Chiuso per non ferie

Il clangore dell’ancora del traghetto, che lasciata cadere di peso trascina la sua grossa catena a maglia rinforzata e la fa scorrere nell’occhio di cubia, desta il porto dal torpore autunnale. Il grosso mezzo ruota su se stesso al centro del bacino, davvero a pochi metri da Piazza Grande ormeggiata sul molo opposto, e  con un breve ruggito del motore e il ribollio delle acque intorno porta la poppa in banchina. La manovra provoca una vibrazione che che si ripercuote sulla mia piccola imbarcazione facendo stridere le cime di ormeggio al ritmo della risacca.

La pioggia ha cessato da poco di cadere, il cielo è ancora grigio ma piccoli squarci di azzurro in lontananza promettono momenti di sole nelle prossime ore. La temperatura, comunque, è mite già così. Il basolato del molo, sgombero di persone come mai in estate, è ricoperto da un sottile strato di acqua che qua e là forma qualche piccola pozzanghera. Due uomini in divisa parlano tra loro di fronte ai mezzi navali dei rispettivi corpi di appartenenza, ingannando forse il tempo nella vacuità di incombenze urgenti.

Le isole minori hanno due volti: quello estivo, vacanziero e confusionario, e quello invernale, silenzioso, taciturno, quasi letargico. Andarci fuori dalla stagione turistica, un tempo ne offriva un’immagine arcaica dove emergevano stili di vita ancestrali che il clamore non permetteva di notare. Si potevano ritrovare ritmi di vita più lenti di quelli cittadini o apprezzare le piccole cose, come perdersi in chiacchiere con un locale che disponeva in abbondanza di quella ricchezza che chi vive in città non ha più: il tempo. E con esso la volontà e il piacere di donarlo a un forestiero.

Negli ultimi decenni il turismo – e tutto ciò che gli ruota attorno – ha soppiantato qualunque altra attività economica, e le piccole isole si sono ritrovate così a vivere ogni anno tre mesi di frenesia e nove di attesa che sconfina a volte nella noia. La pesca, complice anche il depauperamento degli stock ittici, è stata abbandonata quasi ovunque e spesso è tenuta in vita dall’ostinazione di alcuni appassionati, ridotta a mera testimonianza del passato. Altre attività, generalmente, nelle isole molto piccole se ci sono sono storicamente sempre state marginali.

Il paese è quasi completamente serrato. La sfilza interminabile di pub, ristoranti, bar, pizzerie e quant’altro ha le saracinesche abbassate e gli ingressi sprangati. Le pergole antistanti, senza tavoli né sedie risposti per proteggerli dalle intemperie, appaiono ingombranti e inutili di fronte al mare. I pochi esercizi commerciali aperti operano a regime ridotto. Tra questi, un paio di negozi di alimentari, la farmacia, un ferramenta, una piccola rivendita di materiale edile: in pratica quelle stesse attività che durante il lockdown sono state le uniche lasciate aperte dal governo perché ritenute indispensabili per la sopravvivenza.

Il destino di questi luoghi, tanto preziosi quanto fragili, sembra ormai segnato, al pari di quello di tanti centri storici delle città italiane: la loro bellezza è anche la loro condanna, perché una politica avida e miope li ha trasformati, o ha lasciato impunemente che si trasformassero, in parchi a tema dove l’elemento umano e sociale è stato messo stupidamente a margine. Un’isola, una citta, un qualunque posto, esistono in quanto tali quando le persone ci abitano, li animano, gli conferiscono un’impronta caratteriale propria, non quando si limitano a inscenare uno spettacolo stagionale per gli avventori.

In mancanza di questo, tutti i luoghi finiscono per somigliarsi e alla prima crisi del turismo, come si è visto a volte durante la pandemia, appariranno come la maschera triste di uno show senza più spettatori. Ribellarsi alla trasformazione del mondo in una Disneyland globale vuol dire salvare i luoghi e consegnarli vivi alle generazioni future.

Rientro a bordo dopo aver fatto un po’ di spesa al supermercato. Sul corso quasi deserto un paio di persone che camminano in senso opposto al mio mi scrutano curiose: le buste della Conad mi indicano implicitamente come uno che abita qui e loro sembrano domandarsi chi sia quest’uomo sconosciuto che ha sull’isola un posto dove cucinare, quindi una casa. I nostri sguardi si incrociano: ricambio il sorriso e il cenno di saluto, anche se la mia casa in questo momento è il mare.

Omnia mea mecum sunt

Non ho mai vissuto stabilmente in barca, pur avendoci trascorso lunghi periodi, anche cinque o sei mesi consecutivi. Mi piace però quando sono ormeggiato in un porto e mi preparo per uscire come se uscissi da casa. Uno sguardo per controllare luci e gas, le chiavi e il cellulare nelle tasche (ultimamente, ahimè, anche la mascherina), poi chiudere il tambuccio e via per le strade della città.

Un centro abitato lo senti tuo se ci abiti, se hai la casa lì; e la barca altro non è che una casa che si sposta con te e ti segue ovunque tu vada. Se poi la stagione turistica è definitivamente conclusa, la barca dà ancora di più la sensazione di una piacevole routine quotidiana, trasmette un senso di appartenenza al luogo che il soggiorno in una qualunque struttura turistica non potrà mai dare.

