
Da anni mi incuriosiva questo libro. Non di per sé, ma perché l’ho sentito consigliare anche da persone che so che leggono buona letteratura e che l’avevano definito “di spessore”. Mi ha però sempre scoraggiato la mole: cinquecento pagine dell’autobiografia di un tennista, per quanto ami i libri di molte pagine e in gioventù abbia giocato per diversi anni a tennis, mi sono sempre parse un impegno temporale eccessivo.
Qualche giorno fa, complice il caldo che incoraggia letture poco impegnative, ho deciso di dargli una chance che forse avrei fatto meglio a non dargli: la solita asettica prosa del ghost-writer, dichiarato solo nei ringraziamenti come collaboratore ma in realtà nientepopòdimeno che un premio Pulitzer, il quale secondo l'”autore” avrebbe lui stesso chiesto di non comparire in copertina (sì, vabbè!).
Sostanzialmente una biografia celebrativa, agiografica, con qualche frecciatina ai colleghi (Sampras in primis) e che, a parte il racconto dell’infanzia con il padre-padrone che lo obbligava a giocare, non ha molto di interessante. A meno di trovare interessante la specificazione di aver visto settantacinque leoni durante un safari in Africa con la moglie, l’attrice Brooke Shields, quella che ha sulla coscienza le diottrie e i calli alle mani di un paio di generazioni di adolescenti.
Peccato, perché qualche spunto c’è: le alterne fortune di uno sportivo di gran talento poteva essere un tema interessante, se questo non fosse stato ridotto molto spesso a una sterile cronaca di decine di match, praticamente identici fra loro dal punto di vista narrativo.
La vita è un continuo morire e rinascere, è la lezione del libro; onore al tennista Agassi che ha saputo riprendersi mille volte dopo essere altrettante volte precipitato nell’abisso, sportivo e personale. Ma è decisamente preferibile quando ha, o aveva, la racchetta in mano che la penna (o il microfono per registrare gli aneddoti da girare allo scrivano).