Social ergo sum

Ciò che facciamo definisce il nostro percorso, la nostra storia, contribuendo a definire ciò che siamo. Dato che ciò che siamo attiene al nostro sé che è qualcosa di immateriale, delle cose che abbiamo fatto non è indispensabile mantenere una traccia materiale, anche perché le cose che facciamo non sempre sono materiali. Però a volte le tracce materiali contribuiscono a mantenere la memoria di ciò che abbiamo fatto, anche dentro noi stessi, perché la mente a volte dimentica le cose. È questo il valore inestimabile di una foto o di un oggetto che ci ricordano un momento particolare che abbiamo vissuto.

Pochi giorni fa Facebook ha cancellato il mio account, e con lui circa dodici anni della mia vita. Immagini, scritti, video, ricordi (nel senso che FB dà ai  ricordi), circa 3700 contatti, fra quelli a carattere personale e quelli che avevano un interesse professionale. Nel giro di mezzora ho perso tutto. 

Ha poco senso dire che Facebook non è la vita ma la sua rappresentazione agiografica e fasulla: come ha osservato il filosofo Luciano Floridi, la distinzione fra vita reale e vita online non è più netta come agli inizi dell’era Internet, tanto da aver lui coniato il termine onlife per definire le nostre attuali esistenze caratterizzate da un’interazione incessante delle due dimensioni. Perdere Facebook vuol dire perdere un pezzo di sé; al netto della perdita economica, non meno di perdere la casa e tutto quanto in essa contenuto a seguito di un incendio o un terremoto.

Qualcuno si è inserito fraudolentemente nel mio account e Facebook l’ha sospeso, chiedendomi di dimostrare che fosse realmente mio. Prima ha chiesto di mandarmi un sms con un codice di conferma, poi ha voluto una mia foto e infine un documento di identità. Dopo essermi accertato che fosse veramente Facebook a chiedermi queste cose e non l’hacker stesso (un documento di identità non si manda a chiunque), ho fatto quanto chiesto. Facebook ha risposto che avrebbe controllato e in caso favorevole avrebbe riattivato l’account altrimenti l’avrebbe eliminato per sempre, in modo inappellabile. E così purtroppo è stato.

Non è servito a niente neppure segnalare il tizio che, poco dopo che ho creato un nuovo account, mi ha chiesto dei soldi per riattivarlo, dicendo di essere un professionista della sicurezza web; come pure è risultato inutile cercare un contatto qualsiasi presso Meta per segnalare l’accaduto.

Tutto quello che in dodici anni avevo caricato su Facebook è andato perduto irrimediabilmente: le navigazioni che ho fatto, i libri e gli articoli che ho pubblicato, i premi che ho vinto, le interviste che mi hanno fatto, le mie foto dei viaggi, i piatti che ho cucinato, i pensieri che ho espresso, i libri che ho letto e commentato, quello che ho vissuto insieme ad altre persone: all’improvviso non ho più un passato da sfogliare quando ne ho voglia.

Non è solo un fatto sentimentale, perché il passato in qualche modo ci definisce. Entrando in contatto con qualcuno per la prima volta (e anche i contatti lavorativi passano per il virtuale), la nostra vita raccontata sui social media rappresenta una sorta di biglietto da visita, dice chi siamo, ci conferisce credibilità, definisce la nostra reputazione. A me tutto questo è stato rubato.

Ma non è finita qui: quando un account viene eliminato, sparisce anche qualunque cosa scritta sui gruppi e sulle pagine; spariscono i commenti fatti sugli account di altre persone; spariscono ovunque i tag fatti da altri: spariscono proprio nel senso che non ci sono più, non sono mai esistiti. E noi con loro.

Spariscono anche le zavorre, è vero, quelle cose e quelle persone che ci portiamo appresso controvoglia e che costituiscono un fardello da sostenere. Alleggerirsi di tutto ciò che fatichiamo a lasciar andare è certamente uno stimolo a intraprendere nuovi cammini ma, come dice il proverbio, non si butta via il bambino con l’acqua sporca.

