The sailor

Il mare, anzi la vita di mare, quale paradigma filosofico dell’esistenza umana in senso ampio. The sailor è la storia di un uomo più che, come il titolo suggerisce, di un marinaio. Un uomo che ha scelto la vita di mare, che ha fatto del mare, per amore del mare stesso, il pilastro fondante della sua esperienza terrena.

Chi parte per mare, e ancora di più chi lo faceva decenni fa quando le possibilità di restare in contatto con chi rimaneva a terra erano limitatissime, lo fa per fame di vita, di conoscenza, di esperienza. Lo fa senza preoccuparsi troppo del futuro più remoto. Addenta la vita, mordendola con appetito sano, consumandola avidamente. È cicala che canta gioiosa.

The sailor è un film, anzi un film-documentario, che racconta la vera storia di Paul Johnson, nato alle isole Shetland, da cui è partito da giovane. Ha attraversato quaranta volte l’Atlantico, ha avuto barche non molto diverse da quelle che abbiamo noi, ha avuto amori duraturi e fugaci, figli noti e ignoti, progettato imbarcazioni con la competenza di chi si è fatto l’esperienza sul campo.
Un film bello ma triste, perché ci mostra una cicala che consuma i suoi ultimi giorni in solitudine, senza figli, senza una donna accanto, vivendo a un livello minimo di sussistenza; una cicala senza pubblico e senza più voce per cantare, neppure per se stessa.

Birra a colazione, poi a seguire vodka, per un totale di circa un litro al giorno, Johnson vive alla fonda ai Caraibi, senza più navigare da anni, su una barca senza il motore funzionante, sudicia e in rovina, e che un ultra-ottantenne come lui non è più in grado di gestire, non solo di liberarla per prendere il mare.

È l’ultimo sgraziato verso di una poesia che incanta ma a volte truffa le anime pure.
Il mare nei secoli è sempre stato fatica, sudore, sale e rughe sulla pelle, incertezza, lontananza. Siamo noi che lo attraversiamo per diporto, quindi per divertimento, che ne cogliamo solo i lati più più piacevoli ignorandone le tante ruvidità. Siamo noi che abbiamo una casa dove tornare, con o senza qualcuno ad attenderci, che possiamo concederci di guardare al mare con inguaribile romanticismo.

Di tipi così sono pieni i mari di tutto il mondo e spesso mi sono chiesto se in loro prevalga lo spirito di libertà o l’apparentemente sano egoismo che la libertà a volte alimenta ma di cui prima o poi presenta il conto.

Ricordo un tale davvero somigliante a Johson, su un’isoletta dalle parti di Rodi, forse Kastellorizo, su un piccolo sloop di una quarantina d’anni di età vincolato al fondo e agli scogli con un groviglio di cime che lasciava intendere un’immobilità di lunga durata. Tutti i pomeriggi scendeva a terra con un dingy rigido a remi tutto rappezzato, comprava pane, sigarette e alcol e se ne tornava a bordo in solitudine. Una volta ho provato a scambiare due chiacchiere con lui e mi ha raccontato una storia che, ripensandola oggi, sembra ricalcata su quella del protagonista di The sailor: una vita senza a radici, tante donne e tanti amici in rapporti fondati sulla fugacità, da anni senza contatti con i figli, supportato da qualche anima pia locale in caso di necessità. Basta uno scafo con un albero piantato in coperta per rendere queste persone diverse da un qualsiasi anziano triste e solo delle metropoli?

Sempre in Grecia, nel golfo di Patrasso, c’è un’isoletta molto graziosa che si chiama Trizonia, in cui è stato costruito un porto che per ragioni burocratiche non è mai entrato in funzione; una vicenda simile a tante storie italiane. Nel porto hanno trovato riparo stabile molte barche i cui proprietari non possono permettersi di pagare neanche la manciata di spiccioli richiesta nei porti greci. Hippy di mare salpati da qualche paese del Nordeuropa con pochi soldi in tasca e la testa piena di sogni non a buon mercato come credevano. Alle prime difficoltà pratiche si sono arenati sul molto di Trizonia e proseguono la loro esistenza di mare, se esistenza di mare si può definire, su tristi scafi ammalorati di cui a stento riescono a permettersi una manutenzione che li tenga almeno a galla. A volte stendono una prolunga fino a un bar o una finestra di qualcuno che generosamente gli permette di ricaricare un po’ le batterie. Alcuni di loro, tristemente, appaiono troppo in là con gli anni per pensare a un riscatto con se stessi, una nuova opportunità, un futuro più comodo: proprio come Johnson, che a un certo punto si stupisce di essere vissuto così a lungo.

Il protagonista del film non si mostra pentito delle sue scelte e, almeno a parole, si dice felice della vita che ha vissuto, anche se l’alcolismo sembra tradire una serenità interiore davvero scarsa. Come il suonatore Jones della poesia di Edgar Lee Masters poi cantata magnificamente da De Andrè che, dopo aver rinunciato al benessere della famiglia di origine, alla soglia dei novant’anni si dichiara senza rimpianti. Ma un conto è leggerlo in versi, un conto veder trascinare stancamente e in solitudine gli ultimi scampoli di una esistenza, chissà se poi davvero piena e felice.

Esopo e La Fontaine ci hanno mostrato due estremi: l’incoscienza godereccia della cicala e la triste e arida esistenza della formica. Nelle mille sfumature di mezzo sta forse il segreto della vita, che quel grande filosofo che è stato Massimo Troisi definì con una memorabile battuta: meglio cinquanta giorni da orsacchiotto rispetto ai cento da pecora o uno solo da leone.
Le barche costano e non bastano i sogni a pagarle. Senza sogni non si parte, senza soldi non si torna.

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