La saggezza del mare – Björn Larsson

"Perché viaggiare non è percorrere la Toscana a suon di risate o imparare a fare il giocoliere con tre arance sotto il sole della Sicilia. Viaggiare vuol dire avanzare penosamente pollice per pollice sulla superficie della terra."

Pessimo il titolo italiano che sembra sottendere una stereotipata didattica dell’anima. In realtà il titolo originale è Da Capo del’Ira alla Fine del Mondo, che sembra metaforico ma che invece si rifà a due promontori realmente esistenti in quella zona di mare europeo dove si è svolta la navigazione raccontata in questo libro.

I primi viaggi per mare dell’autore, ivi compresa l’autobiografia interiore sulle motivazioni che l’hanno spinto a salpare e stare via per lunghi periodi; una vera e propria scelta di vita, dipanatasi fra la Scandinavia e la Scozia, con sconfinamenti in Bretagna e Galizia.

Panorami e modi di navigare sconosciuti a noi mediterranei, spesso preda di ancestrali timori di passare le Colonne d’Ercole, ma affascinanti e avvincenti oltre che, i secondi, decisamente più complessi che nel Mare Nostrum.

Interessante, scritto in modo chiaro, eppure, mentre scorrevo le pagine, avvertivo la mancanza di qualcosa. Quando l’ho chiuso ho capito cosa: il pathos. Le emozioni sono descritte senza la fasulla epicità di molti autori di mare ma anche senza apparente coinvolgimento emotivo dell’autore. Apparente, sia chiaro: non credo che Larsson non abbia messo il cuore in quelle navigazioni come pure nello scrivere questo libro. Solo che non traspare, non si percepisce se non razionalmente.

Da leggere se si ha in programma di fare rotta a nord e si vuole avere una prima infarinatura di quello che si troverà da quelle parti.
Sull’odioso formato di Iperborea è già stato detto tutto.

Vite che non sono la mia – Emmanuel Carrère

"Se sapessimo quello che rischiamo, non oseremmo mai essere felici."

Amo molto Carrère ma questa volta non mi ha convinto del tutto. Il tema del libro è la perdita dolorosa degli affetti più cari, in modo traumatico o per lunga malattia. Nella fattispecie, la morte di un figlio, di un genitore di bambini piccoli, di un grande amore, di un confidente carissimo.

Lo stile è quello consueto dell’autore: preciso, puntuale, lessicalmente ineccepibile senza per questo perdere di chiarezza espositiva. Ma anche profondo, analitico, riflessivo. Il punto è che, a differenza di altri suoi libri che ho letto, non avvince, non coinvolge se non nelle ultime pagine in cui viene magistralmente descritta l’agonia di una malata terminale e il travaglio delle persone che gli sono attorno.

La sensazione, duole dirlo, è Carrère fosse a corto di idee: il pretesto narrativo appare debole (una bambina morta a causa di una cataclisma naturale e una mamma consumata dal cancro) e non riesce ad assumere connotati di originalità malgrado l’ottima disamina che ne viene fatta.

Penso a Limonov, un uomo di cui non sapevo nulla e per il quale non ho mai nutrito il minimo interesse; eppure ne ho letto il racconto omonimo avvinto come se si trattasse di un personaggio fondamentale della Storia.
Di questo romanzo resta il piacere della lettura di una prosa davvero ottima e alcune pagine (forse più di alcune) che certamente meritano.

Il selvaggio – Guillermo Arriaga

"Quanta patria può essere una donna per un uomo.”

Un libro che forse non avrei letto se non me l’avessero regalato ma che, una volta iniziato, mi ha subito catturato fin dalle primissime pagine. Avvincente, incalzante, ricchissimo di azione, illustra personaggi e situazioni attraverso il fitto racconto dei fatti che accadono.

Ambientato nel Messico degli ultimi anni Sessanta, offre un quadro interessante dell’epoca, fra i turbamenti dei giovani di allora, vissuti fra musica rock e droghe, e le tematiche endemiche del Sudamerica, principalmente la violenza criminale e l’estremismo religioso; e la loro terribile fusione.

Tre narrazioni parallele: il presente del protagonista principale, il suo passato traumatico, e una storia apparentemente a se stante che si svolge in un luogo distante e remoto e che solo nel finale chiude il cerchio con il resto delle vicende.

Una mole importante, settecentoquaranta pagine che per tre quarti non annoiano minimamente, anzi. Poi, praticamente un crollo: nelle ultime duecento si ha prima la percezione di una forzata esagerazione della quantità di cose che succedono, poi della fretta di concludere che si concretizza in un cambio di ritmo che ha il sapore della superficialità.

Comunque davvero ben scritto e, al netto di alcune scivolate retoriche, certamente da leggere.

Il posto – Annie Ernaux

"Sono scivolata in quella metà di mondo per la quale l’altra metà è soltanto un arredo."

