Sfiorando Albione

Il mare frange rabbiosamente sui mille scogli che mi circondano, esplodendo con fragore sinistro e lasciando al vento teso il compito di dissolvere in un’aria già densa di umidità i resti frammentati della deflagrazione. In questo scenario attraverso il campo minato di rocce affioranti davanti all’Île-de-Bréhat, percorrendo rigidamente il tracciato marcato dalle segnalazioni marittime cardinali. Stamattina sono salpato all’alba per sfruttare al massimo le ore di luce e coprire prima del buio le cinquanta miglia che ho in programma fino a Saint-Quay-Portrieux, un porto corazzato contro qualunque meteo o marea. Insieme a me sono partite altre due barche, una francese e una inglese: mi sono sentito confortato di aver fatto la scelta giusta, quella di salpare con previsioni di due metri d’onda e vento oltre i trenta nodi ma portante. D’altra parte, con la corrente che c’è da queste parti, senza una forte spinta non si avanza.

In teoria passata l’Île-de-Bréhat dovrei essere ridossato, in realtà ogni paio d’ore c’è un groppo, il vento passa da quindici a trenta nodi e le onde da un metro a due metri e mezzo. In Mediterraneo quando entri in un golfo hai la sensazione di essere in uno spazio protetto, qui invece sembra di stare sull’ottovolante. Però non mi ferma nessuno: ogni tanto cancello dal computer il waypoint che ho raggiunto e mi focalizzo sul successivo, continuando a fare lo slalom fra gli ostacoli naturali a una velocità che adesso, fra vento e corrente, è sempre sopra i sette nodi. Quando inizia a piovere me ne vado sottocoperta e lascio Piazza Grande a gestirsela da sola in attesa che smetta.
Alle sei e mezzo di sera scorre alla mia dritta il fanale verde del molo di sopraflutto ed entro nel marina. Dieci ore circa dalla partenza: niente male considerando il tratto che ho fatto a bassissima velocità per la corrente contraria.

È incredibile l’escursione di marea che c’è qui: siamo intorno ai dodici metri. I pali su cui scorrono i pontili galleggianti hanno una altezza impressionante durante la bassa e le passerelle che poggiano sulle banchine sono lunghissime per non diventare ripide come scale a pioli quando sono inclinate verso il basso. Una sera, rientrando in porto dopo il solito rito gastronomico a base di ostriche e Muscadet, mi fermo in cima alla passerella e guardo la sua estremità, dodici metri più in basso, appoggiata al pontile illuminato da una fila di luci: sembra una pista di atterraggio e io il pilota che deve centrarla con il proprio velivolo. Ma forse sono solo gli effetti del Muscadet… a voi, torre di controllo!

A Saint-Quay-Portrieux si sta davvero bene, tutto funziona alla perfezione e il costo non è elevato, quindi decido di fermarmi qualche giorno per riposare un po’. Il marinaio, però, vive in un eterno conflitto interiore: cerca la quiete quando è sballottato dai flutti ma gli basta stare poco tempo fermo in porto per sentire dentro di sé la frenesia del richiamo del mare, quell’anelito interiore, quella sirena irresistibile che lo spinge a sciogliere gli ormeggi dal molo e partire. Ed ecco allora per me una nuova alba con la prua sull’orizzonte, a cercare un’isola che c’è: Jersey, poco più di cento chilometri quadrati appartenenti al regno di sua maestà britannica, malgrado si trovi a pochissima distanza dalla costa francese.

Il mare è stranamente calmo, spianato dal sudovest dei giorni scorsi; non sono più abituato a vederlo così. Il vento è poco ma con questo mare non me ne serve molto per avere una velocità dignitosa. Un gigantesco campo eolico, lungo dieci miglia e largo quattro, mi costringe a una deviazione di rotta per rispettare il divieto di non attraversarlo, mentre mi chiedo quali logiche, economiche, ecologiche, o altro, possano rendere conveniente piantare decine di questi enormi ventilatori in mezzo al mare e collegarli in qualche modo alla terraferma. Arrivo nel tardo pomeriggio nella rada che ho scelto; alcune boe libere mi risparmiano la fatica di calare l’ancora: passo due cime nel gavitello e stappo la solita birra di benarrivato. Sto sottocoperta perché fa un po’ freddo, quando sento delle voci: esco fuori e un gruppo di una ventina di nuotatori, partiti dalla spiaggia, mi ha scelto come traguardo e sta sguazzando attorno alla barca. Scambiamo due parole, io con il cappello di lana in testa, loro nell’acqua in costume da bagno, poi se ne ripartono con nonchalance verso la riva, lasciandomi con il dubbio di chi, se io o loro, abbia sbagliato l’abito. Torno giù prima di congelarmi e chiudo il tambuccio: loro, sicuramente.

