Il codice dell’anima – James Hillman

"Ci sono psicopatici che si accaparrano il favore delle folle e vincono le elezioni."

Una ghianda ha già inscritto nel DNA la sua missione esistenziale: diventare una quercia. La tesi sostenuta in questo libro è che anche per gli esseri umani funzioni così e che tutto sta nel trovare la ghianda dentro di sé, schivando i condizionamenti sociali, familiari, culturali o quant’altro; daimon, viene qui chiamata, con esplicito riferimento alla filosofia greca.

Se sostituiamo la parola ghianda con il termine vocazione, il concetto diventa ancora più chiaro: il senso della vita, secondo l’autore (ma è difficile non essere d’accordo), è trovare quella sorta di missione/vocazione che spesso ci ha chiamato fin da bambini e lasciargli spazio per vivere un’esistenza appagata. Qualcosa di simile al “Diventa ciò che sei” pronunciato da Nietzsche e prima ancora da Pindaro che però, stranamente, in questo saggio non vengono mai citati.

A lasciare perplessi è che Hillman, che è stato un famoso psicologo americano, rovescia completamente uno degli assunti fondamentali della psicanalisi, e cioè che ciò che ci accade durante la prima infanzia lascia in noi dei segni che condizioneranno la nostra vita futura, sostenendo invece che se ci sono successe determinate cose nei primi anni che siamo stati al mondo è proprio perché il daimon ci ha guidati in quella direzione.

La perplessità aumenta fino a diventare scetticismo man mano che avanzano i capitoli perché di prove concrete a supporto della teoria non ce ne sono molte e Hillman, in alcuni casi, sostiene che le cose stanno come dice lui perché il suo intuito gli suggerisce così. Vengono in compenso riportate decine e decine di storie personali di personaggi famosi che corrisponderebbero allo schema proposto ma, alla stessa maniera, si potrebbero raccontare vite che hanno avuto tutt’altro esito.

Si può ribattere che l’opera va letta in senso filosofico più che psicanalitico, ma anche in questo caso la logica di supporto ai ragionamenti appare in qualche caso fallace e le argomentazioni piuttosto deboli. Vero è che Hillman a un certo punto ha lasciato l’attività di terapeuta per dedicarsi alla produzione letteraria. A questo proposito, va detto che questo saggio ha scarsi connotati di universalità e appare invece scritto palesemente per il pubblico americano: nulla di male, ci mancherebbe, ma molti dei casi-studio citati sono per il lettore europeo perfetti sconosciuti.

In estrema sintesi, in qualche passaggio sembra uno di quei libri motivazionali che aiutano le persone sperdute a trovare se stesse; confesso che se non fosse edito da Adelphi forse non l’avrei comprato, malgrado l’autorevolezza dell’autore. Anche se il titolo, bisogna ammetterlo, è estremamente azzeccato.

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