Una questione di pelle – Marina Vujčić

"Amami, gli aveva detto allora quasi sussurrando, come una donna che sa quello che vuole ma che non è pronta a ricambiarlo."

Un fantastico romanzo che con leggerezza e garbo affronta il tema della solitudine, partendo da un punto di vista decisamente inconsueto: la schiena. E sì, perché, come fa notare l’autrice, la schiena è l’unica parte del corpo umano che non ci si può degnamente accarezzare da sé.

Un uomo e una donna, che più diversi non potrebbero essere e che conducono una vita apparentemente serena sul piano interiore, si incontrano per quella che è decisamente una stravaganza del primo e che porta a inaspettati sviluppi nella vita di entrambi, dopo avere dato la stura a riflessioni che entrambi avevano inconsciamente evitato per costruirsi la propria nicchia di sopravvivenza al riparo dai dolori portati dal mondo esterno.

Scritto con prosa semplice ma con un passo praticamente perfetto, nel corso del racconto vengono scandagliati, con profondità e acume, umori e pensieri dei due protagonisti, che camminano su due percorsi esistenziali paralleli pur sfiorandosi e interagendo, a volte scontrandosi, comprendendo infine l’insensatezza di una vita fatta di rapporti sociali ridotti al minimo necessario.

Ricco di citazioni letterarie che non sono semplici sbrodolate dell’autrice per rendere colto lo scritto, ricco di spiegazioni sulle tecniche pittoriche (la pittura è una delle chiavi di volta dello sviluppo delle vicende), ricco di riflessioni sull’animo umano buttate lì con nonchalance.
Bello, bello, bello!

A oriente del giardino dell’Eden – Israel Joshua Singer

"A dispetto di tutte le umiliazioni che aveva patito, in lei c'era ancora posto per il senso della vergogna. Era una sconfinata capacità di sentirsi degradati, che nessuna ignominia riusciva a distruggere."

Ci sono romanzi che raccontano la Storia meglio di un saggio, perché della Storia mostrano gli effetti diretti sulla vita quotidiana dei protagonisti. Gioiamo o patiamo con loro, rallegrandoci o addolorandoci anche noi delle pieghe che, pagina per pagina, le vicende pubbliche prendono.

Questo splendido racconto di quasi cinquecento pagine, scritto nel 1939 da Israel Joshua Singer, fratello di Isaac Bashevis Singer (premio Nobel per la letteratura nel 1978), è quasi una saga familiare che inizia in un piccolo villaggio rurale della Polonia, passa per Varsavia e finisce nella Mosca staliniana.

Il protagonista principale, nato in una famiglia di ebrei poverissimi, cerca la strada del riscatto collettivo e diventa un attivista politico rivoluzionario. Perseguito e condannato, dopo anni di carcere durissimo scappa in Unione Sovietica dove, malgrado l’illusione di un mondo più equo e giusto, si ritrova in condizioni assai peggiori e nuovamente imprigionato con la falsa accusa di essere un cospiratore controrivoluzionario.

È un meraviglioso affresco della vita nell’Europa orientale nella prima metà del Novecento; anni durissimi, di fame, miseria e continui rovesciamenti politici. Imperi russi, tedeschi, polacchi, sovietici, si alternano in pochi anni negli stessi luoghi, apportando ciascuno il proprio carico di dolore alle popolazioni.

È la storia degli ultimi fra gli ultimi, dei capri espiatori, del potere arrogante e violento, dell’idealismo, della menzogna, del tradimento, dell’illusione, dell’oppressione religiosa e ideologica. Tutto raccontato con la meravigliosa capacità narrativa che caratterizza la produzione dei due incredibili fratelli Singer.

Anime baltiche – Jan Brokken

"Viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è la via più breve per arrivare a se stessi."

Un bel libro è quello che quando giri l’ultima pagina ti lascia due cose: la sensazione di aver imparato qualcosa che non sapevi e il desiderio di saperne ancora di più. Quest’opera di Jan Brokken centra pienamente entrambi gli obiettivi: insegna e stimola.

