oltre che ovvio disagio. Quest’anno, mentre gironzolavo cercando il punto giusto per calare l’ancora, un tale già ancorato ha iniziato a recuperare la propria catena frettolosamente e, richiamando la mia attenzione, mi ha detto: «Non ti mettere lì perché mi ci devo mettere io», indicando un punto indefinito della superficie del mare. In pratica, «Il parcheggio l’ho visto prima io» in versione nautica!
Le volte che hanno calato l’ancora a pochi metri da Piazza Grande, ormai non le conto più, limitandomi ad affrontarle con rassegnata pacatezza.
Il mare è rispetto, solo con la cultura del mare ci può essere spazio per tutti. Ma forse non solo in mare.

A Ponza, impossibile trovare un posto al pontile: ma con quei prezzi, se pure fosse… Per fortuna c’è Khaled, che per dieci euro fa il taxi-boat con le barche alla fonda al Frontone, la spiaggia vicino al porto. Puntuale, efficiente, cortese, offre un servizio utile che permette, a chi lo desidera, di fare comunque due passi a terra.
E, sempre per fortuna, Piazza Grande ha due pannelli solari che nelle giornate estive erogano quasi 1 kWh al giorno, consentendo ai servizi di bordo di funzionare regolarmente senza la necessità di andare in banchina per ricaricare dalla rete elettrica; alla faccia di Putin!
Sempre belle le Pontine, ed effettivamente noto meno barche del solito per il periodo. Certo, il via vai di gommoni e barchini è quello consueto ma alle sette di sera fanno tutti ritorno in porto restituendo quiete alle rade che spesso impestano con il loro rumoroso sciamare, apparentemente vacuo e senza meta.
Non trovo però un po’ di refrigerante sollievo: anche se le temperature la sera calano, la barca restituisce nella notte il calore accumulato durante il giorno rendendo poco confortevole il riposo notturno.
Per dare un’idea: di giorno le stoviglie riposte negli stipetti sono calde al tatto; mai successo prima di quest’anno.

Ci spostiamo verso sud, facendo tappa a Torre del Greco. Sono stato diverse volte a Napoli, anche in barca, ma non conosco nessuna delle cittadine della fascia costiera, per questo accolgo con favore la disponibilità di un’amica, ospite in passato di Piazza Grande, a trovarci un posto in porto. Una sosta utile anche per fare cambusa e rifornimento di acqua. La città non si può certo definire bella ma, come un po’ in tutta la zona, la carica di umanità e simpatia delle persone fa passare in secondo piano il degrado e la sporcizia (anche se venendo da Roma non sono nella posizione più adatta a notare certe cose).
Che il posto non sia proprio tranquillo lo attesta anche la curiosa abitudine di proteggere i citofoni con una grata di ferro.
Mangio uno dei più buoni casatielli della mia vita che aggiunge una grassa tessera al mosaico adiposo che si va componendo sul mio addome. Ma d’altra parte, l’eterno dubbio resta irrisolto: meglio essere magri o felici? Ci penso su spalmando di alici il tipico pane torrese a base di grano duro, secondo la ricetta locale. Poi molliamo le cime alla volta dell’isola più bella del Tirreno e forse d’Italia (insieme a Pantelleria).

Volendo definire Procida con un solo termine, direi verace. A differenza di quasi tutte le altre piccole isole italiane non si è trasformata in un’industria per il turismo di lusso ma conserva quei tratti paesani che solo nell’entroterra continentale si riescono a volte ancora a trovare. Alcuni angoli, poi, fatti di piccoli archi e vicoli a gradini, rasentano l’iconografia immaginaria della marina dove, prima o poi, ci si aspetta sbarchino i Turchi annunciati dal suono a distesa delle campane. A sventolare sulle teste dei turisti, i panni stesi alle finestre: una delle immagini più belle da vedere nei centri storici ormai tutti invasi dalle insegne dei marchi internazionali dell’alta moda.
Il porto è un salasso: 130 euro per una notte. Ma c’è mio figlio a bordo, ci tengo a fargli vedere l’isola. Alla Corricella si commuove anche lui di fronte a tanta bellezza: qui era il bar di Troisi nel film Il postino (la casa, invece, era a Salina). Assaggiamo le lingue di Procida, un dolce da colazione a base di crema pasticcera: niente male davvero