Omnia mea mecum sunt, chiosava Seneca: tutte le mie cose sono con me. Lui lo diceva per ribadire la sua estraneità ai beni materiali, chi va per mare invece può sposare felicemente questo detto per la ragione opposta.

Ponza, posto libero in transito; tra le cose belle del mare d’inverno.

Tirreno d’inverno

La sveglia è puntata alle sei in considerazione dell’alba che è prevista alle sette. Dato che le giornate si sono accorciate molto vorrei partire con il primissimo chiarore per sfruttare tutte le ore di luce, ma lasciare da soli un ormeggio a pacchetto lungo il fiume è sempre una faccenda lunga e complessa, e quindi finisco con il mollare l’ultima cima che mi vincola alla barca di fianco alle sette passate, sollazzando con lo spettacolo un grosso cigno (sulla foce del Tevere ci sono i cigni) che ha osservato con attenzione ininterrotta tutta la manovra. Ho indosso la cerata completa e gli stivali, più a protezione dell’umidità, che ricompre completamente la coperta di Piazza Grande, che del freddo; l’aria è incredibilmente tiepida per la stagione.

Discendo il fiume a favore di corrente e recupero i parabordi che penzolano ormai inutili sulle murate, mentre ai mie lati sfrecciano alcune piccole barche di pescatori mattinieri e impazienti e sopra la mia testa alcuni gabbiani disegnano volteggiando le prime loro parabole aeree della giornata. Esco dal fiume e mi metto in rotta per Palmarola, cinque miglia a nord di Ponza. Il vento è leggero e le vele hanno bisogno di un po’ di aiuto dal motore per dare una velocità decente. Prendo il mare per rispondere a quel richiamo interiore che chi naviga conosce bene: il mare chiama, soprattutto quando l’anima ha bisogno di essere accarezzata. Qualche giorno da solo a galleggiare sull’infinita distesa azzurra mi aiuterà a fare chiarezza dentro di me su alcune questioni difficili che sto affrontando in questo periodo.

La navigazione scorre tranquilla, prevedibile, senza sorprese, come la costa laziale che sfila alla mia sinistra. Gioco infruttuosamente con la traina, leggo, scrivo, scambio qualche messaggio con un paio di amici, controllo che tutto sia a posto e in sicurezza, mi godo l’atmosfera. Il sole scalda progressivamente la giornata e verso l’ora di pranzo ho rimosso tutti gli strati di abbigliamento che indossavo, fino a restare in maglietta. Passato Capo d’Anzio consumo un rapido pasto a base di focaccia imbottita di prosciutto poi mi gusto il caffè in pozzetto.

Verso le quattro e mezza del pomeriggio, l’incanto di un tramonto spettacolare: il sole si riflette su alcuni cirri sfilacciati marezzando il cielo di un arancione che vira al rosso fino a spegnersi oltre la linea dell’orizzonte. La temperatura dell’aria ovviamente cala e  io ricompongo progressivamente tutta la cipolla di indumenti che avevo sfogliato qualche ora prima.

Il profilo di Palmarola è ben visibile nell’oscurità stemperata da una luna brillante. Alla base dell’isola, disabitata in questa stagione, osservo una decina di luci a pelo d’acqua: troppe per essere barche alla fonda in una sera di novembre. Avvicinandomi scopro essere piccole imbarcazioni da pesca che ciondolano su un mare oleoso e senza vento. 

Raggiungo il punto che ho scelto sulla carta per dare ancora ma trovo una leggera onda morta che di sicuro minerebbe la tranquillità che auspico per la notte, pertanto non libero neppure il ferro dal musone e giro immediatamente la prua per mettermi in rotta per Ponza, dove il ventaglio di possibilità per ancorare è più ampio. Chiaia di luna è esposta allo stesso modo quindi le condizioni meteo saranno con tutta probabilità le stesse ma decido comunque di dare un’occhiata prima di ripiegare su Cala Feola, meno ampia e più profonda. In un oretta scarsa ci sono, ma anche qui mi basta un’occhiata per capire che non è aria. Un grosso catamarano oscilla vistosamente malgrado la maggiore stabilità dei multiscafo alla fonda. 

Ancora mezzora di navigazione e alle otto e mezza calo un generoso calumo che mi garantirà un ancoraggio sicuro. Lascio raffreddare il motore per qualche minuto prima di spegnerlo poi accendo la luce in testa d’albero e scendo sottocoperta a prepararmi la cena.

Le luci delle case che dalle colline che circondano la piccola baia si affacciano sul mare puntinano la notte, luccicando intermittenti attraverso gli oblò della tuga. Ogni tanto si sente il rumore di un entrobordo che rientra in porto e in lontananza l’abbaiare stanco di un cane. Tutto mi arriva ovattato, il mondo convulso della terraferma sfuma in lontananza, sovrastato da un mite sciabordio sullo scafo. Piazza Grande, fedele compagna di tante navigazioni, mi abbraccia cullandomi dolcemente nella notte: la poesia a volte è dietro l’angolo, quasi sotto casa.