Una serie di capitoli monografici dedicati ciascuno a un uomo o una donna che in qualche modo hanno avuto una parte nella storia o nella cultura del proprio paese, legati dal filo comune di essere nati o vissuti nelle repubbliche baltiche, quei tre piccoli stati che abbiamo imparato a conoscere dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando si sono finalmente liberati dal giogo della dittatura comunista.

Personaggi di primo piano, da Sergej Ėjzenštejn a Hannah Arendt, o meno conosciuti, come Loreta Asanavičiūtė, la giovane schiacciata da un carro armato durante le prime manifestazioni per l’indipendenza della Lituania, passando per Mark Rothko e l’incredibile esistenza di Roman Gary, l’autore de La vita davanti a sé.

C’è la storia di un pezzo d’Europa, soprattutto degli ultimi due secoli, conteso fra imperi e dominazioni diverse che l’hanno colonizzato, cacciando o importando intere popolazioni come fossero mandrie al pascolo. Ci sono guerre e rivoluzioni, rivolte e repressioni sanguinose, pogrom e rinascite, come quella degli anni Novanta.

Un libro di storia scritto da un viaggiatore, fatto di storie minute, di vita quotidiana di chi la vita ha dovuto inventarsela giorno per giorno per sfuggire alle privazioni e alle persecuzioni dei prussiani, dei nazisti, dei sovietici. Un libro che fa venire la voglia di andare di persona a vedere.

Colpa nostra

Da un po’ di tempo, qualunque cosa accada nel mondo, è sempre colpa nostra.

Un branco di quattordicenni annoiati devasta la scuola? Colpa nostra che non li abbiamo saputi educare.
I terroristi islamici massacrano decine di giovani al Bataclan? Colpa nostra che non abbiamo dato loro una speranza per il futuro.
Putin invade l’Ucraina? Colpa nostra che abbiamo esteso l’alleanza atlantica.
Gli africani si ammazzano da decenni in guerre fratricide? Colpa nostra che l’abbiamo prima invasi e poi abbandonati.
I miliziani di Hamas sgozzano dei neonati in culla? Colpa nostra che abbiamo sostenuto Israele.
Lapo Elkann finisce strafatto di coca nel letto di un trans? Colpa nostra che l’abbiamo lasciato solo (giuro che all’epoca ho letto anche questo).

Questo atteggiamento è figlio sia della cultura cattolica, che ha addirittura inventato un rito per ripulire da un fantomatico peccato originale (quelli successivi sono evidentemente imitazioni cinesi), sia dalla convinzione dell’Occidente che tutto il mondo si muova in accordo o in disaccordo con sé, sempre comunque in base a un principio di azione e reazione.
Il senso di colpa e il senso di onnipotenza pervadono la nostra società, annullando sistematicamente le responsabilità individuali di ciascuno, come se nessuno fosse più cosciente delle proprie azioni, come se nessuno fosse più in grado di agire in base a scelte fondate sulla propria etica.

Oggi alla fermata della metro ho visto una pubblicità che metteva in guardia dall’intelligenza artificiale: ma non nel solito modo, sostenendo che ruberà posti di lavoro o che “i computer si impadroniranno del mondo”. No, redarguiva tutti noi per quello che all’intelligenza artificiale stiamo insegnando. Insomma, colpa nostra pure stavolta, e nei confronti di una macchina!

Tornando a casa pensavo che il pubblicitario che l’ha ideata è stato davvero geniale, ha condensato in una sola frase diverse questioni. Pensavo anche che ovviamente è un’esagerazione, che non possiamo davvero ritenerci responsabili anche di quello che impara una macchina che altro non è che un algoritmo.
Chiusa la porta di casa ho chiesto ad Alexa di mettermi un po’ di musica e lei con voce stizzita mi ha risposto: «Mettitela da solo che ci’ho da fa’, sto a parla’ co’ Siri!».
O tempora, o mores; ma ce la siamo cercata… colpa nostra!