Sfiorata Ischia, dove passiamo un paio di notti alla fonda, ci muoviamo alla volta della Costiera amalfitana, costeggiandola interamente e godendo di un panorama davvero unico. Colpisce passare dal disordine dell’area napoletana alla cura maniacale che si nota in ogni casa che si affaccia sul mare in questo tratto di costa. Purtroppo il traffico è davvero intenso, spesso insostenibile: un viavai incessante di piccoli traghetti e soprattutto di motoscafi con enormi motorizzazioni che fanno gite giornaliere con i turisti, per lo più americani e giapponesi, sfrecciando fra le barche all’ancora e creando un moto ondoso incrociato che rende impossibile anche solo fare un bagno intorno alla propria barca. Mare Forza yacht, praticamente (lo so, la forza è del vento, ma mi sia concesso).
Se crisi c’è, non è da queste parti.

Per trovare un po’ di quiete ce ne andiamo a Salerno. Se c’è una cosa che mi piace è arrivare in barca nelle grandi città. Intendiamoci, non che non mi piacciano i porticcioli pittoreschi delle isolette (stile Grecia, per capirsi), ma entrare in una grande città che magari trasuda storia da ognuno dei palazzi che compongono la linea di edifici del fronte mare ha un fascino per me incomparabile.
A Salerno sono già stato tanti anni fa, con la barca precedente, e tornarci non fa che rinnovare il ricordo piacevole che ne avevo. Il centro storico oltre che molto bello è davvero ben tenuto; pulito, curato, ordinato ma non per questo non vissuto. Verace anche lui.
Peccato solo per l’orribile costruzione a esedra, eretta recentemente proprio sul porto commerciale e non ancora ultimata: sproporzionata rispetto agli edifici circostanti, non ha uno stile compatibile con le costruzioni preesistenti; anzi, non ha proprio uno stile, e le colonne che la adornano su tutti i piani appaiono grossolane quanto inutili, sia funzionalmente che esteticamente.

Una cosa colpisce navigando in Campania: la musica. Ormai da anni, tutti – bar, esercizi commerciali o privati cittadini – si sentono in dovere di diffondere la loro musica (musica? Mah!) urbi et orbi ad un volume da discoteca. Non c’è rada o porto che in estate non abbia la sua martellante e insulsa colonna sonora: un disturbo acustico permanente, a tutte le ore, soprattutto serali. Perché il sacrosanto diritto di alcuni di divertirsi debba prevalere sul diritto di tanti alla quiete e al riposo non lo capirò mai, ma almeno in Campania, invece del solito estivo tormentone ispanico o di un anonimo tunz-tunz, c’è musica napoletana, melodica, arrangiata, suonata da musicisti capaci.
Una sera, cenando in una trattoria in un vicolo, siamo stati allietati durante tutto il pasto dalle canzoni di Renato Carosone. Quale migliore sottofondo per un piatto di linguine con pesce spada e friggitelli (un accostamento ardito ma vincente)? E al momento dell’amaro, inaspettatamente, è arrivata la melodia di Era de maggio, cantata da Roberto Murolo: un’immortale poesia in musica!

Di fresco, purtroppo, neanche l’ombra (è il caso di dirlo!), né in navigazione né tantomeno a terra, ma quanta poesia si respira da queste parti, in ogni luogo! Siamo lontani anni luce dall’asettico aspetto di molte rinomate località di vacanza, confezionate a misura di turista dopo una valutazione preventiva del suo portafogli. Qui in Campania tutto ancora ha il sapore della vita quotidiana e non del baraccone stagionale; resiste un’identità che è riuscita a non omologarsi pur stando al passo con i tempi e soprattutto senza chiudersi alle contaminazioni esterne. Non è un caso che i bar mettano spesso musica di Pino Daniele: identità e contaminazione, appunto, canzone napoletana e ritmi jazz/blues.

