
I grandi narratori, quegli scrittori, cioè, che hanno la capacità innata di conquistarti con ciò che raccontano, esercitano da sempre un fascino incredibile su di me. Possono non raggiungere le vette dello stile, ma quelle dell’affabulazione certamente sì: nel senso migliore del termine.
Questo romanzo cattura immediatamente, avvincendo il lettore pagina dopo pagina in un intreccio narrativo inizialmente semplice che si fa via via più complesso sia negli accadimenti che negli aspetti umani dei protagonisti.
Un medico, guidando di notte a velocità elevata in una zona semidesertica, investe un uomo che camminava sul ciglio della strada. In quanto chirurgo si rende immediatamente conto che la frattura cranica che ha provocato non lascia scampo al malcapitato, destinato a morire nel giro di pochissimo. Decide allora di scappare ma perde il portafoglio con i documenti sul luogo dell’incidente. La moglie della vittima lo ritrova e ricatta il medico, anche se non nel modo che si potrebbe facilmente pensare.
Un triste affresco sulla realtà quotidiana degli immigrati clandestini, sul loro non-esistere in quanto clandestini, sul loro sfruttamento, sul loro coinvolgimento in traffici illeciti, sulle violenze agite e subite. Di pari passo, la tragedia familiare di un uomo – il medico – che vede sconvolta la propria esistenza quotidiana fatta di quelle certezze spesso fasulle con cui costruiamo le nostre vite.
Non un romanzo pietista, ma un racconto che mette in luce senza partigianerie un mondo che vive nel sottobosco e fa capolino solo quando finisce in cronaca nera, e bravissima l’autrice a raccontarcelo senza sconti per nessuno dei personaggi, se non forse per il protagonista principale cui concede l’indulto e il riscatto attraverso l’espiazione, anzi la riparazione della colpa.