"Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante."
Un libro triste che racconta la storia triste di gente triste. Al netto di questo, un romanzo sulla libertà di disporre autonomamente del proprio corpo e quindi della propria vita ma nella consapevolezza che le proprie scelte sono condizionate da questioni esterne a sé: dalle convenzioni familiari a, banalmente, il caso.
Non è un racconto sull’ortoressia, che nel caso della protagonista si accompagna a un profondo disturbo psichiatrico che la porta progressivamente a respingere qualunque tipo di cibo, ma piuttosto una riflessione sul male di vivere e sul rifiuto degli schemi sociali.
Colpiscono i rapporti interpersonali fra i protagonisti, legati da stretti vincoli familiari eppure rigidi, incapaci di comunicare in modo limpido e di scambiare emozioni sincere o semplicemente lasciarsi andare. Nessuno sembra essere libero, neanche chi detiene il potere all’interno del proprio ambito, e soprattutto nessuno sembra essere minimamente felice della propria vita.
La versione italiana è la traduzione della traduzione dal coreano all’inglese; impossibile quindi esprimere una qualche opinione relativamente allo stile che, nel testo nella nostra lingua, non appare particolarmente brillante.
“Non mettono al centro di tutto l'economia. Per loro l'essenziale è la demografia, e l'istruzione: il sottogruppo demografico che dispone del miglior tasso riproduttivo, e che riesce a trasmettere i propri valori, trionfa.“
Romanzo fantapolitico che immagina una realtà distopica in cui il candidato di un partito musulmano vince le elezioni presidenziali in Francia, avviando rapidamente il paese verso una shariah soft ma non per questo priva di tutti quegli elementi in tremendo contrasto con i valori occidentali, a cominciare dalla poligamia.
Il libro, pubblicato nel 2015, si svolge dal 2022 a seguire, in un futuro diventato ormai presente, dandoci la possibilità di verificare a posteriori l’esattezza di alcune analisi dell’autore sugli equilibri politici francesi e internazionali, a cominciare dalla marginalizzazione dei due schieramenti politico-ideologici che hanno dominato la scena politica mondiale degli ultimi decenni, sinteticamente la destra e la sinistra.
Quello che inizialmente appare come un attacco all’islam politico è in realtà una critica alla società occidentale, tema molto caro a Houellebecq e ricorrente in molti suoi romanzi; una società che appare gaudente ma amorfa e priva di valori, come spesso nella storia le società che costituiscono gli imperi prossimi al loro termine.
Il titolo altro non è che la traduzione letterale del termine islam, che significa appunto sottomissione. Il protagonista, un docente universitario tipicamente francese, si ritrova nel finale ad accettare la conversione religiosa, sottomettendosi, per il bieco interesse di riottenere la cattedra perduta e sposare un paio di giovani studentesse.
Amo Houellebecq e credo che come Philip Roth abbia saputo raccontare in modo magistrale i tormenti interiori dell’uomo (maschio) occidentale. Forse non è un caso che anche l’americano abbia scritto un eccellente romanzo di fantapolitica: Il complotto contro l’America, in cui, invece degli islamisti, vincono le elezioni del 1942 negli USA i filonazisti. Cambia la bandiera ma la sostanza è la stessa: la distruzione dei principi di libertà affermatisi con l’illuminismo e la rivoluzione francese.
"Nel profondo del cuore, ogni uomo, anche se non è un marinaio, sogna una donna che aspetta il suo ritorno sulla spiaggia.”
Incredibile la maestria con cui l’autrice, all’epoca appena trentenne, ha saputo confezionare questo bellissimo romanzo dal passo e dalla struttura pressoché perfetti. È l’opera che ha segnato il suo esordio una dozzina di anni fa, seguito poi da Svegliare i leoni con cui ha dato conferma del proprio valore letterario.
Ambientato tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, racconta le vicende di un gruppo di persone le cui vite si intrecciano in un susseguirsi di eventi, personali e storici, fitto e appassionante. Amore e odio, vita e morte, dolore e piacere, gioia e sofferenza: non manca nulla, neppure accennati sconfinamenti nel metafisico che evocano la penna di Alejandro Jodorowsky.