Il vero punto oscuro di questa vicenda risiede però nel fatto che la veridicità di quanto mi è accaduto è stata valutata da un soggetto privato. Certamente il chilometrico contratto che si sottoscrive al momento dell’iscrizione riporta la possibilità che Facebook cancelli un account per qualsivoglia motivo, ma la legittimità giuridica di quello che dal punto di vista legale è un semplice accordo fra due soggetti, non elimina i dubbi etici (e non solo) sul conferimento a un privato di un potere tanto grande sulla nostra vita, come quello di dire se siamo o non siamo. E senza che le istituzioni pubbliche che ci rappresentano possano eccepire nulla. Detta in parole povere, abbiamo privatizzato il nostro sé: non è bello per niente.

The sailor

Il mare, anzi la vita di mare, quale paradigma filosofico dell’esistenza umana in senso ampio. The sailor è la storia di un uomo più che, come il titolo suggerisce, di un marinaio. Un uomo che ha scelto la vita di mare, che ha fatto del mare, per amore del mare stesso, il pilastro fondante della sua esperienza terrena.

Chi parte per mare, e ancora di più chi lo faceva decenni fa quando le possibilità di restare in contatto con chi rimaneva a terra erano limitatissime, lo fa per fame di vita, di conoscenza, di esperienza. Lo fa senza preoccuparsi troppo del futuro più remoto. Addenta la vita, mordendola con appetito sano, consumandola avidamente. È cicala che canta gioiosa.

The sailor è un film, anzi un film-documentario, che racconta la vera storia di Paul Johnson, nato alle isole Shetland, da cui è partito da giovane. Ha attraversato quaranta volte l’Atlantico, ha avuto barche non molto diverse da quelle che abbiamo noi, ha avuto amori duraturi e fugaci, figli noti e ignoti, progettato imbarcazioni con la competenza di chi si è fatto l’esperienza sul campo.
Un film bello ma triste, perché ci mostra una cicala che consuma i suoi ultimi giorni in solitudine, senza figli, senza una donna accanto, vivendo a un livello minimo di sussistenza; una cicala senza pubblico e senza più voce per cantare, neppure per se stessa.

Birra a colazione, poi a seguire vodka, per un totale di circa un litro al giorno, Johnson vive alla fonda ai Caraibi, senza più navigare da anni, su una barca senza il motore funzionante, sudicia e in rovina, e che un ultra-ottantenne come lui non è più in grado di gestire, non solo di liberarla per prendere il mare.

È l’ultimo sgraziato verso di una poesia che incanta ma a volte truffa le anime pure.
Il mare nei secoli è sempre stato fatica, sudore, sale e rughe sulla pelle, incertezza, lontananza. Siamo noi che lo attraversiamo per diporto, quindi per divertimento, che ne cogliamo solo i lati più più piacevoli ignorandone le tante ruvidità. Siamo noi che abbiamo una casa dove tornare, con o senza qualcuno ad attenderci, che possiamo concederci di guardare al mare con inguaribile romanticismo.

Di tipi così sono pieni i mari di tutto il mondo e spesso mi sono chiesto se in loro prevalga lo spirito di libertà o l’apparentemente sano egoismo che la libertà a volte alimenta ma di cui prima o poi presenta il conto.

Ricordo un tale davvero somigliante a Johson, su un’isoletta dalle parti di Rodi, forse Kastellorizo, su un piccolo sloop di una quarantina d’anni di età vincolato al fondo e agli scogli con un groviglio di cime che lasciava intendere un’immobilità di lunga durata. Tutti i pomeriggi scendeva a terra con un dingy rigido a remi tutto rappezzato, comprava pane, sigarette e alcol e se ne tornava a bordo in solitudine. Una volta ho provato a scambiare due chiacchiere con lui e mi ha raccontato una storia che, ripensandola oggi, sembra ricalcata su quella del protagonista di The sailor: una vita senza a radici, tante donne e tanti amici in rapporti fondati sulla fugacità, da anni senza contatti con i figli, supportato da qualche anima pia locale in caso di necessità. Basta uno scafo con un albero piantato in coperta per rendere queste persone diverse da un qualsiasi anziano triste e solo delle metropoli?