Torno in barca con uno dei migliori equipaggi che abbia mai avuto, simpatico e capace; il clima a bordo è stato sempre sereno, amichevole, collaborativo, sia sopra che sottocoperta. Aspetto che tutti vadano a nanna poi metto la testa fuori dal tambucio: una falce di luna spunta dietro la collina, le luci delle case si riflettono sulla superficie appena increspata del mare e una lievissima brezza spira da terra: tutto appare armonioso e silenzioso. È ancora pace, è ancora amore; anche se fa davvero tanto caldo.

Chiuso per non ferie

Il clangore dell’ancora del traghetto, che lasciata cadere di peso trascina la sua grossa catena a maglia rinforzata e la fa scorrere nell’occhio di cubia, desta il porto dal torpore autunnale. Il grosso mezzo ruota su se stesso al centro del bacino, davvero a pochi metri da Piazza Grande ormeggiata sul molo opposto, e  con un breve ruggito del motore e il ribollio delle acque intorno porta la poppa in banchina. La manovra provoca una vibrazione che che si ripercuote sulla mia piccola imbarcazione facendo stridere le cime di ormeggio al ritmo della risacca.

La pioggia ha cessato da poco di cadere, il cielo è ancora grigio ma piccoli squarci di azzurro in lontananza promettono momenti di sole nelle prossime ore. La temperatura, comunque, è mite già così. Il basolato del molo, sgombero di persone come mai in estate, è ricoperto da un sottile strato di acqua che qua e là forma qualche piccola pozzanghera. Due uomini in divisa parlano tra loro di fronte ai mezzi navali dei rispettivi corpi di appartenenza, ingannando forse il tempo nella vacuità di incombenze urgenti.

Le isole minori hanno due volti: quello estivo, vacanziero e confusionario, e quello invernale, silenzioso, taciturno, quasi letargico. Andarci fuori dalla stagione turistica, un tempo ne offriva un’immagine arcaica dove emergevano stili di vita ancestrali che il clamore non permetteva di notare. Si potevano ritrovare ritmi di vita più lenti di quelli cittadini o apprezzare le piccole cose, come perdersi in chiacchiere con un locale che disponeva in abbondanza di quella ricchezza che chi vive in città non ha più: il tempo. E con esso la volontà e il piacere di donarlo a un forestiero.

Negli ultimi decenni il turismo – e tutto ciò che gli ruota attorno – ha soppiantato qualunque altra attività economica, e le piccole isole si sono ritrovate così a vivere ogni anno tre mesi di frenesia e nove di attesa che sconfina a volte nella noia. La pesca, complice anche il depauperamento degli stock ittici, è stata abbandonata quasi ovunque e spesso è tenuta in vita dall’ostinazione di alcuni appassionati, ridotta a mera testimonianza del passato. Altre attività, generalmente, nelle isole molto piccole se ci sono sono storicamente sempre state marginali.

Il paese è quasi completamente serrato. La sfilza interminabile di pub, ristoranti, bar, pizzerie e quant’altro ha le saracinesche abbassate e gli ingressi sprangati. Le pergole antistanti, senza tavoli né sedie risposti per proteggerli dalle intemperie, appaiono ingombranti e inutili di fronte al mare. I pochi esercizi commerciali aperti operano a regime ridotto. Tra questi, un paio di negozi di alimentari, la farmacia, un ferramenta, una piccola rivendita di materiale edile: in pratica quelle stesse attività che durante il lockdown sono state le uniche lasciate aperte dal governo perché ritenute indispensabili per la sopravvivenza.