Social ergo sum

Ciò che facciamo definisce il nostro percorso, la nostra storia, contribuendo a definire ciò che siamo. Dato che ciò che siamo attiene al nostro sé che è qualcosa di immateriale, delle cose che abbiamo fatto non è indispensabile mantenere una traccia materiale, anche perché le cose che facciamo non sempre sono materiali. Però a volte le tracce materiali contribuiscono a mantenere la memoria di ciò che abbiamo fatto, anche dentro noi stessi, perché la mente a volte dimentica le cose. È questo il valore inestimabile di una foto o di un oggetto che ci ricordano un momento particolare che abbiamo vissuto.

Pochi giorni fa Facebook ha cancellato il mio account, e con lui circa dodici anni della mia vita. Immagini, scritti, video, ricordi (nel senso che FB dà ai  ricordi), circa 3700 contatti, fra quelli a carattere personale e quelli che avevano un interesse professionale. Nel giro di mezzora ho perso tutto. 

Ha poco senso dire che Facebook non è la vita ma la sua rappresentazione agiografica e fasulla: come ha osservato il filosofo Luciano Floridi, la distinzione fra vita reale e vita online non è più netta come agli inizi dell’era Internet, tanto da aver lui coniato il termine onlife per definire le nostre attuali esistenze caratterizzate da un’interazione incessante delle due dimensioni. Perdere Facebook vuol dire perdere un pezzo di sé; al netto della perdita economica, non meno di perdere la casa e tutto quanto in essa contenuto a seguito di un incendio o un terremoto.

Qualcuno si è inserito fraudolentemente nel mio account e Facebook l’ha sospeso, chiedendomi di dimostrare che fosse realmente mio. Prima ha chiesto di mandarmi un sms con un codice di conferma, poi ha voluto una mia foto e infine un documento di identità. Dopo essermi accertato che fosse veramente Facebook a chiedermi queste cose e non l’hacker stesso (un documento di identità non si manda a chiunque), ho fatto quanto chiesto. Facebook ha risposto che avrebbe controllato e in caso favorevole avrebbe riattivato l’account altrimenti l’avrebbe eliminato per sempre, in modo inappellabile. E così purtroppo è stato.

Non è servito a niente neppure segnalare il tizio che, poco dopo che ho creato un nuovo account, mi ha chiesto dei soldi per riattivarlo, dicendo di essere un professionista della sicurezza web; come pure è risultato inutile cercare un contatto qualsiasi presso Meta per segnalare l’accaduto.

Tutto quello che in dodici anni avevo caricato su Facebook è andato perduto irrimediabilmente: le navigazioni che ho fatto, i libri e gli articoli che ho pubblicato, i premi che ho vinto, le interviste che mi hanno fatto, le mie foto dei viaggi, i piatti che ho cucinato, i pensieri che ho espresso, i libri che ho letto e commentato, quello che ho vissuto insieme ad altre persone: all’improvviso non ho più un passato da sfogliare quando ne ho voglia.

Non è solo un fatto sentimentale, perché il passato in qualche modo ci definisce. Entrando in contatto con qualcuno per la prima volta (e anche i contatti lavorativi passano per il virtuale), la nostra vita raccontata sui social media rappresenta una sorta di biglietto da visita, dice chi siamo, ci conferisce credibilità, definisce la nostra reputazione. A me tutto questo è stato rubato.

Ma non è finita qui: quando un account viene eliminato, sparisce anche qualunque cosa scritta sui gruppi e sulle pagine; spariscono i commenti fatti sugli account di altre persone; spariscono ovunque i tag fatti da altri: spariscono proprio nel senso che non ci sono più, non sono mai esistiti. E noi con loro.

Spariscono anche le zavorre, è vero, quelle cose e quelle persone che ci portiamo appresso controvoglia e che costituiscono un fardello da sostenere. Alleggerirsi di tutto ciò che fatichiamo a lasciar andare è certamente uno stimolo a intraprendere nuovi cammini ma, come dice il proverbio, non si butta via il bambino con l’acqua sporca.