La scrittura è scorrevole e avvincente, e tiene incollato il lettore alle pagine in modo naturale, senza artifici di bassa lega, ma semplicemente grazie al talento narrativo della Gundar-Goshen. Colpisce, nel capitolo in cui il romanzo fa un salto temporale in avanti di dieci anni, la naturalezza con cui in modo semplice ma non sbrigativo viene spiegato che in quel periodo in effetti non succede nulla di particolarmente interessante, ma semplicemente si solidificano alcune realtà che si erano costituite nei capitoli precedenti.
Un finale doloroso ma poetico sugella il racconto lasciando una piacevole sensazione di amore e leggerezza che sembra indicare la strada per affrontare l’ineluttabilità dell’esistenza umana.
"Il bisogno di dissolvere la propria individualità all'interno di una corporazione che si legittimi richiamandosi a una legge superiore fu molto sentito [...] negli anni Venti e Trenta."
La Storia, come è noto, la scrivono i vincitori. Questo libro non tenta di riscriverla ma si propone di raccontarla dal punto di vista degli sconfitti, con lo scopo dichiarato di colmare una lacuna che, come spiega l’autore, quasi nessun intellettuale tedesco per decenni si è preoccupato di colmare, per ragioni che vanno dal comprensibile desiderio di andare oltre e ricominciare a vivere, al timore di venire accusati di tardive simpatie naziste.
Nel libro si raccontano gli effetti terribili e devastanti dei bombardamenti a tappeto sulle citta della Germania, durante la seconda guerra mondiale, da parte delle forze alleate. Sebald indugia a volte in descrizioni e particolari raccapriccianti sul modo atroce in cui circa seicentomila persone hanno perso la vita: arse vive dalle bombe incendiarie, soffocate dai fumi o imprigionate dentro i rifugi da cumuli di macerie.
Nel raccontarlo, si adombra l’ipotesi che non tutte quelle bombe fossero necessarie, che non servisse radere al suolo così tanti centri abitati, anche di secondaria grandezza. Ma se molti storici concordano sul fatto che l’atomica su Hiroshima sia stata semplicemente una sorta di vendetta americana per lo smacco di Pearl Harbour, senza alcuna utilità strategica, siamo sicuri che si possa dire lo stesso dei bombardamenti alleati? Siamo sicuri che ci fossero modi più indolore di fermare la terribile macchina di morte nazista che inizialmente sembrava militarmente invincibile?
Seicentomila civili morti è un numero certamente enorme, che però andrebbe rapportato ai numeri generali di quella che è la più terribile guerra mai combattuta sulla terra: sessanta milioni di morti, dieci milioni solo nei campi di concentramento, di cui sei milioni di ebrei, uccisi cioè senza alcuno scopo bellico. Non dimentichiamo inoltre che nel periodo 1942-1945, quello di cui si parla, la Germania bombardava Londra, faceva andare a pieno regime i campi di sterminio e scatenava battaglie terribili che provocarono milioni di morti (due solo a Stalingrado).
Forse la risposta sta proprio nei numeri. In un epoca, la nostra, in cui fortunatamente alla vita umana viene dato il valore che merita, certe cifre fanno impallidire, ma basti pensare che solo nei mesi successivi allo sbarco in Normandia le forze alleate hanno perso circa centocinquantamila soldati: civili, per lo più, che avevano forzatamente indossato una divisa per combattere una guerra scatenata non da loro.
Gianluca Marcon ci ha piacevolmente intrattenuti con le sue storie di mare e con i bellissimi disegni che fa per illustrare le sue navigazioni.
Abbiamo parlato di mari del nord e di laguna veneta, di aneddoti di navigazione e di storie curiose come quella del Vasa, il galeone svedese naufragato il giorno stesso del varo nel porto di Stoccolma.
E abbiamo ovviamente parlato anche del libro di Gianluca, Venezia in barca, un piacevole racconto illustrato che è anche un portolano delle acque lagunari.
Eravamo davvero tanti e abbiamo ascoltato Gianluca con interesse. Poi abbiamo chiacchierato, riso, scherzato e consumato le abbondanti libagioni e vettovaglie di cui non patiamo mai carenza.
Grazie a Gianluca e grazie a tutti gli amici che sono venuti!