Il destino di questi luoghi, tanto preziosi quanto fragili, sembra ormai segnato, al pari di quello di tanti centri storici delle città italiane: la loro bellezza è anche la loro condanna, perché una politica avida e miope li ha trasformati, o ha lasciato impunemente che si trasformassero, in parchi a tema dove l’elemento umano e sociale è stato messo stupidamente a margine. Un’isola, una citta, un qualunque posto, esistono in quanto tali quando le persone ci abitano, li animano, gli conferiscono un’impronta caratteriale propria, non quando si limitano a inscenare uno spettacolo stagionale per gli avventori.

In mancanza di questo, tutti i luoghi finiscono per somigliarsi e alla prima crisi del turismo, come si è visto a volte durante la pandemia, appariranno come la maschera triste di uno show senza più spettatori. Ribellarsi alla trasformazione del mondo in una Disneyland globale vuol dire salvare i luoghi e consegnarli vivi alle generazioni future.

Rientro a bordo dopo aver fatto un po’ di spesa al supermercato. Sul corso quasi deserto un paio di persone che camminano in senso opposto al mio mi scrutano curiose: le buste della Conad mi indicano implicitamente come uno che abita qui e loro sembrano domandarsi chi sia quest’uomo sconosciuto che ha sull’isola un posto dove cucinare, quindi una casa. I nostri sguardi si incrociano: ricambio il sorriso e il cenno di saluto, anche se la mia casa in questo momento è il mare.

Omnia mea mecum sunt

Non ho mai vissuto stabilmente in barca, pur avendoci trascorso lunghi periodi, anche cinque o sei mesi consecutivi. Mi piace però quando sono ormeggiato in un porto e mi preparo per uscire come se uscissi da casa. Uno sguardo per controllare luci e gas, le chiavi e il cellulare nelle tasche (ultimamente, ahimè, anche la mascherina), poi chiudere il tambuccio e via per le strade della città.

Un centro abitato lo senti tuo se ci abiti, se hai la casa lì; e la barca altro non è che una casa che si sposta con te e ti segue ovunque tu vada. Se poi la stagione turistica è definitivamente conclusa, la barca dà ancora di più la sensazione di una piacevole routine quotidiana, trasmette un senso di appartenenza al luogo che il soggiorno in una qualunque struttura turistica non potrà mai dare.

Omnia mea mecum sunt, chiosava Seneca: tutte le mie cose sono con me. Lui lo diceva per ribadire la sua estraneità ai beni materiali, chi va per mare invece può sposare felicemente questo detto per la ragione opposta.

Ponza, posto libero in transito; tra le cose belle del mare d’inverno.

Tirreno d’inverno

La sveglia è puntata alle sei in considerazione dell’alba che è prevista alle sette. Dato che le giornate si sono accorciate molto vorrei partire con il primissimo chiarore per sfruttare tutte le ore di luce, ma lasciare da soli un ormeggio a pacchetto lungo il fiume è sempre una faccenda lunga e complessa, e quindi finisco con il mollare l’ultima cima che mi vincola alla barca di fianco alle sette passate, sollazzando con lo spettacolo un grosso cigno (sulla foce del Tevere ci sono i cigni) che ha osservato con attenzione ininterrotta tutta la manovra. Ho indosso la cerata completa e gli stivali, più a protezione dell’umidità, che ricompre completamente la coperta di Piazza Grande, che del freddo; l’aria è incredibilmente tiepida per la stagione.

Discendo il fiume a favore di corrente e recupero i parabordi che penzolano ormai inutili sulle murate, mentre ai mie lati sfrecciano alcune piccole barche di pescatori mattinieri e impazienti e sopra la mia testa alcuni gabbiani disegnano volteggiando le prime loro parabole aeree della giornata. Esco dal fiume e mi metto in rotta per Palmarola, cinque miglia a nord di Ponza. Il vento è leggero e le vele hanno bisogno di un po’ di aiuto dal motore per dare una velocità decente. Prendo il mare per rispondere a quel richiamo interiore che chi naviga conosce bene: il mare chiama, soprattutto quando l’anima ha bisogno di essere accarezzata. Qualche giorno da solo a galleggiare sull’infinita distesa azzurra mi aiuterà a fare chiarezza dentro di me su alcune questioni difficili che sto affrontando in questo periodo.

