
Una saga familiare che, come spesso le saghe, vuole percorrere il doppio binario delle vicende familiari e di quelle storiche del luogo in cui è ambientata. La Basilicata in questo caso, una bella regione rimasta di frequente ai margini della Storia.
Molti i personaggi, troppi per le pagine che l’autrice ha concesso al suo romanzo, e che si accavallano senza che il lettore abbia avuto il tempo di familiarizzare sufficientemente con essi al punto da rimpiangerli o gioire quando escono di scena. Si fa un po’ di confusione, insomma, fra tutti loro.
Il senso del libro è quello tipico di certe saghe letterarie: il mondo vecchio che si sgretola e quello nuovo che avanza fra le macerie lasciate dal vecchio, spesso a tentoni perché ha perso i riferimenti secolari del passato.
Un’aspirazione all’epicità che, malgrado la buona qualità del romanzo, non sembra essere stata raggiunta, se non, forse, per chi ha dimestichezza con quei luoghi e non ha bisogno quindi dell’universalità della narrazione.
La prosa è spesso evocativa più che descrittiva, decisamente di grande livello ma poco narrativa o affabulatoria, come forse si converrebbe a un racconto del genere. Ha comunque vinto un Campiello, direi meritatamente.