Il vero punto oscuro di questa vicenda risiede però nel fatto che la veridicità di quanto mi è accaduto è stata valutata da un soggetto privato. Certamente il chilometrico contratto che si sottoscrive al momento dell’iscrizione riporta la possibilità che Facebook cancelli un account per qualsivoglia motivo, ma la legittimità giuridica di quello che dal punto di vista legale è un semplice accordo fra due soggetti, non elimina i dubbi etici (e non solo) sul conferimento a un privato di un potere tanto grande sulla nostra vita, come quello di dire se siamo o non siamo. E senza che le istituzioni pubbliche che ci rappresentano possano eccepire nulla. Detta in parole povere, abbiamo privatizzato il nostro sé: non è bello per niente.

The sailor

Il mare, anzi la vita di mare, quale paradigma filosofico dell’esistenza umana in senso ampio. The sailor è la storia di un uomo più che, come il titolo suggerisce, di un marinaio. Un uomo che ha scelto la vita di mare, che ha fatto del mare, per amore del mare stesso, il pilastro fondante della sua esperienza terrena.

Chi parte per mare, e ancora di più chi lo faceva decenni fa quando le possibilità di restare in contatto con chi rimaneva a terra erano limitatissime, lo fa per fame di vita, di conoscenza, di esperienza. Lo fa senza preoccuparsi troppo del futuro più remoto. Addenta la vita, mordendola con appetito sano, consumandola avidamente. È cicala che canta gioiosa.

The sailor è un film, anzi un film-documentario, che racconta la vera storia di Paul Johnson, nato alle isole Shetland, da cui è partito da giovane. Ha attraversato quaranta volte l’Atlantico, ha avuto barche non molto diverse da quelle che abbiamo noi, ha avuto amori duraturi e fugaci, figli noti e ignoti, progettato imbarcazioni con la competenza di chi si è fatto l’esperienza sul campo.
Un film bello ma triste, perché ci mostra una cicala che consuma i suoi ultimi giorni in solitudine, senza figli, senza una donna accanto, vivendo a un livello minimo di sussistenza; una cicala senza pubblico e senza più voce per cantare, neppure per se stessa.

Birra a colazione, poi a seguire vodka, per un totale di circa un litro al giorno, Johnson vive alla fonda ai Caraibi, senza più navigare da anni, su una barca senza il motore funzionante, sudicia e in rovina, e che un ultra-ottantenne come lui non è più in grado di gestire, non solo di liberarla per prendere il mare.

È l’ultimo sgraziato verso di una poesia che incanta ma a volte truffa le anime pure.
Il mare nei secoli è sempre stato fatica, sudore, sale e rughe sulla pelle, incertezza, lontananza. Siamo noi che lo attraversiamo per diporto, quindi per divertimento, che ne cogliamo solo i lati più più piacevoli ignorandone le tante ruvidità. Siamo noi che abbiamo una casa dove tornare, con o senza qualcuno ad attenderci, che possiamo concederci di guardare al mare con inguaribile romanticismo.

Di tipi così sono pieni i mari di tutto il mondo e spesso mi sono chiesto se in loro prevalga lo spirito di libertà o l’apparentemente sano egoismo che la libertà a volte alimenta ma di cui prima o poi presenta il conto.

Ricordo un tale davvero somigliante a Johson, su un’isoletta dalle parti di Rodi, forse Kastellorizo, su un piccolo sloop di una quarantina d’anni di età vincolato al fondo e agli scogli con un groviglio di cime che lasciava intendere un’immobilità di lunga durata. Tutti i pomeriggi scendeva a terra con un dingy rigido a remi tutto rappezzato, comprava pane, sigarette e alcol e se ne tornava a bordo in solitudine. Una volta ho provato a scambiare due chiacchiere con lui e mi ha raccontato una storia che, ripensandola oggi, sembra ricalcata su quella del protagonista di The sailor: una vita senza a radici, tante donne e tanti amici in rapporti fondati sulla fugacità, da anni senza contatti con i figli, supportato da qualche anima pia locale in caso di necessità. Basta uno scafo con un albero piantato in coperta per rendere queste persone diverse da un qualsiasi anziano triste e solo delle metropoli?