La navigazione scorre tranquilla, prevedibile, senza sorprese, come la costa laziale che sfila alla mia sinistra. Gioco infruttuosamente con la traina, leggo, scrivo, scambio qualche messaggio con un paio di amici, controllo che tutto sia a posto e in sicurezza, mi godo l’atmosfera. Il sole scalda progressivamente la giornata e verso l’ora di pranzo ho rimosso tutti gli strati di abbigliamento che indossavo, fino a restare in maglietta. Passato Capo d’Anzio consumo un rapido pasto a base di focaccia imbottita di prosciutto poi mi gusto il caffè in pozzetto.

Verso le quattro e mezza del pomeriggio, l’incanto di un tramonto spettacolare: il sole si riflette su alcuni cirri sfilacciati marezzando il cielo di un arancione che vira al rosso fino a spegnersi oltre la linea dell’orizzonte. La temperatura dell’aria ovviamente cala e  io ricompongo progressivamente tutta la cipolla di indumenti che avevo sfogliato qualche ora prima.

Il profilo di Palmarola è ben visibile nell’oscurità stemperata da una luna brillante. Alla base dell’isola, disabitata in questa stagione, osservo una decina di luci a pelo d’acqua: troppe per essere barche alla fonda in una sera di novembre. Avvicinandomi scopro essere piccole imbarcazioni da pesca che ciondolano su un mare oleoso e senza vento. 

Raggiungo il punto che ho scelto sulla carta per dare ancora ma trovo una leggera onda morta che di sicuro minerebbe la tranquillità che auspico per la notte, pertanto non libero neppure il ferro dal musone e giro immediatamente la prua per mettermi in rotta per Ponza, dove il ventaglio di possibilità per ancorare è più ampio. Chiaia di luna è esposta allo stesso modo quindi le condizioni meteo saranno con tutta probabilità le stesse ma decido comunque di dare un’occhiata prima di ripiegare su Cala Feola, meno ampia e più profonda. In un oretta scarsa ci sono, ma anche qui mi basta un’occhiata per capire che non è aria. Un grosso catamarano oscilla vistosamente malgrado la maggiore stabilità dei multiscafo alla fonda. 

Ancora mezzora di navigazione e alle otto e mezza calo un generoso calumo che mi garantirà un ancoraggio sicuro. Lascio raffreddare il motore per qualche minuto prima di spegnerlo poi accendo la luce in testa d’albero e scendo sottocoperta a prepararmi la cena.

Le luci delle case che dalle colline che circondano la piccola baia si affacciano sul mare puntinano la notte, luccicando intermittenti attraverso gli oblò della tuga. Ogni tanto si sente il rumore di un entrobordo che rientra in porto e in lontananza l’abbaiare stanco di un cane. Tutto mi arriva ovattato, il mondo convulso della terraferma sfuma in lontananza, sovrastato da un mite sciabordio sullo scafo. Piazza Grande, fedele compagna di tante navigazioni, mi abbraccia cullandomi dolcemente nella notte: la poesia a volte è dietro l’angolo, quasi sotto casa.

Lo straniero

Sono ormeggiato lungo una banchina mattonata cinta di pietra, qualcosa che somiglia molto a un marciapiedi. Non è un marina privato ma un porto pubblico: non ho servizi e non ho luce o acqua, se non le mie scorte. Le mie finestre, gli oblò, si aprono poco sopra il livello stradale, come quelle di un basso, di un seminterrato. E come in un seminterrato, raccolgono polvere.

Le persone passeggiano a un metro da me, gettano uno sguardo curioso e scrutano oltre il tambuccio, violando in un certo senso la mia intimità domestica. I bambini giocano a palla, urlando come fanno i bambini e rincorrendosi fino allo stremo. Proprio di fronte c’è una panchina dove la sera le coppie si siedono a scambiarsi un bacio o a chiacchierare e io, mio malgrado, ne colgo a volte i discorsi, le promesse e le parole d’amore.

