Un libro che forse non avrei letto se non me l’avessero regalato ma che, una volta iniziato, mi ha subito catturato fin dalle primissime pagine. Avvincente, incalzante, ricchissimo di azione, illustra personaggi e situazioni attraverso il fitto racconto dei fatti che accadono.
Ambientato nel Messico degli ultimi anni Sessanta, offre un quadro interessante dell’epoca, fra i turbamenti dei giovani di allora, vissuti fra musica rock e droghe, e le tematiche endemiche del Sudamerica, principalmente la violenza criminale e l’estremismo religioso; e la loro terribile fusione.
Tre narrazioni parallele: il presente del protagonista principale, il suo passato traumatico, e una storia apparentemente a se stante che si svolge in un luogo distante e remoto e che solo nel finale chiude il cerchio con il resto delle vicende.
Una mole importante, settecentoquaranta pagine che per tre quarti non annoiano minimamente, anzi. Poi, praticamente un crollo: nelle ultime duecento si ha prima la percezione di una forzata esagerazione della quantità di cose che succedono, poi della fretta di concludere che si concretizza in un cambio di ritmo che ha il sapore della superficialità.
Comunque davvero ben scritto e, al netto di alcune scivolate retoriche, certamente da leggere.
"La relazione affettiva e l'intesa con l'altro dipendono proprio da una adeguata coscienza di se stessi, che consente il diritto-bisogno di svelarsi con sicurezza"
Parte un po’ male, con un primo capitolo introduttivo che appare semplicistico anche per un libro divulgativo, cui seguono due capitoli autobiografici in cui si narrano, portandoli a esempio universale, frammenti dell’infanzia dell’autore senza però spiegazioni convincenti circa la loro universalità.
Poi il saggio decolla e lo fa in modo davvero interessante, avvincendo il lettore con l’illustrazione puntuale delle dinamiche relazionali dei rapporti affettivi, siano essi di coppia o familiari, spiegando per filo e per segno tutti gli errori, consapevoli o meno, che abbiamo fatto tutti da innamorati, da genitori o da figli.
Utile per capire, per non cadere nuovamente in vecchie trappole, per recuperare rapporti importanti persi per incomprensione o per costruirne di nuovi nella chiarezza, con se stessi e con gli altri. Ma anche per lasciarsi senza traumi irrisolti o per elaborare il distacco, sia esso una scelta o una costrizione, dovuta magari a un tragico lutto.
Davvero da leggere, per capire, per capirsi, per migliorare se stessi e i rapporti fondamentali della nostra vita, quelli che alla nostra vita danno il senso fondamentale: amare ed essere amati, ma anche amare se stessi, presupposto fondamentale per un’esistenza serena.
La Sicilia, a torto o a ragione, viene generalmente associata al mare e al turismo estivo. Andarci fuori stagione costituisce la rottura di uno schema, cosa divenuta quasi obbligatoria un po’ ovunque se si vuole ricercare la veracità di un luogo invece di viverlo nei mesi in cui si acchitta per assecondare le esigenze e gli stereotipi di chi lo visita distrattamente. Il fuori stagione consente inoltre di schivare il caldo asfissiante e l’affollamento turistico soffocante. Ho chiesto come si dicesse “fuori stagione” in dialetto siciliano: “unn’è tempu“, non è tempo, mi è stato detto; un’espressione generica e spendibile in diversi ambiti. Io credo invece che il tempo di viaggiare sia diventato proprio quello che i più considerano “fuori tempo”: in epoca di esplosione demografica muoversi controcorrente è quasi imprescindibile, doveroso.
La temperatura a Palermo è comunque mite anche in autunno, forse più per le normali caratteristiche climatiche della città che per gli effetti del riscaldamento globale, anche se durante alcune giornate del mio soggiorno un libeccio deciso ha portato nuvole e pioggia creando una cappa di leggera cupezza. Anche questo, in fondo, è uno stereotipo che si rompe, quello del legame inscindibile della Sicilia con il sole: e io, gli stereotipi, li detesto. La Palermo che cerco in questi giorni non è quella da cartolina, fatta di spiagge e mare bello. Quando visito una città cerco di coglierne l’anima girando per le strade, osservando le persone e il modo in cui vivono, si muovono e si relazionano tra loro, guardando il funzionamento del tessuto economico e sociale, o anche leggendo qualche libro che la racconti da un punto di vista particolare. Forse è una pretesa, e ancora di più lo è per Palermo che certamente è una città molto complessa da comprendere, quasi da sfogliare strato per strato.