Sempre in Grecia, nel golfo di Patrasso, c’è un’isoletta molto graziosa che si chiama Trizonia, in cui è stato costruito un porto che per ragioni burocratiche non è mai entrato in funzione; una vicenda simile a tante storie italiane. Nel porto hanno trovato riparo stabile molte barche i cui proprietari non possono permettersi di pagare neanche la manciata di spiccioli richiesta nei porti greci. Hippy di mare salpati da qualche paese del Nordeuropa con pochi soldi in tasca e la testa piena di sogni non a buon mercato come credevano. Alle prime difficoltà pratiche si sono arenati sul molto di Trizonia e proseguono la loro esistenza di mare, se esistenza di mare si può definire, su tristi scafi ammalorati di cui a stento riescono a permettersi una manutenzione che li tenga almeno a galla. A volte stendono una prolunga fino a un bar o una finestra di qualcuno che generosamente gli permette di ricaricare un po’ le batterie. Alcuni di loro, tristemente, appaiono troppo in là con gli anni per pensare a un riscatto con se stessi, una nuova opportunità, un futuro più comodo: proprio come Johnson, che a un certo punto si stupisce di essere vissuto così a lungo.

Il protagonista del film non si mostra pentito delle sue scelte e, almeno a parole, si dice felice della vita che ha vissuto, anche se l’alcolismo sembra tradire una serenità interiore davvero scarsa. Come il suonatore Jones della poesia di Edgar Lee Masters poi cantata magnificamente da De Andrè che, dopo aver rinunciato al benessere della famiglia di origine, alla soglia dei novant’anni si dichiara senza rimpianti. Ma un conto è leggerlo in versi, un conto veder trascinare stancamente e in solitudine gli ultimi scampoli di una esistenza, chissà se poi davvero piena e felice.

Esopo e La Fontaine ci hanno mostrato due estremi: l’incoscienza godereccia della cicala e la triste e arida esistenza della formica. Nelle mille sfumature di mezzo sta forse il segreto della vita, che quel grande filosofo che è stato Massimo Troisi definì con una memorabile battuta: meglio cinquanta giorni da orsacchiotto rispetto ai cento da pecora o uno solo da leone.
Le barche costano e non bastano i sogni a pagarle. Senza sogni non si parte, senza soldi non si torna.

La saggezza del mare – Björn Larsson

"Perché viaggiare non è percorrere la Toscana a suon di risate o imparare a fare il giocoliere con tre arance sotto il sole della Sicilia. Viaggiare vuol dire avanzare penosamente pollice per pollice sulla superficie della terra."

Pessimo il titolo italiano che sembra sottendere una stereotipata didattica dell’anima. In realtà il titolo originale è Da Capo del’Ira alla Fine del Mondo, che sembra metaforico ma che invece si rifà a due promontori realmente esistenti in quella zona di mare europeo dove si è svolta la navigazione raccontata in questo libro.

I primi viaggi per mare dell’autore, ivi compresa l’autobiografia interiore sulle motivazioni che l’hanno spinto a salpare e stare via per lunghi periodi; una vera e propria scelta di vita, dipanatasi fra la Scandinavia e la Scozia, con sconfinamenti in Bretagna e Galizia.

Panorami e modi di navigare sconosciuti a noi mediterranei, spesso preda di ancestrali timori di passare le Colonne d’Ercole, ma affascinanti e avvincenti oltre che, i secondi, decisamente più complessi che nel Mare Nostrum.

Interessante, scritto in modo chiaro, eppure, mentre scorrevo le pagine, avvertivo la mancanza di qualcosa. Quando l’ho chiuso ho capito cosa: il pathos. Le emozioni sono descritte senza la fasulla epicità di molti autori di mare ma anche senza apparente coinvolgimento emotivo dell’autore. Apparente, sia chiaro: non credo che Larsson non abbia messo il cuore in quelle navigazioni come pure nello scrivere questo libro. Solo che non traspare, non si percepisce se non razionalmente.

Da leggere se si ha in programma di fare rotta a nord e si vuole avere una prima infarinatura di quello che si troverà da quelle parti.
Sull’odioso formato di Iperborea è già stato detto tutto.

Vite che non sono la mia – Emmanuel Carrère

"Se sapessimo quello che rischiamo, non oseremmo mai essere felici."