Quando cucino, i miei odori si spandono fino alla piazza: il profumo di frittata o cipolla soffritta si mescola per un po’ ai gas di scarico delle auto in circolazione (poche, per fortuna). Se fa caldo, mangio in pozzetto, offrendomi alla vista di chiunque voglia informarsi sui miei pasti.
Faccio la doccia all’aperto, sulla spiaggetta di poppa, strofinando il mio corpo insaponato davanti agli occhi tutti. Cerco di farlo rapidamente, con discrezione, in momenti in cui non c’è molta gente. Sia perché penso che qualcuno potrebbe non gradire lo spettacolo, sia perché anche questo, in fondo, è un momento di intimità violata.

Una sottile strato di vetroresina è la mia sola protezione dalle intemperie, il mio unico riparo dal sole o dalla pioggia. Per difendermi da entrambi posso solo rintanarmi sottocoperta. Se c’è il temporale sono costretto a chiudere tutto e restare tappato dentro fino a quando smette; un po’ come gli zingari nelle loro roulotte.
Vivo in piazza, come un nomade, e sono arrivato dal mare. Non per restare, se non per un breve periodo fatto di interazioni fugaci con chi abita stabilmente questo posto. Spesso trovo cortesia, a volte noncuranza, raramente ostilità, perché i luoghi che affacciano sul mare sono abitati da genti abituate allo straniero.

Quando dopo giorni di navigazione si entra in un porto, si ha voglia principalmente di protezione e accoglienza. Si ha bisogno di un riparo dalla furia degli elementi naturali, di un momento di ristoro dalla stanchezza accumulata. Si ha bisogno di una mano amica che con un sorriso, magari indurito dal sale, prenda la nostra cima, e la trasformi in un cordone ombelicale fra noi e la terra, la madre terra.

Mi trovo in un tratto di mare percorso continuamente da gente in fuga. Non mi interessa indagare da cosa; chi va per mare ha spesso qualcosa da cui fuggire, fosse anche semplicemente se stesso. Anche se ne ho percorso la stessa rotta, a differenziarmi da quelle persone sono principalmente due cose: il colore della pelle e il portafoglio, per quanto il mio non sia granché gonfio. Due cose, soprattutto la prima, che non mi sono conquistato con grossi meriti personali e che certamente non possono costituire una discriminante per l’accoglienza. Eppure lo sono.

Anch’io qui, come loro, sono uno straniero, anche se a differenza loro ho una casa dove tornare se ne ho voglia o bisogno. Ma anch’io, adesso, sono da solo in una terra straniera dove potrei avere la necessità di qualcuno che mi sostenga. E nel momento in cui qualcuno ti sostiene, cessi di essere solo, di essere straniero. Per questa ragione non negherò mai a quelle persone il mio appoggio e il mio aiuto: perché forza di additare e sottolineare la diversità dell’altro ci si ritrova, prima o poi, a essere il diverso di turno.
Chi va per mare sarà sempre mio fratello, sempre.
Bisogna innanzitutto accogliere, se si vuole essere accolti.

De Sardiniae circumnavigatione

Soffia a circa venti nodi il maestrale che spinge Piazza Grande in modo deciso quando le rocce levigate di Capo Testa sfilano alla mia dritta. Orzo leggermente e dirigo la prua verso l’isola di Cavallo, per attraversare perpendicolarmente le Bocche di Bonifacio e concludere così la circumnavigazione in senso orario della Sardegna, completata nel termine delle cinque settimane previste. C’è ovviamente onda da ovest, che però esalta più che infastidire; sono le condizioni ideali per una veleggiata spumeggiante.

