L’isola Dio

Dopo un po’ la bassa marea la riconosci anche ad occhi chiusi: la percepisci dall’odore emanato dalle alghe e dai crostacei che il mare scopre quando si ritira. Un odore forte, dolciastro, che rende l’aria leggermente stantia e penetra nelle narici lasciando in bocca il sapore dell’oceano. Viceversa, quando la marea è alta, l’odore scompare come per magia e l’aria diventa più pulita. Quindi per sapere se si è in alta o in bassa, spesso basta respirare a fondo con il naso. D’altra parte in Vandea, nel periodo sigiziale, quello di massima ampiezza, fra l’alta e la bassa c’è un’escursione di cinque o sei metri; valori che possono rendere accessibili i porti solo in certi orari e che determinano correnti nell’ordine di qualche nodo. In Bretagna sarà anche peggio, lo so.

Dopo una breve sosta a Les Sables d’Olonne, per onorare quello che è un vero e proprio tempio della vela sportiva oceanica, sono in rotta per L’Île-d’Yeu, una piccola isola una trentina di miglia più a nord. Quando arrivo in prossimità della costa, lo scarto fra prua magnetica e prua vera dovuto alla corrente è di circa trenta gradi: se guardo avanti sembra che stia puntando esattamente la grande spiaggia sul lato meridionale ma dal GPS risulta un chiaro e abbondante margine di sicurezza. La navigazione non è stata molto rilassante: il ciclone Erin che ha investito l’Irlanda ha lasciato uno swell che rispetto a ieri si sta riducendo ma è ancora oltre i due metri. E il vento, a dispetto di quanto noi mediterranei immaginiamo dell’Atlantico, è stato piuttosto ballerino. Arrivo a Port Joinville, lo scalo dell’isola, con l’alta marea, quindi nessun timore all’ingresso.

L’origine del nome è incerto, forse derivante dalla lingua celtica. Una volta, però, ho visto scritto L’Île Dieu, che si pronuncia alla stessa maniera ma letteralmente significa l’Isola Dio. Stordito dalla bellezza e dalla quiete che avvolge questo francobollo di terra immerso nel Golfo di Biscaglia, m’è sembrato un nome appropriato; sarà che sono stato sempre affascinato più dalle cose terrene che da quelle celesti. E con questo credo di aver già detto nel modo più esplicito possibile quanto questo posto mi sia entrato immediatamente nel cuore! Un detto francese recita più o meno: a Saint-Tropez si va per essere visti, all’Île-d’Yeu per nascondersi. Diciamo che è un luogo decisamente antimondano, dove non ci sono grandi alberghi, la gente gira per lo più in bicicletta e bar e ristoranti non sparano a tutto volume il tormentone ispanico dell’estate. Un’isola chic ma senza essere radical.

Joinville, il centro principale, è un dedalo di stradine e case bianche un tempo dimora di pescatori e oggi acquistate a peso d’oro dai francesi continentali; sempre ristrutturate con estremo gusto e senza cafonate alloctone. Fuori dal paese tanti altri piccoli agglomerati, tutti con le stesse caratteristiche architettoniche, sempre attorniati da un’aura di quiete ed eleganza. E sempre poco fuori dal paese, uno spiaggione lunghissimo la cui estensione è ovviamente dipendente dalla marea: alcuni coraggiosi fanno il bagno, altri stanno gonfiando la vela del loro surf munito di foil mentre una lunga fila di piccoli catamarani sportivi giace nella parte più alta dell’arenile in attesa di un meteo più clemente. Sulla sabbia, dove l’acqua si è ritirata, il mare ha disegnato alcuni arabeschi puntellati qua e là da ciuffi di alghe, piccoli sassi e gusci di conchiglie vuoti.

Camminando in direzione dell’altro versante dell’isola incappo in un cartello con il classico “voi siete qui” che aiuta a orientarsi anche nell’epoca di Google Maps. I contorni disegnati dell’isola sono sfumati perché cambiano di molto a seconda dell’alta o della bassa marea. Così, i colori diventano tre: uno scuro per la terraferma, uno blu per il mare, e uno chiaro per illustrare quella fascia costiera che a seconda delle fasi di marea appartiene all’uno o all’altro regno naturale. Il lato occidentale dell’isola è quello più selvaggio. Qui l’onda infinita che parte dall’altro capo del mondo martella incessantemente la costa e oggi, per di più, il vento soffia a Forza 6. Ma gli scenari che offre sono davvero incantevoli. C’è anche un antico castello duecentesco, piacevolmente visitabile.