La passione per la lettura può portare molto lontano, perché ci sono libri così appassionanti da indurti a partire per ricercarne le tracce nei luoghi che descrivono. È quello che mi è successo con Anime Baltiche, di Jan Brokken, giornalista olandese, che ha meravigliosamente raccontato la vita di alcuni uomini e donne nati o vissuti, per lo più nella prima metà del Novecento, in quel piccolo spicchio d’Europa che si affaccia sul versante orientale del Mar Baltico. Terminato il libro ho deciso di partire per Riga, capitale della Lettonia, che insieme a Lituania ed Estonia forma la triade delle cosiddette repubbliche baltiche. Dato che da quelle parti le temperature minime in inverno possono toccare i venticinque gradi sottozero, mi è sembrato il caso di aspettare la fine della stagione più fredda.
La città mi ha accolto con una pioggia finissima che poi a sera è rimasta in sospensione formando un sottile strato di foschia. Due passi all’imbrunire lungo la Daugava, il fiume che le scorre dentro, sono quindi stati avvolti da un leggero velo di mistero che ha conferito al cammino quella sensazione ancestrale fatta di curiosità e timore mescolati fra loro. C’è un piccolo marina ma una sola barca a vela all’ormeggio; l’aria è quella del porto dismesso, forse per manutenzione, forse per questioni di sicurezza legate alle tensioni con la vicina Russia. Poco più a monte sono ormeggiate tre navi militari con le insegne NATO e le bandiere rispettivamente francese, tedesca e spagnola.
Ho affittato un piccolo appartamento nel quartiere subito a nord della città vecchia e che costituisce uno degli obiettivi del viaggio. Edificato nei primissimi anni del Novecento secondo lo stile in voga allora, l’Art Nouveau (che nell’Europa centro-settentrionale prese il nome di Jugendistil), ha segnato architettonicamente la città in modo profondo proiettandola nella modernità urbanistica.
Si tratta di un esteso agglomerato formato da numerosi edifici le cui facciate sono riccamente decorate con statue e figure mitologiche che li rendono sontuosi e decisamente curiosi. La maggior parte di essi, come ho appreso grazie a Brokken, è stata progettata da Michail Ėjzenštejn, padre di Sergej, il regista de La corazzata Potëmkin, che nacque infatti a Riga e qui ha trascorso i primi anni della sua vita. È un quartiere decisamente elegante che oggi ospita molte ambasciate straniere e che è stato restaurato dopo l’indipendenza della Lettonia dall’URSS, seguita ad anni di abbandono e degrado. Anche il palazzo dove risiedo è stato riportato all’antico splendore grazie a lavori eseguiti davvero con eccellente maestria.
L’altro obiettivo che ho è una fisima da bibliofilo: la libreria fondata nel 1918 da JānisRose, un interessante personaggio narrato da Brokken nel primo capitolo del libro. La sua avventurosa storia personale si intreccia con la storia del suo paese, dell’impero zarista e di quello sovietico, passando per la breve parentesi della prima repubblica lettone, iniziata all’indomani della prima guerra mondiale e terminata brutalmente nel 1940 con l’occupazione russa seguita allo scellerato patto Molotov-Von Ribbentrop con cui nazisti e sovietici si spartirono l’Europa. La libreria esiste tuttora ed è miracolosamente sopravvissuta alla censura dei diversi oppressori che si sono avvicendati in Lettonia. Osservo emozionato l’insegna e la vetrina, al lato della quale è posta una targa a ricordo del fondatore, poi entro a curiosare fra gli scaffali, guardato malamente da una commessa definita arcigna anche da Brokken. Devo purtroppo dire che da queste parti molto raramente nei negozi o nei locali pubblici si viene accolti con un sorriso.
Riga è bellissima! Strade e palazzi antichi sono stati tutti restaurati con cura nel trentennio successivo all’indipendenza, proclamata nel 1991; non una carta per terra, non un muro imbrattato da inutili e insignificanti graffiti, non un condizionatore appeso sulla facciata di un edificio di pregio, non un infisso colorato secondo il gusto del proprietario dell’appartamento ma in controtendenza con il resto del condominio, non un’insegna in un improbabile colore sgargiante, non un manifesto abusivo. Pulizia, eleganza, sobrietà, cura, armonia, senso estetico, rispetto: nel mio quartiere come pure nella città vecchia o nei lungofiume. L’opposto esatto di ciò che è stato nei cinquant’anni di dominazione russa, quando il disprezzo per i canoni estetici ritenuti borghesi ha fomentato l’incuria dei palazzi più belli.