Un’interrogativo che mi pongo spesso quando sono in un luogo del nostro continente geograficamente lontano dalle sedi delle principali istituzioni della UE è quanta Europa ci sia, cosa sia sorto dalla mescola di usi e tradizioni locali secolari con le indicazioni culturali (nel senso ampio del termine) dell’Unione Europea che cerca, giustamente, di creare uno standard generale e uguale per tutti. A Palermo la risposta appare piuttosto semplice: di Europa ce n’è pochissima, quasi nulla. Per rendersene conto basta passeggiare per la città, sia nei quartieri eleganti attorno al Politeama e al teatro Massimo, che nelle zone più popolari, come la Kalsa, la Vucciria o Ballarò. Nelle prime, una borghesia raffinata e colta dà l’impressione di essere saldamente ancorata, per scelta o costrizione, alle proprie abitudini e al proprio modo d’essere, mentre nelle seconde il degrado raggiunge purtroppo livelli da metropoli nordafricana e i mercati storici famosi, come quello del Capo, inscenano uno spettacolo molto pittoresco e affascinante ma certamente non al passo con i tempi e per questo forse unico in Italia e in Europa. In alcuni angoli sembra di essere negli anni Sessanta/Settanta.
Va detto però che, al netto di questo degrado (che a Ballarò è davvero sconvolgente), Palermo è un bellissimo agglomerato urbano mediterraneo che mischia fasti antichi, per lo più di epoca arabo-normanna o barocca, con costruzioni del periodo umbertino, siano esse villini liberty o palazzi borghesi, e con la fitta selva di brutti edifici costruiti dal secondo dopoguerra in poi durante quello che è passato alla storia come il sacco di Palermo, operato dalla mafia con la complicità dei politici di allora. Si può dire quindi che la città ha mantenuto sempre costantemente la propria identità pur avendo cambiato spesso aspetto. A differenza di altre città italiane, non ha subito un’immigrazione di proporzioni tali da stravolgerne l’anima; anche la presenza attuale di extracomunitari non sembra numericamente in grado di incidere troppo. Gli odori delle spezie esotiche che si sprigionano da alcune finestre si fondono con l’odore del mare, e già questo basta per farmi stare bene e sentire a casa.
Già, la mafia: un marchio di infamia che tutti i palermitani, anche quelli onesti, si portano purtroppo addosso. Secondo Roberto Alajmo, autore del breve saggio Palermo è una cipolla, si è generato un senso di colpa negli abitanti della città per aver esportato la mafia nel mondo. Che il fenomeno mafioso non sia più subìto, accettato o minimizzato in modo omertoso bensì finalmente osteggiato dalla società civile si percepisce chiaramente: ovunque ci sono monumenti, steli, lapidi, murales (istituzionali o spontanei) che celebrano i caduti nella guerra alla criminalità organizzata. A Capaci è impossibile non provare un forte turbamento guardando la casupola bianca da dove è stato azionato il telecomando che ha fatto esplodere la bomba che ha provocato la morte di Falcone e degli altri che erano con lui: di notte viene illuminata con un fascio di luce che fa spiccare le parole “No mafia” poste sulla facciata. Come pure si resta turbati camminando lungo certe strade, sapendo che sono state il teatro di omicidi efferati compiuti in pieno giorno nella quasi certezza dell’impunità.