Porti con la porta

Tra le tante difficoltà della navigazione nella Manica c’è il fatto che i porti sono spesso accessibili solo in determinate condizioni di marea. Alcuni vanno addirittura completamente in secco con la bassa ed è incredibile vedere le imbarcazioni adagiate sul fango che l’acqua ritirandosi lascia dietro di sé. Sono porti in cui stazionano piccole barche a motore e qualche volta barche a vela con la doppia deriva oppure attrezzate con due pali di sostegno laterali che impediscono loro di finire coricate su un fianco. Altri, per ovviare al problema, hanno una chiusa all’ingresso che viene serrata quando la marea cala, così da trattenere l’acqua e permettere alle barche di galleggiare anche quando fuori tutto si trasforma in una palude. Infine ci sono i porti accessibili in qualunque condizione, ma non sono molti e non sempre la distanza fra di essi è percorribile in una giornata di navigazione.

Navigare di notte oppure arrivare di notte in un porto sconosciuto sono due cose che stando da solo a bordo in queste acque difficili preferisco evitare. In mare è normale fare lo slalom fra una quantità enorme di segnalazioni marittime e pedagni di attrezzature da pesca, e la corrente di marea provoca spesso una deriva tale che senza una buona visuale è difficile valutare esattamente se si è sulla traiettoria giusta per evitare un ostacolo; figuriamoci se l’ostacolo non è ben visibile! Ma la corrente è spesso forte anche dentro il porto e quindi, anche in considerazione del fatto che è molto raro avere assistenza a terra durante l’ormeggio, senza luce tutto diventa molto complicato, se non pericoloso. Insomma, la rotta va programmata nel modo più accurato possibile per evitare brutte sorprese.

Lascio la boa nell’ansa protetta dell’Aber Wrach’ con discreta calma, tanto le miglia in programma non sono molte, poco più di trenta; l’idea è di arrivare fino a Roscoff dove c’è un bellissimo e moderno marina accessibile in qualunque condizione. Le previsioni danno vento fino a trenta nodi, ma sarà portante quindi non sarà una navigazione pesante. Inizialmente ho la corrente contraria e avanzo piuttosto lentamente, poi verso l’ora di pranzo si inverte e Piazza Grande inizia a correre sull’acqua come un cavallo lanciato al galoppo fra onde alte un paio di metri. Sul VHF sento lanciare un Pan Pan ma qui gli avvisi via radio vengono dati solo in francese e non riesco a capire di cosa si tratti.
Decido di chiamare il porto, più per avere informazioni sull’ingresso che altro, perché in Bretagna generalmente non vengono accettate prenotazioni: – Mi dispiace, – mi risponde una voce cortese all’altro capo del telefono – ma oggi ospitiamo una tappa della regata Solitaire du Figaro e quindi non abbiamo alcuna disponibilità di ormeggio. -Fantastico!

Il piano B, perché in mare bisogna sempre avere un piano B, è Trébeurden, che però è uno di quei porti con la chiusa e inoltre richiede circa quindici miglia di navigazione in più. Chiamo, per sicurezza, perché se anche qui dovessero darmi buca sarei nei guai. Il posto c’è, la chiusa apre alle 17:30 ma per il mio pescaggio mi consigliano di aspettare fino alle 18:30. Nessun problema perché non credo di arrivare prima di quell’ora. Mi dicono dove mettermi ma ovviamente per la manovra di attracco dovrò vedermela da solo. Le condizioni meteo intanto si sono fatte piuttosto dure: i trenta nodi di vento previsti ci sono abbondantemente tutti, la corrente e il mare formato pure e come ciliegina sulla torta ogni mezzora una scarica di pioggia. Io però trovo tutto questo terribilmente affascinante altrimenti sarei restato a fare gli aperitivi in rada alla Maddalena.