Sempre in Grecia, nel golfo di Patrasso, c’è un’isoletta molto graziosa che si chiama Trizonia, in cui è stato costruito un porto che per ragioni burocratiche non è mai entrato in funzione; una vicenda simile a tante storie italiane. Nel porto hanno trovato riparo stabile molte barche i cui proprietari non possono permettersi di pagare neanche la manciata di spiccioli richiesta nei porti greci. Hippy di mare salpati da qualche paese del Nordeuropa con pochi soldi in tasca e la testa piena di sogni non a buon mercato come credevano. Alle prime difficoltà pratiche si sono arenati sul molto di Trizonia e proseguono la loro esistenza di mare, se esistenza di mare si può definire, su tristi scafi ammalorati di cui a stento riescono a permettersi una manutenzione che li tenga almeno a galla. A volte stendono una prolunga fino a un bar o una finestra di qualcuno che generosamente gli permette di ricaricare un po’ le batterie. Alcuni di loro, tristemente, appaiono troppo in là con gli anni per pensare a un riscatto con se stessi, una nuova opportunità, un futuro più comodo: proprio come Johnson, che a un certo punto si stupisce di essere vissuto così a lungo.

Il protagonista del film non si mostra pentito delle sue scelte e, almeno a parole, si dice felice della vita che ha vissuto, anche se l’alcolismo sembra tradire una serenità interiore davvero scarsa. Come il suonatore Jones della poesia di Edgar Lee Masters poi cantata magnificamente da De Andrè che, dopo aver rinunciato al benessere della famiglia di origine, alla soglia dei novant’anni si dichiara senza rimpianti. Ma un conto è leggerlo in versi, un conto veder trascinare stancamente e in solitudine gli ultimi scampoli di una esistenza, chissà se poi davvero piena e felice.

Esopo e La Fontaine ci hanno mostrato due estremi: l’incoscienza godereccia della cicala e la triste e arida esistenza della formica. Nelle mille sfumature di mezzo sta forse il segreto della vita, che quel grande filosofo che è stato Massimo Troisi definì con una memorabile battuta: meglio cinquanta giorni da orsacchiotto rispetto ai cento da pecora o uno solo da leone.
Le barche costano e non bastano i sogni a pagarle. Senza sogni non si parte, senza soldi non si torna.

La saggezza del mare – Björn Larsson

"Perché viaggiare non è percorrere la Toscana a suon di risate o imparare a fare il giocoliere con tre arance sotto il sole della Sicilia. Viaggiare vuol dire avanzare penosamente pollice per pollice sulla superficie della terra."

Pessimo il titolo italiano che sembra sottendere una stereotipata didattica dell’anima. In realtà il titolo originale è Da Capo del’Ira alla Fine del Mondo, che sembra metaforico ma che invece si rifà a due promontori realmente esistenti in quella zona di mare europeo dove si è svolta la navigazione raccontata in questo libro.

I primi viaggi per mare dell’autore, ivi compresa l’autobiografia interiore sulle motivazioni che l’hanno spinto a salpare e stare via per lunghi periodi; una vera e propria scelta di vita, dipanatasi fra la Scandinavia e la Scozia, con sconfinamenti in Bretagna e Galizia.

Panorami e modi di navigare sconosciuti a noi mediterranei, spesso preda di ancestrali timori di passare le Colonne d’Ercole, ma affascinanti e avvincenti oltre che, i secondi, decisamente più complessi che nel Mare Nostrum.

Interessante, scritto in modo chiaro, eppure, mentre scorrevo le pagine, avvertivo la mancanza di qualcosa. Quando l’ho chiuso ho capito cosa: il pathos. Le emozioni sono descritte senza la fasulla epicità di molti autori di mare ma anche senza apparente coinvolgimento emotivo dell’autore. Apparente, sia chiaro: non credo che Larsson non abbia messo il cuore in quelle navigazioni come pure nello scrivere questo libro. Solo che non traspare, non si percepisce se non razionalmente.