Non sempre, durante questa rotta, il vento e il mare mi sono stati favorevoli, anzi spesso mi sono trovato a percorrere lunghi tratti bordeggiando controvento oppure a motore. Solo una volta, nel golfo di Oristano, una forte maestralata mi ha costretto ad una sosta di tre giorni. divisa fra porto e rada (un meraviglioso ancoraggio di fronte alle rovine fenicie di Tharros). Tutto era comunque stato annunciato con largo anticipo, quindi nessun problema o difficoltà, se non l’impossibilità di fermarsi nel bel tratto di costa precedente, quello che va da Portoscuso a Capo Frasca, interamente esposto ai venti dei quadranti occidentali.

Forse è stata una delle poche volte in cui i siti meteo hanno indovinato la previsione: ne consulto quotidianamente diversi e ognuno dice la sua. Raramente concordano e molto spesso nessuno ci azzecca. Sarà per il riscaldamento globale, sarà per il caldo torrido di questa estate, ma programmare la navigazione giornaliera è stato spesso un terno a lotto: nel dubbio, sempre alla ricerca di un ridosso sicuro da tutti i quadranti, cosa ovviamente impossibile nella maggioranza dei casi. Settecento miglia percorse nell’incertezza. Beh, non sempre, ma spesso.

È stata una bellissima esperienza, durante la quale ho rivisto posti che avevo frequentato da terrestre molti anni fa, girando l’isola in auto e con il gommone al traino per fare pesca subacquea, e ritrovandoli quasi sempre come li avevo lasciati. Tra le poche differenze che mi sono saltate agli occhi, le molte spiagge attrezzate, un fenomeno che una volta in Sardegna era piuttosto raro. Inutile dire che in un’isola che deve molto del suo fascino all’essere selvaggia, il lido con gli ombrelloni tutti uguali e musica banalissima, sparata a tutto volume alle dieci del mattino, svilisce inevitabilmente l’ambiente. A Villasimius è stato così, ma anche altrove l’atmosfera che ho percepito è stata quella del parco divertimenti estivo. Ognuno fa le vacanze come vuole; a me, però, queste cose fanno fuggire a gambe levate.

Molti mi avevano messo in guardia dicendo che, abituato alla solitudine dell’Egeo e del Mar Nero, mi sarei trovato malissimo. Invece devo dire che a parte il tratto di costa che va da Capo Testa a Cala Brandinchi, più alcune altre piccole aree come Stintino o le calette del Golfo di Orosei, ho sempre trovato ancoraggi tranquilli e poco frequentati. Un paio di nomi: Capo Comino, sulla costa est, e Cala Piombo su quella meridionale. Quest’ultima è zona militare e la navigazione è tollerata solo in estate.

Ovviamente lungo la costa nordorientale la situazione è ben diversa, tanto che lo stato del mare è perennemente “Forza yacht“, determinato cioè dall’incessante via vai delle grandi barche a motore (che poi, dove andranno con tutta quella fretta?), le quali provocano ripide onde incrociate che disturbano l’ancoraggio. Per fortuna verso sera rientrano puntualmente in porto e tutto torna placido.

In sostanza, nauticamente parlando, un po’ tutta la Sardegna non è poi così affollata come potrebbe, fatta esclusione per le settimane tra la metà di luglio e il venti di agosto all’incirca. Una pacchia per chi la ama e ha la possibilità di visitarla al di fuori di quel periodo, anche perché i prezzi degli ormeggi subiscono una salita verticale durante l’alta stagione. Il turismo di massa è spesso invasivo, poco rispettoso e degradante, e la Sardegna ha saputo tenere alto il livello dei suo ospiti. Penso però che una stagione turistica più lunga porterebbe ricadute positive sull’occupazione. La Grecia è piena di diportisti nordeuropei da maggio a ottobre; forse, incentivandoli in qualche modo, alcuni di essi potrebbero dirottare da queste parti la loro navigazione.