In prossimità del porto mi si presenta un problema non da poco: uscire dal pozzetto per mettere i parabordi e le cime per l’ormeggio, perché con quest’onda il pilota automatico ha bisogno di velocità per mantenere un minimo la rotta. Compio dei numeri da equilibrista fra gli scogli davanti all’ingresso e un campo boe dove le barche saltano come marionette, facendo avanti e indietro diverse volte, poi torno al timone e punto deciso la chiusa, larga solo una decina di metri, poco più del doppio di Piazza Grande. Una volta dentro provo a infilarmi in un finger ma la corrente mi dà chiari segnali che da solo non avrei il tempo di saltare a terra a mettere le cime prima che la barca venga trascinata via. Dall’unica imbarcazione al pontile dei transiti vedo una testa sporgersi dal tambuccio, gli faccio un cenno e vengono ad aiutarmi. Un po’ maldestramente ma, bene o male, alla fine sono ormeggiato: alla faccia del groppo durato giusto i dieci minuti della manovra!
Tiro un sospiro di sollievo e stappo una birra: al crepuscolo è la giusta ricompensa per questa faticosa giornata.

Che Raz di corrent!

Dopo una breve sosta a Concarneau, in teoria una fermata tecnica, in pratica un’altra bella cittadina bretone da visitare con piacere, mi preparo ad affrontare due dei passaggi più difficili della zona, il Raz di Sein e il canale di Ouessant, per entrare così nel canale della Manica. Sia Sein che Ouessant sono piccole isole, e fra loro e la terraferma la corrente di marea subisce forti accelerazioni che condizionano pesantemente la navigazione. Faccio una prima giornata di vela fino a una piccola baia dove trovo dei gavitelli liberi e ci passo una notte non tranquillissima ma dignitosa. Poi, prima dell’alba, mollo la boa e apro le vele per sfruttare il vento perfetto da sud che avrò al traverso per una decina di miglia e poi in poppa una volta entrato nel Raz di Sein. Secondo le previsioni, quando sarò lì, dovrei avere circa un paio di nodi di corrente contraria: avanzerò lentamente, ma avanzerò. Il sole si solleva pigramente alle mie spalle infuocando maestosamente il cielo intorno alle grosse nuvole addensate sull’orizzonte; superb!

Quando sono a poche centinaia di metri dall’iconico faro del Raz, quello posto su un piccolo scoglio e fotografato spesso nella tempesta, vedo le onde, che sono alte un paio di metri, spianarsi improvvisamente e intuisco che la corrente è ben più forte. Appena esco dal ridosso del promontorio prospicente l’isola di Sein, un violento flusso d’acqua mi investe e malgrado il LOG segni una velocità di cinque nodi abbondanti per rotta 340°, il GPS mi indica una velocità di meno di un nodo con direzione 220°. Ho acqua sottovento quindi sono tranquillo, ma certo che così non vado da nessuna parte! Decido di dare un’aiutino con il motore e riesco a rimettere più o meno la barca in rotta e a percorrere le due miglia e mezzo del canale in circa un’ora e mezza. Nel frattempo mi godo lo spettacolo maestoso di un mare che a tratti ribolle, sotto un cielo plumbeo da cui ogni tanto viene giù uno scroscio di pioggia. C’è un’atmosfera surreale: la superficie del mare su cui avanzo lentamente è piatta ma a poca distanza vedo onde importanti, mentre sopra di me volteggiano sterne e cormorani con le ali ferme, in planata sul vento.

Siamo in periodo sigiziale quindi il coefficiente di marea è altissimo, ma la stessa forza che ho in opposizione nel giro di poche ore volge a mio favore e Piazza Grande inizia a correre di vento, di onde, e di corrente a oltre otto nodi, recuperando in fretta il tempo perso al Raz. In queste condizioni il canale di Ouessant lo affronto con relativa semplicità, a parte l’attenzione alle numerose segnalazioni marittime – boe cardinali oppure mede rosse e verdi – che indicano il percorso corretto per non finire a scogli in questo che è un vero e proprio campo minato. Passato Ouessant il vento aumenta, la corrente aumenta, le onde aumentano e la velocità supera spesso i dieci nodi. Inizia anche a piovere forte e, visto che in giro non c’è nessuno, chiudo il tambucio e me ne resto sottocoperta, aggiustando di tanto in tanto la rotta grazie a telecomando dell’autopilota che ho provvidenzialmente installato prima di partire. Piazza Grande fa la sua parte in modo eccellente.