Da leggere se si ha in programma di fare rotta a nord e si vuole avere una prima infarinatura di quello che si troverà da quelle parti.
Sull’odioso formato di Iperborea è già stato detto tutto.

Vite che non sono la mia – Emmanuel Carrère

"Se sapessimo quello che rischiamo, non oseremmo mai essere felici."

Amo molto Carrère ma questa volta non mi ha convinto del tutto. Il tema del libro è la perdita dolorosa degli affetti più cari, in modo traumatico o per lunga malattia. Nella fattispecie, la morte di un figlio, di un genitore di bambini piccoli, di un grande amore, di un confidente carissimo.

Lo stile è quello consueto dell’autore: preciso, puntuale, lessicalmente ineccepibile senza per questo perdere di chiarezza espositiva. Ma anche profondo, analitico, riflessivo. Il punto è che, a differenza di altri suoi libri che ho letto, non avvince, non coinvolge se non nelle ultime pagine in cui viene magistralmente descritta l’agonia di una malata terminale e il travaglio delle persone che gli sono attorno.

La sensazione, duole dirlo, è Carrère fosse a corto di idee: il pretesto narrativo appare debole (una bambina morta a causa di una cataclisma naturale e una mamma consumata dal cancro) e non riesce ad assumere connotati di originalità malgrado l’ottima disamina che ne viene fatta.

Penso a Limonov, un uomo di cui non sapevo nulla e per il quale non ho mai nutrito il minimo interesse; eppure ne ho letto il racconto omonimo avvinto come se si trattasse di un personaggio fondamentale della Storia.
Di questo romanzo resta il piacere della lettura di una prosa davvero ottima e alcune pagine (forse più di alcune) che certamente meritano.

Il codice dell’anima – James Hillman

"Ci sono psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni."

Una ghianda ha già inscritto nel DNA la sua missione esistenziale: diventare una quercia. La tesi sostenuta in questo libro è che anche per gli esseri umani funzioni così e che tutto sta nel trovare la ghianda dentro di sé, schivando i condizionamenti sociali, familiari, culturali o quant’altro; daimon, viene qui chiamata, con esplicito riferimento alla filosofia greca.

Se sostituiamo la parola ghianda con il termine vocazione, il concetto diventa ancora più chiaro: il senso della vita, secondo l’autore (ma è difficile non essere d’accordo), è trovare quella sorta di missione/vocazione che spesso ci ha chiamato fin da bambini e lasciargli spazio per vivere un’esistenza appagata. Qualcosa di simile al “Diventa ciò che sei” pronunciato da Nietzsche e prima ancora da Pindaro che però, stranamente, in questo saggio non vengono mai citati.

A lasciare perplessi è che Hillman, che è stato un famoso psicologo americano, rovescia completamente uno degli assunti fondamentali della psicanalisi, e cioè che ciò che ci accade durante la prima infanzia lascia in noi dei segni che condizioneranno la nostra vita futura, sostenendo invece che se ci sono successe determinate cose nei primi anni che siamo stati al mondo è proprio perché il daimon ci ha guidati in quella direzione.

La perplessità aumenta fino a diventare scetticismo man mano che avanzano i capitoli perché di prove concrete a supporto della teoria non ce ne sono molte e Hillman, in alcuni casi, sostiene che le cose stanno come dice lui perché il suo intuito gli suggerisce così. Vengono in compenso riportate decine e decine di storie personali di personaggi famosi che corrisponderebbero allo schema proposto ma, alla stessa maniera, si potrebbero raccontare vite che hanno avuto tutt’altro esito.