Arrivo a Port Moulle, una piccola insenatura la cui forma offre una protezione naturale dall’oceano a una manciata di piccole imbarcazioni che finiscono in secca durante la bassa marea. Resto estasiato dall’atmosfera incantevole che c’è, fatta di silenzio sotto cui soggiace un rombo ovattato di onde oceaniche che frangono violente. Su un lato un piccolo ed elegante ristorante, decorato in stile marinaro-chic mi offre l’opportunità di dare una degna conclusione alla giornata: l’ostrica qui è sempre dietro l’angolo. E chi sono io per non approfittarne!

Attraverso Biscaglia

Un’opaca falce di luna, incollata ad un cielo nero come la pece, non riesce a stemperare il buio quasi assoluto della notte. Il pozzetto è appena rischiarato dal modesto bagliore dello schermo del computer che il tambuccio lascia trapelare. Quando la prua colpisce in pieno un’onda, gli spruzzi esplodono riflettendo il rosso e il verde delle luci di via producendo una sorta di spettacolo pirotecnico, che si riflette a sua volta sulla coperta e sulle vele bianche illuminandole all’improvviso per qualche secondo. Nessuna luce all’orizzonte, nessun segnale sull’AIS: non ci sono altre navi o imbarcazioni intorno a me, sono completamente solo in questo tratto orientale del Golfo di Biscaglia che sto tagliando in diagonale.

Sono partito questa mattina da Bermeo, un piccolo porto peschereccio poco a est di Bilbao, nei Paesi Baschi, dove mi ero ancorato al precario ridosso del molo di sovraflutto. Mi sono svegliato all’alba ma un problema all’alternatore mi ha fatto perdere alcune ore prima di risolverlo e quindi solo in tarda mattinata ho salpato l’ancora in direzione di Arcachon, in Nuova Aquitania, un’estuario che ha il vizio di insabbiarsi rendendo quindi pericoloso l’ingresso. Piazza Grande ha preso subito un passo meraviglioso: un vento tra i dodici e i diciotto nodi e senza uno swell importante l’ha posta in un’andatura di bolina larga a oltre sei nodi, stabile e confortevole. Le circa cento miglia che ho da percorrere, penso, scorreranno via in un baleno!

Dopo due mesi in cui ho conosciuto due sole andature, il motore e il bordeggio con venticinque nodi e due metri d’onda, mi è sembrato un peccato sprecare un ben di Dio di tale portata. Allora ho accostato venti gradi e puntato la prua su La Rochelle: le miglia sono così diventate duecento ma ho calcolato di riuscire ad arrivare prima della seconda notte di navigazione, ed eccomi qui. Ogni tanto una leggera variazione di direzione o intensità del vento mi costringe a qualche piccola regolazione fino a ridurre un poco il genoa. Calato il sole, la notte scorre serena con i consueti sonnellini di venti minuti; cullato dall’onda, dallo sciabordio sullo scafo e dalla sensazione che la barca sappia perfettamente come comportarsi anche senza il mio costante controllo.

È l’alba quando uno stormo di gabbiani mi viene incontro garrendo, annunciandomi implicitamente la prossimità di una costa che ancora non si mostra ai miei occhi. Ho molte miglia ancora da fare e impiego il tempo per scegliere dove fermarmi una volta arrivato. Dopo navigazioni così lunghe mi piace dare ancora in una baia protetta, gustare il passaggio repentino dal movimento alla quiete assoluta. Purtroppo la rada de La Rochelle non ha posti con queste caratteristiche e rischio di passare la notte nel frullatore. Il porto, viceversa, ha problemi di bassifondi nel canale di accesso e per fatalità arriverò esattamente al culmine della bassa marea. Del mare si bisogna prendere quello che può offrire, non ci sono altrimenti.

Dall’ingresso della baia al porto sono circa otto miglia, rischio di arrivare con il buio, una complicazione ulteriore che preferisco evitare. Accendo il motore per dare un aiuto alle vele e mi allineo nel canale proprio quando sta scemando l’ultimo chiarore del giorno. Tengo un’occhio fisso sull’ecoscandaglio ma fortuna vuole che abbia davanti un’altra barca a vela: mi accodo disciplinatamente a questa mia inconsapevole apripista nella speranza che non abbia un’ingannevole deriva mobile. È ormai buio quando accosto al molo d’accoglienza. Da una barca attraccata pochi minuti prima di me scendono alcune persone a cui chiedo gentilmente di prendere le mie cime. Le passano a doppino e quando me le restituiscono do volta sulle gallocce e sento che sto mettendo il punto a questa lunga navigazione: trentaquattro ore per centottantotto miglia. Mi aspetta una notte di risposo nella quiete dell’acqua immobile del porto. Fuori, l’oceano che mi ha condotto fin qui.