E comunque di pesce in Sardegna ne è rimasto davvero poco (anche se certamente più che nei mari greci), forse tanto varrebbe imporre il blocco totale della pesca per un paio d’anni, nella speranza che gli stock ittici si riformino e magari ritorni anche remunerativa la pesca professionale. Quella hobbystica, per quanto mi riguarda, quest’anno è andata piuttosto male sia con la traina che con il fucile, anche se un paio di volte solo per colpa mia: ho sbagliato mira salvando involontariamente la vita a due belle cernie.

La cosa che un po’ mi spaventava della Sardegna è il costo dei porti. Per quanto non senta affatto il bisogno di mettere le cime in banchina tutte le sere, ogni tanto bisogna farlo: vuoi per fare rifornimento d’acqua, vuoi per fare cambusa, vuoi per imbarcare o sbarcare qualcuno. Con un po’ di attenzione sono riuscito sempre a pagare cifre accettabili, nell’ordine dei trenta/quaranta euro. La sosta più cara è stata a Marina Piccola a Cagliari, dove ne hanno voluti sessanta. Ovviamente tra Palau e Tavolara i prezzi sono molto più elevati, come pure a Villasimius e a Marina di Capitana: ma lo sapevo e ho evitato accuratamente di fermarmi. La sorpresa positiva è stata invece Stintino, dove mi aspettavo un salasso e invece ho pagato trentasette euro. Voci di banchina mi hanno riferito che a Porto Cervo si sta sui trecentocinquanta a notte, ma a me che mi frega di Porto Cervo? Mai stato tipo da Costa Smeralda, anzi sono decisamente agli antipodi di quella fauna umana, di quel modo di vivere il mare.

Tornare in Sardegna dopo anni di Grecia ha avuto anche un altro interessantissimo risvolto: la gastronomia. Adoro i greci e la Grecia ma la loro cucina si riduce a cinque o sei piatti, sempre quelli in qualunque località o isola, e alla fine vengono inevitabilmente a noia. Si aggiunga anche che, nonostante sia una terra di pastori e allevatori di bestiame, la loro produzione di formaggi e salumi è piuttosto limitata (feta ovunque) e di qualità scadente, i salumi soprattutto sono davvero di scarsa qualità. In Sardegna, invece, la produzione di entrambi è variegata e di ben altro livello e io ne ho approfittato ogni volta che ho potuto, accompagnando il tutto con pane carasau (anzi, guttiau) e annaffiando con l’ottimo Cannonau, reperibile ovunque a prezzi ragionvoli. Va da se che a bordo o a terra non sono mancate le serate a base di porceddu o piatti di mare. Gli equipaggi che si sono alternati in queste settimane hanno sempre gradito e nessuno si è mai lamentato di ciò che è stato messo in tavola o nel bicchiere.

Il pozzetto di Piazza Grande è stato quest’anno parecchio conviviale. Molti gli ospiti a bordo: vecchi e nuovi amici, neofiti ed esperti, marinai e vacanzieri, che hanno portato il loro sorriso e la loro simpatia. Alcuni hanno portato anche da bere, per cui l’allegria non è mai mancata. Tanti anche gli incontri in banchina: molte conoscenze virtuali, persone con cui sono in contatto da anni per via telematica, sono diventati un volto reale. Ne ho trovati un po’ dappertutto, dividendo con tutti un caffè, una birra, una chiacchiera o una serata. Situazioni che fanno rivedere certi giudizi negativi su Facebook e i consessi virtuali.

Il maestrale ha preso a soffiare più forte. Mi ridosso dietro l’Isola Piana, cerco una chiazza di sabbia e calo l’ancora. Trovo anche qui una barca di amici, e con una birra ghiacciata festeggiamo l’incontro. Io festeggio anche la fine del periplo della Sardegna. La circumnavigazione della Corsica mi attende.

PS Sul numero di luglio di SVN – Solo Vela è stato pubblicato un articolo da me scritto su Gibilterra e la navigazione atlantica fino a Lisbona. Chi volesse leggerlo lo trova qui: http://magazines.solovela.net/svn-36/59175365 a pagina 93.