Si può ribattere che l’opera va letta in senso filosofico più che psicanalitico, ma anche in questo caso la logica di supporto ai ragionamenti appare in qualche caso fallace e le argomentazioni piuttosto deboli. Vero è che Hillman a un certo punto ha lasciato l’attività di terapeuta per dedicarsi alla produzione letteraria. A questo proposito, va detto che questo saggio ha scarsi connotati di universalità e appare invece scritto palesemente per il pubblico americano: nulla di male, ci mancherebbe, ma molti dei casi-studio citati sono per il lettore europeo perfetti sconosciuti.

In estrema sintesi, in qualche passaggio sembra uno di quei libri motivazionali che aiutano le persone sperdute a trovare se stesse; confesso che se non fosse edito da Adelphi forse non l’avrei comprato, malgrado l’autorevolezza dell’autore. Anche se il titolo, bisogna ammetterlo, è estremamente azzeccato.

Il selvaggio – Guillermo Arriaga

"Quanta patria può essere una donna per un uomo.”

Un libro che forse non avrei letto se non me l’avessero regalato ma che, una volta iniziato, mi ha subito catturato fin dalle primissime pagine. Avvincente, incalzante, ricchissimo di azione, illustra personaggi e situazioni attraverso il fitto racconto dei fatti che accadono.

Ambientato nel Messico degli ultimi anni Sessanta, offre un quadro interessante dell’epoca, fra i turbamenti dei giovani di allora, vissuti fra musica rock e droghe, e le tematiche endemiche del Sudamerica, principalmente la violenza criminale e l’estremismo religioso; e la loro terribile fusione.

Tre narrazioni parallele: il presente del protagonista principale, il suo passato traumatico, e una storia apparentemente a se stante che si svolge in un luogo distante e remoto e che solo nel finale chiude il cerchio con il resto delle vicende.

Una mole importante, settecentoquaranta pagine che per tre quarti non annoiano minimamente, anzi. Poi, praticamente un crollo: nelle ultime duecento si ha prima la percezione di una forzata esagerazione della quantità di cose che succedono, poi della fretta di concludere che si concretizza in un cambio di ritmo che ha il sapore della superficialità.

Comunque davvero ben scritto e, al netto di alcune scivolate retoriche, certamente da leggere.

Legami d’amore – Angelo Alessi

"La relazione affettiva e l'intesa con l'altro dipendono proprio da una adeguata coscienza di se stessi, che consente il diritto-bisogno di svelarsi con sicurezza"

Parte un po’ male, con un primo capitolo introduttivo che appare semplicistico anche per un libro divulgativo, cui seguono due capitoli autobiografici in cui si narrano, portandoli a esempio universale, frammenti dell’infanzia dell’autore senza però spiegazioni convincenti circa la loro universalità.

Poi il saggio decolla e lo fa in modo davvero interessante, avvincendo il lettore con l’illustrazione puntuale delle dinamiche relazionali dei rapporti affettivi, siano essi di coppia o familiari, spiegando per filo e per segno tutti gli errori, consapevoli o meno, che abbiamo fatto tutti da innamorati, da genitori o da figli.

Utile per capire, per non cadere nuovamente in vecchie trappole, per recuperare rapporti importanti persi per incomprensione o per costruirne di nuovi nella chiarezza, con se stessi e con gli altri. Ma anche per lasciarsi senza traumi irrisolti o per elaborare il distacco, sia esso una scelta o una costrizione, dovuta magari a un tragico lutto.

Davvero da leggere, per capire, per capirsi, per migliorare se stessi e i rapporti fondamentali della nostra vita, quelli che alla nostra vita danno il senso fondamentale: amare ed essere amati, ma anche amare se stessi, presupposto fondamentale per un’esistenza serena.

Unn’è tempu

La Sicilia, a torto o a ragione, viene generalmente associata al mare e al turismo estivo. Andarci fuori stagione costituisce la rottura di uno schema, cosa divenuta quasi obbligatoria un po’ ovunque se si vuole ricercare la veracità di un luogo invece di viverlo nei mesi in cui si acchitta per assecondare le esigenze e gli stereotipi di chi lo visita distrattamente. Il fuori stagione consente inoltre di schivare il caldo asfissiante e l’affollamento turistico soffocante. Ho chiesto come si dicesse “fuori stagione” in dialetto siciliano: “unn’è tempu“, non è tempo, mi è stato detto; un’espressione generica e spendibile in diversi ambiti. Io credo invece che il tempo di viaggiare sia diventato proprio quello che i più considerano “fuori tempo”: in epoca di esplosione demografica muoversi controcorrente è quasi imprescindibile, doveroso.