Ma se i segni tangibili dell’occupazione russa sono stati rimossi con i tanti restauri edili, il rifiuto e la paura dei russi alberga ancora in modo profondo nell’animo dei lettoni, rinvigorito dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’ex-armata rossa. Mossi presumibilmente dal timore di subire la stessa sorte, i lettoni mostrano una profondissima solidarietà per l’Ucraina, al punto da esporre la bandiera ucraina accanto a quella nazionale su tutti gli edifici istituzionali. Addirittura, su alcuni canali televisivi, sotto il logo dell’emittente, è scritto in caratteri cirillici Slava Ukraina, Gloria all’Ucraina, il motto della nazione gialloblu.
Sulla facciata di un elegante palazzo sito proprio di fronte all’ambasciata russa è appesa una gigantografia di Putin il cui volto sfuma in un teschio che simboleggia la morte. Il messaggio, alto almeno una decina di metri, non potrebbe essere più chiaro, soprattutto perché pronunciato da chi conosce bene il suo vicino per averne già sperimentato l’abbraccio mortale, costato centinaia di migliaia di deportati nei gulag siberiani, imposizione del bilinguismo e repressione della cultura lettone oltre che repressione poliziesca e militare. Sarà per questo che la città è piena di bandiere che celebrano il ventennale dell’adesione del paese alla NATO. Visto quello che è successo all’Ucraina, credo stiano benedicendo con tutto il cuore la scelta da loro fatta nel 2004.
Passeggiando per i vicoli acciottolati della città vecchia, pittoresca e romantica come poche, arrivo al museo della storia navale lettone, ovviamente per me imperdibile. Non c’è molto, a dire il vero: alcuni modelli di navi, qualche strumento di navigazione e inoltre il personale che sorveglia le sale è severo al limite della scortesia, ma ne valeva comunque la pena. I lettoni comunque mi sembrano piuttosto schivi e poco inclini alla socializzazione o anche semplicemente al sorriso. La loro storia si intreccia, oltre che con i russi, con i tedeschi, i polacchi e gli scandinavi; chissà da chi hanno mutuato questo tratto del carattere o chissà se è frutto proprio della presenza prepotente di questi. Va comunque ricordato che Riga ha fatto parte della Lega Anseatica; l’interazione con i vicini non è stata, nei secoli, solo violenza e sopraffazione ma anche protezione e commercio.
Proseguendo verso sud lungo la Daugava, i cui argini sono puliti e curati come l’altare maggiore della basilica di San Pietro a Roma, arrivo al museo dell’Olocausto. La presenza ebraica a Riga prima della seconda guerra mondiale era costituita da diverse decine di migliaia di individui e si era ridotta a poche centinaia alla fine del conflitto. Molti vennero rastrellati e uccisi nei boschi attorno alla città all’indomani dell’invasione nazista del 1941, quando i tedeschi ruppero il patto con i russi. Il museo è ovviamente molto toccante ma c’è una cosa che mi ha particolarmente colpito: in uno spazio aperto c’è un vagone merci di quelli usati per le deportazioni. Al suo interno, da un lato ci sono le gigantografie dei deportati, così da dare al visitatore la possibilità di vedere con i propri occhi cosa quel viaggio significava, dall’altro ci sono degli specchi. Ecco, lo specchio che riflette la tua immagine all’interno di un vagone di deportati è un vero pugno nello stomaco con un doppio messaggio: ti fa identificare con quelle persone, ti fa capire che erano uomini e donne qualunque, non persone rastrellate in modo mirato magari perché ritenute sovversive, e ti dice anche che domani nel vagone potresti ritrovarti tu, vittima sacrificale, capro espiatorio di un odio cieco che in un attimo può sfuggire di mano e colpire con furia criminale qualunque innocente.
Per tornare a respirare libero, salgo in cima al palazzo dell’Accademia lettone delle scienze, un orribile edificio nello stile staliniano pomposamente definito classicismo socialista, che svetta sgraziato verso il cielo oltre i cento metri di altezza. Dall’alto, però, si gode di una meravigliosa vista della città a trecentosessanta gradi che vale decisamente sia il prezzo del biglietto che lo sguardo austero e severo del solito impiegato scostante che lo vende. Ridiscendo, poi attraverso il fiume per l’altro obiettivo da bibliofilo: la maestosa e moderna biblioteca nazionale, un futuristico edificio che custodisce quattro milioni di volumi. Fortuna vuole che becco il giorno in cui è chiusa per una non meglio specificata manutenzione. Vabbè, anche la vista esterna vale la pena.
