
Giuseppe Berto è decisamente uno dei più grandi romanzieri italiani del Novecento, e possiede un talento davvero speciale nel descrivere minuziosamente i travagli interiori dei protagonisti delle sue opere. Ne avevo già avuto dimostrazione con il meraviglioso Il male oscuro, ne ho trovato qui una piacevole conferma.
Sono narrate le vicende amorose di Antonio, un giovane provinciale, spiantato e sfortunato, preda delle normali pulsioni sessuali dell’età ma represso da una morale rigida che all’epoca in cui è ambientato il romanzo, i primi anni Sessanta, non si era ancora liberata dai condizionamenti religiosi e borghesi. Attenzione a non leggere la bandella (almeno nell’edizione che ho comprato io) perché è svelata e per filo e per segno la trama, finale compreso, togliendo alla lettura il piacere di scoprire come reagirà il protagonista di fronte alle sue sventure.
Seppur scritto in terza persona, ha tutti i connotati del flusso di coscienza: un vero fiume in piena di parole e pensieri che travolge il lettore senza interruzioni di ritmo. Forse qualche virgola in più avrebbe agevolato la lettura di una prosa fatta di periodi lunghissimi (anche pagine intere) con numerose subordinate su cui a volte bisogna soffermarsi per suddividerle sintatticamente in modo appropriato.
A far da sfondo alle vicende, una Venezia minore, di campi e calli secondari, e i piccoli centri circostanti che mostrano un Veneto ancora povero e campagnolo. E su questo contesto urbano e suburbano fatto di freddo e nebbia, aleggia la depressione, quella stessa depressione che de Il male oscuro è il soggetto principale e che si esprime e prende forma negli interminabili arzigogoli della mente di Antonio, portandoci ora a compatirlo per le sue sofferenze, ora quasi a disprezzarlo per la sua dabbenaggine.
Da La cosa buffa è stato tratto un film, al contrario di un’altra sua famosa opera, Anonimo veneziano, il cui testo letterario è stato un riadattamento della sceneggiatura, scritta questa per prima.
Grande romanzo, grande Berto!