La temperatura a Palermo è comunque mite anche in autunno, forse più per le normali caratteristiche climatiche della città che per gli effetti del riscaldamento globale, anche se durante alcune giornate del mio soggiorno un libeccio deciso ha portato nuvole e pioggia creando una cappa di leggera cupezza. Anche questo, in fondo, è uno stereotipo che si rompe, quello del legame inscindibile della Sicilia con il sole: e io, gli stereotipi, li detesto. La Palermo che cerco in questi giorni non è quella da cartolina, fatta di spiagge e mare bello. Quando visito una città cerco di coglierne l’anima girando per le strade, osservando le persone e il modo in cui vivono, si muovono e si relazionano tra loro, guardando il funzionamento del tessuto economico e sociale, o anche leggendo qualche libro che la racconti da un punto di vista particolare. Forse è una pretesa, e ancora di più lo è per Palermo che certamente è una città molto complessa da comprendere, quasi da sfogliare strato per strato.


Un’interrogativo che mi pongo spesso quando sono in un luogo del nostro continente geograficamente lontano dalle sedi delle principali istituzioni della UE è quanta Europa ci sia, cosa sia sorto dalla mescola di usi e tradizioni locali secolari con le indicazioni culturali (nel senso ampio del termine) dell’Unione Europea che cerca, giustamente, di creare uno standard generale e uguale per tutti. A Palermo la risposta appare piuttosto semplice: di Europa ce n’è pochissima, quasi nulla. Per rendersene conto basta passeggiare per la città, sia nei quartieri eleganti attorno al Politeama e al teatro Massimo, che nelle zone più popolari, come la Kalsa, la Vucciria o Ballarò. Nelle prime, una borghesia raffinata e colta dà l’impressione di essere saldamente ancorata, per scelta o costrizione, alle proprie abitudini e al proprio modo d’essere, mentre nelle seconde il degrado raggiunge purtroppo livelli da metropoli nordafricana e i mercati storici famosi, come quello del Capo, inscenano uno spettacolo molto pittoresco e affascinante ma certamente non al passo con i tempi e per questo forse unico in Italia e in Europa. In alcuni angoli sembra di essere negli anni Sessanta/Settanta.

Va detto però che, al netto di questo degrado (che a Ballarò è davvero sconvolgente), Palermo è un bellissimo agglomerato urbano mediterraneo che mischia fasti antichi, per lo più di epoca arabo-normanna o barocca, con costruzioni del periodo umbertino, siano esse villini liberty o palazzi borghesi, e con la fitta selva di brutti edifici costruiti dal secondo dopoguerra in poi durante quello che è passato alla storia come il sacco di Palermo, operato dalla mafia con la complicità dei politici di allora. Si può dire quindi che la città ha mantenuto sempre costantemente la propria identità pur avendo cambiato spesso aspetto. A differenza di altre città italiane, non ha subito un’immigrazione di proporzioni tali da stravolgerne l’anima; anche la presenza attuale di extracomunitari non sembra numericamente in grado di incidere troppo. Gli odori delle spezie esotiche che si sprigionano da alcune finestre si fondono con l’odore del mare, e già questo basta per farmi stare bene e sentire a casa.