Sul volo di ritorno leggo le ultime pagine del libro che ho portato con me, Il mago di Riga, di Giorgio Fontana, che narra la storia di Michail Tal’, il più giovane campione di scacchi della storia (prima di Kasparov). Il romanzo è scritto davvero magistralmente e anche in questa storia ci sono vite schiacciate dal potere violento e oppressivo della dittatura: un leitmotiv della storia lettone che i lettoni sono ben decisi a non voler ripetere più.
"Dopo tutte le guerre e le spartizioni territoriali, come si può pretendere di determinare la nazionalità di qualcuno?"
Un genere che adoro: il reportage di viaggio con analisi storiche e sociologiche. Se poi è per mano di quella formidabile penna che è stata Georges Simenon, il piacere della lettura è garantito. Si tratta, in questo caso, di un fantastico affresco sull’Europa della metà degli anni Trenta del Novecento, stretta tra povertà diffusa e nazionalismi; un mix che porterà, di lì a breve, al tragico epilogo di una nuova guerra mondiale.
Europa 33 è una raccolta di scritti pubblicati dall’autore su diversi numeri della rivista settimanale francese Voilà, e che Adelphi ha da poco ripubblicato dopo l’interessante Il Mediterraneo in barca, narrazione di un viaggio affrontato da Simenon con la moglie a bordo di una goletta.
In entrambe le pubblicazioni, l’occhio attento del reporter va oltre la patina delle apparenze, sia essa dovuta al pudore delle persone di nascondere la propria miseria o alla mistificazione delle autorità locali, come nel caso della visita a Odessa, in piena epoca staliniana, che cercavano di spacciare la fame e il terrore per prosperità diffusa.
Da Bruxelles a Vilnius, passando per Vienna e Istanbul, fino a Varsavia e Batumi, con una deviazione sull’isola dei Principi, nel Mar di Marmara, per intervistare nientemeno che Trockij. Molto interessanti anche le tante foto a corredo del testo, scattate dall’autore durante il viaggio e che costituiscono un’ulteriore preziosa testimonianza di un periodo storico che ha segnato pesantemente il nostro continente.
Sarà con noi Alessandro Borgia, velista e architetto nonché autore del bellissimo libro L’ancoraggio in rada, per parlarci di ancore e ancoraggi e per fare quattro chiacchiere insieme
L’ingresso è libero ma è necessario prenotarsi contattando il sottoscritto.
Dopo una pausa purtroppo molto lunga, giovedì scorso sono ripresi gli incontri del Mare sul divano, il salotto culturale del mare.
È stato nostro gradito ospite Marco Rossi, navigatore di lungo corso, sceso dalle distese ghiacciate dell’estremo nord per presentarci l’ultimo volume del suo Atlante romantico degli oceani.
La serata è stata interessante e piacevole, iniziata con colte dissertazioni e terminata italicamente con un bicchiere di vino.
"Amami, gli aveva detto allora quasi sussurrando, come una donna che sa quello che vuole ma che non è pronta a ricambiarlo."
Un fantastico romanzo che con leggerezza e garbo affronta il tema della solitudine, partendo da un punto di vista decisamente inconsueto: la schiena. E sì, perché, come fa notare l’autrice, la schiena è l’unica parte del corpo umano che non ci si può degnamente accarezzare da sé.
Un uomo e una donna, che più diversi non potrebbero essere e che conducono una vita apparentemente serena sul piano interiore, si incontrano per quella che è decisamente una stravaganza del primo e che porta a inaspettati sviluppi nella vita di entrambi, dopo avere dato la stura a riflessioni che entrambi avevano inconsciamente evitato per costruirsi la propria nicchia di sopravvivenza al riparo dai dolori portati dal mondo esterno.
Scritto con prosa semplice ma con un passo praticamente perfetto, nel corso del racconto vengono scandagliati, con profondità e acume, umori e pensieri dei due protagonisti, che camminano su due percorsi esistenziali paralleli pur sfiorandosi e interagendo, a volte scontrandosi, comprendendo infine l’insensatezza di una vita fatta di rapporti sociali ridotti al minimo necessario.
Ricco di citazioni letterarie che non sono semplici sbrodolate dell’autrice per rendere colto lo scritto, ricco di spiegazioni sulle tecniche pittoriche (la pittura è una delle chiavi di volta dello sviluppo delle vicende), ricco di riflessioni sull’animo umano buttate lì con nonchalance. Bello, bello, bello!