La mia destinazione è l’Aber-Wrac’h, un fiume che si trova proprio all’ingresso della Manica e al cui interno, a un paio di miglia dal mare, c’è un piccolo porto che ho già contattato, anche per chiedere eventuale assistenza all’ormeggio visto che sono da solo e la corrente e il vento sono molto forti, quest’ultimo oltre i trenta nodi. L’ingresso nel fiume ha un percorso rigidamente segnalato ma per entrare devo orzare molto e quindi mi ritrovo quasi di bolina, investito da pioggia e schizzi di acqua di mare. Mi riparo dietro lo sprayhood mettendo di tanto in tanto la testa fuori per controllare e dare quale piccola aggiustatina alle vele o alla rotta. Speravo che l’onda calasse una volta dentro ma non è così: l’alta marea ha sommerso tutti gli isolotti che potevano smorzare il mare e devo percorrere un lungo tratto prima che l’acqua si quieti.

Sono stanco, domani vorrei salpare presto, e l’idea di entrare in porto e perdere tempo sia per l’ormeggio che per registrarmi non mi esalta. Davanti all’ingresso ci sono alcune barche alla boa, decido di unirmi a loro quando mi si accosta il gommone del porto per offrirmi aiuto nel passare la cima nel gavitello: un bel colpo di fortuna per una manovra che da solo con vento forte è davvero difficile. Pago direttamente al tizio in gommone, poi spengo il motore e insieme si spegne tutto il movimento che ha accompagnato questa lunga giornata di navigazione. Al tramonto il vento cala fino quasi a esaurirsi e il silenzio scende su questa meravigliosa insenatura dall’atmosfera lacustre. Stappo un prosecco per festeggiare l’ingresso nella Manica, o English Channel che dir si voglia, e brindo a questo mare difficile ma entusiasmante.
Alla via così!

Ostriche e Muscadet

Man mano che avanzo verso nord gli effetti delle maree incidono sempre di più sulle mie navigazioni. Sia sulla loro programmazione, che in certi passaggi deve per forza di cose tenere conto della corrente che viene generata dal su e giù delle acque, sia nelle manovre in porto dove gli angusti spazi non lasciano molta possibilità di errore. Per di più, qui in Bretagna, non si usa dare assistenza all’ormeggio; quando si chiama, via radio o al telefono, viene assegnato un posto, spiegato più o meno dove dirigersi una volta entrati, e tanti saluti. Stando da solo a bordo, se la corrente è forte può essere un problema, perché l’ormeggio su finger da soli senza supporto a terra è una cosa complicata. A Crouesty, all’ingresso del Golfo di Morbihan, a un certo punto per rallentare ho dovuto ingranare la retro nel canale di accesso ai pontili perché anche con il motore in folle ero troppo veloce! Il marina però è bellissimo, molto grande ed efficiente e ha anche un supermercato molto vicino. Hic manebimus optime!

Dato che per un paio di giorni soffierà forte, oltre quaranta nodi, per visitare il Golfo di Morbihan, un ampio bacino costellato di isole e scogli, mi affido a un battello turistico che lo attraversa fino all’Île-d’Arz, che sta proprio nel mezzo. Piove, anzi c’è il sole, anzi ripiove, anzi… E via così. Un detto locale recita che in Bretagna fa bel tempo molte volte al giorno, e io ne ho avuto la precisa conferma. Appena sbarcato, in compagnia di un’amica, ci incamminiamo per visitare l’isola ma in un attimo il sole sparisce e inizia a piovere forte, in orizzontale visto il forte vento. Ho previdentemente indossato la cerata da vela, ma nel giro di pochi minuti i miei jeans sono zuppi come se mi fossi tuffato in mare. Cerco un riparo, ma siamo in un punto completamente aperto. Provo a resistere fino a quando sento una goccia d’acqua scorrere lungo la schiena e insinuarsi nella biancheria intima. Mi dichiaro sconfitto e mi rassegno a una giornata con i pantaloni zuppi addosso; un toccasana per le mie articolazioni.

L’Île-d’Arz è bellissima, selvaggia, cosparsa di casette con i tetti in ardesia, nel tipico stile bretone, e con ampie zone che con la bassa marea diventano paludosi acquitrini. In uno di questi c’è un mulino cinquecentesco ad acqua restaurato di recente e un paio di vecchie barchette abbandonate. Alle spalle, una piccola spiaggia dove ha terminato la sua vita una grossa imbarcazione in legno di cui resta praticamente solo lo scheletro lasciato a marcire. Fascino, sapore di antico, aura di mistero. In giro, vuoi perché il meteo non è dei migliori, vuoi perché ormai siamo a settembre, non c’è quasi nessuno. I pantaloni nel frattempo mi si sono asciugati addosso per il vento ma neanche dieci minuti e parte un nuovo sgrullone: è il mio giorno fortunato!