Già, la mafia: un marchio di infamia che tutti i palermitani, anche quelli onesti, si portano purtroppo addosso. Secondo Roberto Alajmo, autore del breve saggio Palermo è una cipolla, si è generato un senso di colpa negli abitanti della città per aver esportato la mafia nel mondo. Che il fenomeno mafioso non sia più subìto, accettato o minimizzato in modo omertoso bensì finalmente osteggiato dalla società civile si percepisce chiaramente: ovunque ci sono monumenti, steli, lapidi, murales (istituzionali o spontanei) che celebrano i caduti nella guerra alla criminalità organizzata. A Capaci è impossibile non provare un forte turbamento guardando la casupola bianca da dove è stato azionato il telecomando che ha fatto esplodere la bomba che ha provocato la morte di Falcone e degli altri che erano con lui: di notte viene illuminata con un fascio di luce che fa spiccare le parole “No mafia” poste sulla facciata. Come pure si resta turbati camminando lungo certe strade, sapendo che sono state il teatro di omicidi efferati compiuti in pieno giorno nella quasi certezza dell’impunità.

Forse non c’è stata quella rivoluzione culturale che è sempre parsa lì lì per esplodere dopo le stragi dei primi anni Novanta (ma del resto l’Italia tutta ha disatteso le speranze sorte in quegli anni, dopo Tangentopoli), ma certamente Palermo si è ribellata e le conseguenze si sono viste. Quella mafia è stata sconfitta, non esiste più. Resta da vedere se insieme sia sparito anche il tragico dilemma che, sempre secondo Alajmo, doveva affrontare qualunque imprenditore prima di avviare un’attività, e cioè quello fra un’umiliante connivenza e una resistenza eroica che aveva alte probabilità di risolversi nel tragico modo in cui è finito Libero Grassi. L’impressione comunque è di una città decisamente più tranquilla e sicura rispetto anche a pochi decenni fa e che meriterebbe di più di quello che al momento si ritrova ad avere.


A passeggio per il centro incappo nel set cinematografico de I leoni di Sicilia, il best seller che ha raccontato la saga familiare dei Florio, partiti praticamente dal nulla e arrivati a essere una delle famiglia più ricche d’Europa nel giro di un paio di generazioni, per poi dissolversi con la stessa rapidità con cui avevano accumulato la loro ricchezza. Il romanzo evidenzia soprattutto gli aspetti frivoli di una storia che è invece interessante da molti altri punti di vista, speriamo quindi che il film banalizzi un po’ meno le vicende. E il pensiero va al Gattopardo di Visconti, proprio mentre cammino nella bellissima piazza su cui affaccia il palazzo Valguarnera-Gangi al cui interno è stata girata la famosa scena del ballo.

Ma Palermo, come tutta la Sicilia, è anche il trionfo della gastronomia, che spazia dal salato al dolce. Per gusto personale preferisco il primo al secondo (cannoli a parte) ma la fantasia dei siciliani nella preparazione del cibo è davvero inarrivabile, sia che si tratti di street food che di cucina raffinata. Resta un’annosa questione, quella della declinazione, al maschile o al femminile, di uno dei prodotti alimentari più conosciuti di tutta l’isola: arancino o arancina? Nel dubbio, facendo l’ordinazione al bancone di un bar, ho troncato la vocale finale biascicando fintamente, perché su certe cose da queste parti non è lecito scherzare, proprio come succede a Roma quando si sente dire della carbonara fatta con la pancetta anziché con il guanciale: si rischia seriamente la lite. Perché noi italiani siamo così: bravissimi a trasformare la farsa in tragedia ma purtroppo eccellenti anche nel viceversa. Un tratto del nostro carattere per il quale pare essere sempre tempo.

Premio letterario Mesagne 2022

Ricevere un premio letterario importante è una soddisfazione grandissima, un’emozione enorme e dirompente. È il riconoscimento di un lavoro lungo e faticoso fatto di meticolosa ricerca, di affinamento continuo e soprattutto di introspezione.

Scrivere è prima di tutto cercare qualcosa dentro di sé; un premio letterario ci dice che quel qualcosa si specchia nell’intimo di altre persone e, nel suo piccolo, ha assunto un carattere di universalità perché evidentemente siamo riusciti a descriverlo bene.

L’insostenibile leggerezza del covid, primo classificato nella sezione narrativa edita.

Il video della premiazione.