Forse non c’è stata quella rivoluzione culturale che è sempre parsa lì lì per esplodere dopo le stragi dei primi anni Novanta (ma del resto l’Italia tutta ha disatteso le speranze sorte in quegli anni, dopo Tangentopoli), ma certamente Palermo si è ribellata e le conseguenze si sono viste. Quella mafia è stata sconfitta, non esiste più. Resta da vedere se insieme sia sparito anche il tragico dilemma che, sempre secondo Alajmo, doveva affrontare qualunque imprenditore prima di avviare un’attività, e cioè quello fra un’umiliante connivenza e una resistenza eroica che aveva alte probabilità di risolversi nel tragico modo in cui è finito Libero Grassi. L’impressione comunque è di una città decisamente più tranquilla e sicura rispetto anche a pochi decenni fa e che meriterebbe di più di quello che al momento si ritrova ad avere.
A passeggio per il centro incappo nel set cinematografico de I leoni di Sicilia, il best seller che ha raccontato la saga familiare dei Florio, partiti praticamente dal nulla e arrivati a essere una delle famiglia più ricche d’Europa nel giro di un paio di generazioni, per poi dissolversi con la stessa rapidità con cui avevano accumulato la loro ricchezza. Il romanzo evidenzia soprattutto gli aspetti frivoli di una storia che è invece interessante da molti altri punti di vista, speriamo quindi che il film banalizzi un po’ meno le vicende. E il pensiero va al Gattopardo di Visconti, proprio mentre cammino nella bellissima piazza su cui affaccia il palazzo Valguarnera-Gangi al cui interno è stata girata la famosa scena del ballo.
Ma Palermo, come tutta la Sicilia, è anche il trionfo della gastronomia, che spazia dal salato al dolce. Per gusto personale preferisco il primo al secondo (cannoli a parte) ma la fantasia dei siciliani nella preparazione del cibo è davvero inarrivabile, sia che si tratti di street food che di cucina raffinata. Resta un’annosa questione, quella della declinazione, al maschile o al femminile, di uno dei prodotti alimentari più conosciuti di tutta l’isola: arancino o arancina? Nel dubbio, facendo l’ordinazione al bancone di un bar, ho troncato la vocale finale biascicando fintamente, perché su certe cose da queste parti non è lecito scherzare, proprio come succede a Roma quando si sente dire della carbonara fatta con la pancetta anziché con il guanciale: si rischia seriamente la lite. Perché noi italiani siamo così: bravissimi a trasformare la farsa in tragedia ma purtroppo eccellenti anche nel viceversa. Un tratto del nostro carattere per il quale pare essere sempre tempo.
Ricevere un premio letterario importante è una soddisfazione grandissima, un’emozione enorme e dirompente. È il riconoscimento di un lavoro lungo e faticoso fatto di meticolosa ricerca, di affinamento continuo e soprattutto di introspezione.
Scrivere è prima di tutto cercare qualcosa dentro di sé; un premio letterario ci dice che quel qualcosa si specchia nell’intimo di altre persone e, nel suo piccolo, ha assunto un carattere di universalità perché evidentemente siamo riusciti a descriverlo bene.
"Sono scivolata in quella metà di mondo per la quale l’altra metà è soltanto un arredo."
Quello che immediatamente colpisce di questo breve romanzo è la delicatezza della prosa con cui è scritto: semplice (nella migliore accezione del termine) ma diretta, efficace, limpidissima. Con poche pennellate che mai paiono di maniera, l’autrice dipinge il quadro della storia di due persone, padre e figlia, senza che il lettore abbia mai men che chiaro l’andamento delle cose.
Narrato in prima persona dalla figlia, racconta l’evoluzione sociale ed economica del padre, da contadino povero di un paesino della Normandia a gestore di un piccolo negozio di alimentari, che prima acquisisce un modesto benessere e poi si ritrova stritolato dalla grande distribuzione. Di pari passo, l’emancipazione della figlia che dal provincialismo della famiglia di origine, con graduale distacco e senza mai rinnegare il proprio vissuto, effettua quel salto culturale mai riuscito ai suoi genitori e diventa una scrittrice.
Il rapporto padre-figlia, che pure vive momenti di tensione, resta comunque sempre imperniato sul reciproco rispetto, forse maggiormente che sull’affetto, vittima quest’ultimo di tempi in cui sicuramente c’era maggiore difficoltà a esprimerlo apertamente rispetto a oggi.