Amo molto Carrère ma questa volta non mi ha convinto del tutto. Il tema del libro è la perdita dolorosa degli affetti più cari, in modo traumatico o per lunga malattia. Nella fattispecie, la morte di un figlio, di un genitore di bambini piccoli, di un grande amore, di un confidente carissimo.

Lo stile è quello consueto dell’autore: preciso, puntuale, lessicalmente ineccepibile senza per questo perdere di chiarezza espositiva. Ma anche profondo, analitico, riflessivo. Il punto è che, a differenza di altri suoi libri che ho letto, non avvince, non coinvolge se non nelle ultime pagine in cui viene magistralmente descritta l’agonia di una malata terminale e il travaglio delle persone che gli sono attorno.

La sensazione, duole dirlo, è Carrère fosse a corto di idee: il pretesto narrativo appare debole (una bambina morta a causa di una cataclisma naturale e una mamma consumata dal cancro) e non riesce ad assumere connotati di originalità malgrado l’ottima disamina che ne viene fatta.

Penso a Limonov, un uomo di cui non sapevo nulla e per il quale non ho mai nutrito il minimo interesse; eppure ne ho letto il racconto omonimo avvinto come se si trattasse di un personaggio fondamentale della Storia.
Di questo romanzo resta il piacere della lettura di una prosa davvero ottima e alcune pagine (forse più di alcune) che certamente meritano.

Il codice dell’anima – James Hillman

"Ci sono psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni."

Una ghianda ha già inscritto nel DNA la sua missione esistenziale: diventare una quercia. La tesi sostenuta in questo libro è che anche per gli esseri umani funzioni così e che tutto sta nel trovare la ghianda dentro di sé, schivando i condizionamenti sociali, familiari, culturali o quant’altro; daimon, viene qui chiamata, con esplicito riferimento alla filosofia greca.

Se sostituiamo la parola ghianda con il termine vocazione, il concetto diventa ancora più chiaro: il senso della vita, secondo l’autore (ma è difficile non essere d’accordo), è trovare quella sorta di missione/vocazione che spesso ci ha chiamato fin da bambini e lasciargli spazio per vivere un’esistenza appagata. Qualcosa di simile al “Diventa ciò che sei” pronunciato da Nietzsche e prima ancora da Pindaro che però, stranamente, in questo saggio non vengono mai citati.

A lasciare perplessi è che Hillman, che è stato un famoso psicologo americano, rovescia completamente uno degli assunti fondamentali della psicanalisi, e cioè che ciò che ci accade durante la prima infanzia lascia in noi dei segni che condizioneranno la nostra vita futura, sostenendo invece che se ci sono successe determinate cose nei primi anni che siamo stati al mondo è proprio perché il daimon ci ha guidati in quella direzione.

La perplessità aumenta fino a diventare scetticismo man mano che avanzano i capitoli perché di prove concrete a supporto della teoria non ce ne sono molte e Hillman, in alcuni casi, sostiene che le cose stanno come dice lui perché il suo intuito gli suggerisce così. Vengono in compenso riportate decine e decine di storie personali di personaggi famosi che corrisponderebbero allo schema proposto ma, alla stessa maniera, si potrebbero raccontare vite che hanno avuto tutt’altro esito.

Si può ribattere che l’opera va letta in senso filosofico più che psicanalitico, ma anche in questo caso la logica di supporto ai ragionamenti appare in qualche caso fallace e le argomentazioni piuttosto deboli. Vero è che Hillman a un certo punto ha lasciato l’attività di terapeuta per dedicarsi alla produzione letteraria. A questo proposito, va detto che questo saggio ha scarsi connotati di universalità e appare invece scritto palesemente per il pubblico americano: nulla di male, ci mancherebbe, ma molti dei casi-studio citati sono per il lettore europeo perfetti sconosciuti.

In estrema sintesi, in qualche passaggio sembra uno di quei libri motivazionali che aiutano le persone sperdute a trovare se stesse; confesso che se non fosse edito da Adelphi forse non l’avrei comprato, malgrado l’autorevolezza dell’autore. Anche se il titolo, bisogna ammetterlo, è estremamente azzeccato.