Quello che immediatamente colpisce di questo breve romanzo è la delicatezza della prosa con cui è scritto: semplice (nella migliore accezione del termine) ma diretta, efficace, limpidissima. Con poche pennellate che mai paiono di maniera, l’autrice dipinge il quadro della storia di due persone, padre e figlia, senza che il lettore abbia mai men che chiaro l’andamento delle cose.

Narrato in prima persona dalla figlia, racconta l’evoluzione sociale ed economica del padre, da contadino povero di un paesino della Normandia a gestore di un piccolo negozio di alimentari, che prima acquisisce un modesto benessere e poi si ritrova stritolato dalla grande distribuzione. Di pari passo, l’emancipazione della figlia che dal provincialismo della famiglia di origine, con graduale distacco e senza mai rinnegare il proprio vissuto, effettua quel salto culturale mai riuscito ai suoi genitori e diventa una scrittrice.

Il rapporto padre-figlia, che pure vive momenti di tensione, resta comunque sempre imperniato sul reciproco rispetto, forse maggiormente che sull’affetto, vittima quest’ultimo di tempi in cui sicuramente c’era maggiore difficoltà a esprimerlo apertamente rispetto a oggi.

Chiaramente autobiografico, altrettanto chiaramente diviene paradigmatico della storia europea dall’ultimo dopoguerra in poi; di quella francese, certamente, ma decisamente anche di quella del nostro paese in quel periodo, gli anni Cinquanta e Sessanta, segnati dal boom economico. E a leggerlo, si capisce come quelli che oggi, con una punta di disprezzo, vengono definiti boomer per stigmatizzarne alcuni privilegi sociali o economici abbiano vissuto la prima parte della propria esistenza in condizioni decisamente non facili.

Non avevo letto nulla di Annie Ernaux e sono stato ovviamente incuriosito dal Nobel che le hanno assegnato quest’anno; di sicuro non mi fermerò a questo bel libro!

Il morbo di Haggard – Patrick McGrath


L'amore, per me, non è effimero, non è un'emozione passeggera, uno stato transitorio, un tuffo o un volo nella follia o nell'estasi: io lo considero, piuttosto, una condizione sublime, o addirittura sacra, una condizione in cui vengono esercitate tutte le migliori e più elevate facoltà umane.

Un amore adulterino nei suoi alterni rovesci di passione e dramma. I tormenti continui che si placano solo al contatto con la persona amata; la gioia e il dolore, la speranza e l’illusione. Poi l’abisso e l’allontanamento volontario alla ricerca dell’oblio, pur nella consapevolezza di rinunce personali e professionali enormi e terribili.

Ambientato in Inghilterra alla fine degli anni Trenta, con la tensione dei protagonisti che si somma a quella generale del periodo prebellico, il racconto conduce il lettore allo scoppio quasi congiunto di entrambe. L’amore negato che toglie il fiato in un atmosfera cupa, claustrofobica, fredda, che non lascia presagire alcun epilogo fausto.

Scritto meravigliosamente, con il giusto passo, con una terminologia ricca e con prosa curata, si perde tragicamente in un finale esagerato e grottesco, proprio come il romanzo più conosciuto di McGrath, Follia, cui quasi si sovrappone nelle ultime pagine. Eccellente la costruzione dei personaggi principali, disegnati con chiarezza e introspezione, nella loro passione come nella disperazione.

Tenendo presente che, dopo tante pagine meravigliose, c’è una grossa delusione in attesa, è comunque un libro da leggere perché, come ha detto qualcuno, l’unico amore eterno è quello non riesce ad avere il suo naturale compimento. Il morbo di Haggard, dal nome del protagonista, è quella follia amorosa che ci rende vivi; a patto di mantenersi nei confini della sanità mentale.

Un cuore così bianco – Javier Marías

"Ciò che sentii quella notte dalle labbra di Ranz non mi sembrò veniale né mi sembrò ingenuo né mi provocò sorrisi, ma mi sembrò passato. Tutto lo è, anche ciò che sta accadendo."

Javier Marías è assolutamente un fuoriclasse. Non solo per uno stile di scrittura elegante e raffinato ma anche per la sua straordinaria capacità di lanciarsi in divagazioni, apparentemente fuori contesto, la cui funzionalità alla narrazione si svela al lettore mano mano che le pagine avanzano.

Un cuore così bianco è un romanzo sul segreto e sulla sua custodia, sul tradimento, sul dolore, sul senso di colpa, sul dubbio. Ma è anche un racconto sulla fiducia che accordiamo alle persone quando le mettiamo a parte di un nostro vissuto mai svelato prima.