Chiaramente autobiografico, altrettanto chiaramente diviene paradigmatico della storia europea dall’ultimo dopoguerra in poi; di quella francese, certamente, ma decisamente anche di quella del nostro paese in quel periodo, gli anni Cinquanta e Sessanta, segnati dal boom economico. E a leggerlo, si capisce come quelli che oggi, con una punta di disprezzo, vengono definiti boomer per stigmatizzarne alcuni privilegi sociali o economici abbiano vissuto la prima parte della propria esistenza in condizioni decisamente non facili.
Non avevo letto nulla di Annie Ernaux e sono stato ovviamente incuriosito dal Nobel che le hanno assegnato quest’anno; di sicuro non mi fermerò a questo bel libro!
“L'amore, per me, non è effimero, non è un'emozione passeggera, uno stato transitorio, un tuffo o un volo nella follia o nell'estasi: io lo considero, piuttosto, una condizione sublime, o addirittura sacra, una condizione in cui vengono esercitate tutte le migliori e più elevate facoltà umane.“
Un amore adulterino nei suoi alterni rovesci di passione e dramma. I tormenti continui che si placano solo al contatto con la persona amata; la gioia e il dolore, la speranza e l’illusione. Poi l’abisso e l’allontanamento volontario alla ricerca dell’oblio, pur nella consapevolezza di rinunce personali e professionali enormi e terribili.
Ambientato in Inghilterra alla fine degli anni Trenta, con la tensione dei protagonisti che si somma a quella generale del periodo prebellico, il racconto conduce il lettore allo scoppio quasi congiunto di entrambe. L’amore negato che toglie il fiato in un atmosfera cupa, claustrofobica, fredda, che non lascia presagire alcun epilogo fausto.
Scritto meravigliosamente, con il giusto passo, con una terminologia ricca e con prosa curata, si perde tragicamente in un finale esagerato e grottesco, proprio come il romanzo più conosciuto di McGrath, Follia, cui quasi si sovrappone nelle ultime pagine. Eccellente la costruzione dei personaggi principali, disegnati con chiarezza e introspezione, nella loro passione come nella disperazione.
Tenendo presente che, dopo tante pagine meravigliose, c’è una grossa delusione in attesa, è comunque un libro da leggere perché, come ha detto qualcuno, l’unico amore eterno è quello non riesce ad avere il suo naturale compimento. Il morbo di Haggard, dal nome del protagonista, è quella follia amorosa che ci rende vivi; a patto di mantenersi nei confini della sanità mentale.
"Nessuno degli antioccidentali che pullulano in Europa o in America ha mai pensato per un solo istante di emigrare a Mosca, a Pechino, o a Teheran. […] Pur con i loro difetti enormi, le liberaldemocrazie e il capitalismo di mercato sono il modello più avanzato."
Interessante analisi delle questioni più attuali e importanti che riguardano il nostro pianeta: dalla crisi climatica all’economia, dalla guerra in Ucraina ai problemi energetici, dall’esplosione demografica agli equilibri geopolitici.
Ma soprattutto, al centro di tutto, la globalizzazione, quel fenomeno esploso una trentina di anni fa e che sta evolvendo in modo diverso da come era stato immaginato allora, quando la fine del comunismo sovietico fece crollare molte delle barriere che spaccavano, non solo ideologicamente, il mondo.
Grande, come sempre, Rampini, che affronta tutti questi temi con lucidità e con un distacco che generalmente si riesce ad avere solo dopo alcuni anni dalle vicende, fornendo moltissimi dati a supporto ed esponendo tutto con estrema chiarezza. E sollevando l’Occidente da responsabilità non sue che spesso gli vengono addossate da un ricorrente senso di colpa.
La tesi del libro è che la quasi totalità delle previsioni catastrofistiche dei decenni passati, dalla penuria energetica a quella alimentare, non si sono avverate, adducendone fra le ragioni un atavico pessimismo italiano: speriamo che sia così anche questa volta.