L’indomani, con Piazza Grande sempre ferma in porto per il ventone, altro giro terrestre. Stavolta tocca a Vannes, una cittadina graziosa ma molto turistica, e poi a quello che probabilmente è uno dei paesini più incantevoli della zona: Auray-Saint-Goustan. Si tratta di un villaggio medievale meravigliosamente conservato, oggi ovviamente riconvertito al turismo ma pervaso da una quiete che stordisce. Devo dire che in Francia non mi è mai capitato di trovare locali con la musica ad alto volume per attirare i clienti, la qual cosa mi piace molto perché quella di imporre agli altri i propri cacofonici decibel la trovo un’abitudine davvero pessima, a tratti violenta.

Dici Bretagna e pensi alle ostriche, che qui sono quasi uno stile di vita. Ci sono molti bar à huitres, locali dove servono quasi esclusivamente ostriche e molluschi crudi, accompagnati da un vino bianco, generalmente Muscadet, prodotto nella Loira atlantica. La mia amica mi porta in uno di questi, nascosto tra una piccola pineta e le scogliere di Morbihan, dove mi assicura hanno le migliori ostriche della zona. In realtà si tratta di un produttore che ha allestito una decina di tavoli e serve le sue ostriche appena tirate fuori dall’acqua. Quando il cameriere arriva con il vassoio pieno, ho un moto di commozione: il sole rosseggia sull’acqua creando una meravigliosa atmosfera che appaga l’anima e le ostriche saporitissime provvedono a soddisfare il corpo. Anima sana in ostrica sana!

Schivando orche


La sveglia è puntata alle cinque per poter salpare prima dell’alba, al primo chiarore, e sfruttare così al massimo le ore di luce. Alle quattro, però, sono già in piedi perché durante la notte è calato il vento e la barca rolla da morire. Poco male, me la prendo comoda; mi faccio una moka doppia e ricontrollo il meteo e la rotta. Ho davanti circa sessanta miglia fino a Sines; niente di che se non fosse per un paio di handicap. Il primo è che non ci sono porti né rade lungo la strada, quindi una volta partito bisogna per forza andare fino in fondo; il secondo sono le orche, che da un paio di giorni hanno rifatto capolino proprio nel tratto di mare che devo affrontare.

L’indicazione è di mantenersi nella batimetrica dei venti per limitare eventuali interazioni. Il problema, oltre al fatto che così la rotta da percorrere si allunga perché bisogna seguire il profilo della costa senza tagliare mai, è che non sempre questo è possibile. A volte, in presenza si scogliere a picco, già a poche decine di metri dalle rocce ci sono profondità importanti, e chi va per mare sa bene quanto sia pericoloso navigare in prossimità degli scogli. Ma non ho molta scelta: o così, o niente. Accetto il rischio, salpo l’ancora e parto.

Le prime miglia le percorro con l’attenzione di un predatore in cerca del pasto. Scruto continuamente la superficie del mare, sobbalzando a ogni ombra scura fra i flutti, a ogni riflesso strano di luce, a ogni uccello marino che sfiora l’acqua, a ogni pedagno lasciato dai pescatori. Poi, piano piano mi rilasso, con l’aumentare della luce aumenta anche la visibilità e mi concedo qualche momento sottocoperta per controllare la carta nautica e cercare un eventuale riparo dove dare ancora in caso di attacco da parte delle orche, anche in considerazione del fatto che sono da solo. Momenti rapidi, perché ci sono anche da schivare le tantissime reti da pesca disseminate un po’ ovunque.

Il vento è poco, il mare è in scaduta e l’onda, benché di un metro abbondante, è lunga e poco fastidiosa. Avanzo così, grazie alla spinta dell’entrobordo, per circa undici ore, progressivamente sempre più rilassato, malgrado dai canali Telegram arrivino segnalazioni di avvistamenti delle bestiole poco sotto Cabo Espichel, subito a nord di Sines. Alle cinque entro in porto e calo l’ancora davanti alla spiaggia dedicata a Vasco de Gama, il grande navigatore portoghese. C’è la sua statua proprio sopra il porto, sembra scrutarmi severo: chissà se ai suoi tempi si penava così per i cetacei. Intanto domani altre quaranta miglia fino a Setubal. Alla via così!