Il tema centrale diventa così l’opportunità o meno di dirsi tutto all’interno di contesti di coppia o familiari; non a caso i due protagonisti lavorano come interpreti, aiutano cioè a comunicare persone che altrimenti non potrebbero. Il dubbio persiste anche quando si è girata l’ultima pagina del libro che, va detto, riesce a mantenere il distacco morale dalle vicende rimanendo scevro da qualunque giudizio.

Un cuore può restare bianco, puro, secondo Marías e secondo Shakespeare che fa pronunciare a Lady Macbeth la frase che dà il titolo a quest’opera, anche a seguito di un terribile fatto criminale. O forse dirlo è solo il modo per alleggerire la coscienza da ciò che essa stessa non riuscirebbe a sopportare.

Non dire notte – Amos Oz

Un romanzo a due voci, quelle di Theo e Noa, una coppia non più giovane e con una discreta differenza di età, nel cui rapporto, in fase di stanca, si alternano insofferenza e dipendenza reciproca. Lui, alle soglie della pensione ha perso gli stimoli a fare cose nuove, lei al contrario è ansiosa di intraprendere nuove iniziative.

Un evento drammatico, la morte di un’allievo di Noa, rompe l’equilibro fra i due, che però si ritrovano presto in un sentimento reciproco che è ancora profondo. Ritrovano soprattutto il rispetto per le differenze che esistono fra di loro e di queste differenze si alimentano, mitigando i propri eccessi e rinnovando l’amore che li lega.

A fare da quinta alle vicende, una cittadina del Negev stretta fra un sofferto isolamento e il provincialismo tipico dei piccoli centri che mal vedono qualunque cambiamento o novità. Fra le pagine si respirano la polvere del deserto e la mentalità a volte gretta delle persone.

Forse non è il migliore dei libri di Oz ma contiene certamente tutti gli elementi dello stile del grandissimo scrittore israeliano, primo fra tutti la capacità di scavare con delicatezza e grande lucidità dentro le persone e i rapporti che le legano.

Gli invisibili – Pajtim Statovci

"Alcune persone sono così. Aspettano, si spostano da una stanza all'altra e aspettano, piangono e aspettano, stanno seduti in poltrona e aspettano, aspettano di sposarsi, aspettano di diventare genitori, aspettano che figli si laureino, aspettano che sia pronto da mangiare, che arrivi il weekend, che il salario aumenti.”

Uno dei libri più tristi e angoscianti che abbia mai letto. C’è tutto: la guerra, l’amore impossibile, la negazione del sé, la morte, l’infanzia infelice, l’ingiustizia, il tradimento, la pazzia, la depressione, la povertà, la miseria. E l’elenco potrebbe continuare.

Ciononostante, il libro avvince e si fa leggere. Non per la morbosa curiosità di sapere cos’altro di tragico possa capitare ai protagonisti, ma perché è scritto veramente bene, tanto da aver vinto un importante premio letterario in Finlandia, paese d’adozione dell’autore.

Un autore piuttosto giovane, per altro, che quindi, data l’età, dimostra una capacità fuori dal comune di scandagliare l’animo umano nei suoi dolori e nelle sue sofferenze.

Molti i riferimenti al clima sociale e bellico del Kosovo degli anni Novanta: un utile ripasso di ciò che l’odio etnico e religioso può produrre.
Da leggere, magari con l’animo predisposto.

Il libro del mare – Morten Strøksnes

I marinai a terra fanno pensare a ospiti irrequieti. Magari non si imbarcheranno mai più, ma continueranno comunque a parlare e a muoversi come se fossero lì soltanto in visita, e per breve tempo. Mai si libereranno della nostalgia del mare. E il mare che li chiama è costretto ad accontentarsi di risposte evasive.

Semplicemente fantastico, uno dei libri di mare più belli che abbia mai letto. Un trattato enciclopedico in forma di romanzo che abbraccia tutte le scienze legate agli oceani: dalla zoologia alla geologia, dalla climatologia alla storia.

La trama è semplice: due amici di vecchia data si sono messi in testa di pescare uno squalo della Groenlandia, uno degli essere viventi più grandi e più longevi del pianeta e che abita i mari attorno alla Norvegia, con un piccolo gommone. Non sono inesperti, ma l’impresa è tutt’altro che facile. Le vicende, però, sono solo un pretesto per l’autore per raccontare tutto quello che sa – tantissimo , del mare.

Scritto in modo chiarissimo e ricco di pagine pregevoli anche dal punto di vista letterario, Il libro del mare non potrebbe avere titolo più azzeccato. In alcuni passaggi ricorda Melville, sia per il rapporto fra uomo e preda-mostro, sia per le descrizioni accuratissime della vita e delle usanze dei pescatori, scandinavi in questo caso, balenieri inclusi.

Le Lofoten, isole norvegesi oltre il circolo polare artico, sono la splendida cornice del racconto. Descritte nelle atmosfere in modo così accurato da lasciar trasparire l’amore evidente che Strøksnes nutre per quei luoghi affascinanti e remoti.