"Ciò che sentii quella notte dalle labbra di Ranz non mi sembrò veniale né mi sembrò ingenuo né mi provocò sorrisi, ma mi sembrò passato. Tutto lo è, anche ciò che sta accadendo."
Javier Marías è assolutamente un fuoriclasse. Non solo per uno stile di scrittura elegante e raffinato ma anche per la sua straordinaria capacità di lanciarsi in divagazioni, apparentemente fuori contesto, la cui funzionalità alla narrazione si svela al lettore mano mano che le pagine avanzano.
Un cuore così bianco è un romanzo sul segreto e sulla sua custodia, sul tradimento, sul dolore, sul senso di colpa, sul dubbio. Ma è anche un racconto sulla fiducia che accordiamo alle persone quando le mettiamo a parte di un nostro vissuto mai svelato prima.
Il tema centrale diventa così l’opportunità o meno di dirsi tutto all’interno di contesti di coppia o familiari; non a caso i due protagonisti lavorano come interpreti, aiutano cioè a comunicare persone che altrimenti non potrebbero. Il dubbio persiste anche quando si è girata l’ultima pagina del libro che, va detto, riesce a mantenere il distacco morale dalle vicende rimanendo scevro da qualunque giudizio.
Un cuore può restare bianco, puro, secondo Marías e secondo Shakespeare che fa pronunciare a Lady Macbeth la frase che dà il titolo a quest’opera, anche a seguito di un terribile fatto criminale. O forse dirlo è solo il modo per alleggerire la coscienza da ciò che essa stessa non riuscirebbe a sopportare.
Un romanzo a due voci, quelle di Theo e Noa, una coppia non più giovane e con una discreta differenza di età, nel cui rapporto, in fase di stanca, si alternano insofferenza e dipendenza reciproca. Lui, alle soglie della pensione ha perso gli stimoli a fare cose nuove, lei al contrario è ansiosa di intraprendere nuove iniziative.
Un evento drammatico, la morte di un’allievo di Noa, rompe l’equilibro fra i due, che però si ritrovano presto in un sentimento reciproco che è ancora profondo. Ritrovano soprattutto il rispetto per le differenze che esistono fra di loro e di queste differenze si alimentano, mitigando i propri eccessi e rinnovando l’amore che li lega.
A fare da quinta alle vicende, una cittadina del Negev stretta fra un sofferto isolamento e il provincialismo tipico dei piccoli centri che mal vedono qualunque cambiamento o novità. Fra le pagine si respirano la polvere del deserto e la mentalità a volte gretta delle persone.
Forse non è il migliore dei libri di Oz ma contiene certamente tutti gli elementi dello stile del grandissimo scrittore israeliano, primo fra tutti la capacità di scavare con delicatezza e grande lucidità dentro le persone e i rapporti che le legano.
"Alcune persone sono così. Aspettano, si spostano da una stanza all'altra e aspettano, piangono e aspettano, stanno seduti in poltrona e aspettano, aspettano di sposarsi, aspettano di diventare genitori, aspettano che figli si laureino, aspettano che sia pronto da mangiare, che arrivi il weekend, che il salario aumenti.”
Uno dei libri più tristi e angoscianti che abbia mai letto. C’è tutto: la guerra, l’amore impossibile, la negazione del sé, la morte, l’infanzia infelice, l’ingiustizia, il tradimento, la pazzia, la depressione, la povertà, la miseria. E l’elenco potrebbe continuare.
Ciononostante, il libro avvince e si fa leggere. Non per la morbosa curiosità di sapere cos’altro di tragico possa capitare ai protagonisti, ma perché è scritto veramente bene, tanto da aver vinto un importante premio letterario in Finlandia, paese d’adozione dell’autore.
Un autore piuttosto giovane, per altro, che quindi, data l’età, dimostra una capacità fuori dal comune di scandagliare l’animo umano nei suoi dolori e nelle sue sofferenze.
Molti i riferimenti al clima sociale e bellico del Kosovo degli anni Novanta: un utile ripasso di ciò che l’odio etnico e religioso può produrre. Da leggere, magari con l’animo predisposto.