Anima baltica

La passione per la lettura può portare molto lontano, perché ci sono libri così appassionanti da indurti a partire per ricercarne le tracce nei luoghi che descrivono. È quello che mi è successo con Anime Baltiche, di Jan Brokken, giornalista olandese, che ha meravigliosamente raccontato la vita di alcuni uomini e donne nati o vissuti, per lo più nella prima metà del Novecento, in quel piccolo spicchio d’Europa che si affaccia sul versante orientale del Mar Baltico. Terminato il libro ho deciso di partire per Riga, capitale della Lettonia, che insieme a Lituania ed Estonia forma la triade delle cosiddette repubbliche baltiche. 
Dato che da quelle parti le temperature minime in inverno possono toccare i venticinque gradi sottozero, mi è sembrato il caso di aspettare la fine della stagione più fredda.

La città mi ha accolto con una pioggia finissima che poi a sera è rimasta in sospensione formando un sottile strato di foschia. Due passi all’imbrunire lungo la Daugava, il fiume che le scorre dentro, sono quindi stati avvolti da un leggero velo di mistero che ha conferito al cammino quella sensazione ancestrale fatta di curiosità e timore mescolati fra loro. C’è un piccolo marina ma una sola barca a vela all’ormeggio; l’aria è quella del porto dismesso, forse per manutenzione, forse per questioni di sicurezza legate alle tensioni con la vicina Russia. Poco più a monte sono ormeggiate tre navi militari con le insegne NATO e le bandiere rispettivamente francese, tedesca e spagnola.

Ho affittato un piccolo appartamento nel quartiere subito a nord della città vecchia e che costituisce uno degli obiettivi del viaggio. Edificato nei primissimi anni del Novecento secondo lo stile in voga allora, l’Art Nouveau (che nell’Europa centro-settentrionale prese il nome di Jugendistil), ha segnato architettonicamente la città in modo profondo proiettandola nella modernità urbanistica.

Si tratta di un esteso agglomerato formato da numerosi edifici le cui facciate sono riccamente decorate con statue e figure mitologiche che li rendono sontuosi e decisamente curiosi. La maggior parte di essi, come ho appreso grazie a Brokken, è stata progettata da Michail Ėjzenštejn, padre di Sergej, il regista de La corazzata Potëmkin, che nacque infatti a Riga e qui ha trascorso i primi anni della sua vita. È un quartiere decisamente elegante che oggi ospita molte ambasciate straniere e che è stato restaurato dopo l’indipendenza della Lettonia dall’URSS, seguita ad anni di abbandono e degrado. Anche il palazzo dove risiedo è stato riportato all’antico splendore grazie a lavori eseguiti davvero con eccellente maestria.

L’altro obiettivo che ho è una fisima da bibliofilo: la libreria fondata nel 1918 da Jānis Rose, un interessante personaggio narrato da Brokken nel primo capitolo del libro. La sua avventurosa storia personale si intreccia con la storia del suo paese, dell’impero zarista e di quello sovietico, passando per la breve parentesi della prima repubblica lettone, iniziata all’indomani della prima guerra mondiale e terminata brutalmente nel 1940 con l’occupazione russa seguita allo scellerato patto Molotov-Von Ribbentrop con cui nazisti e sovietici si spartirono l’Europa. La libreria esiste tuttora ed è miracolosamente sopravvissuta alla censura dei diversi oppressori che si sono avvicendati in Lettonia. Osservo emozionato l’insegna e la vetrina, al lato della quale è posta una targa a ricordo del fondatore, poi entro a curiosare fra gli scaffali, guardato malamente da una commessa definita arcigna anche da Brokken. Devo purtroppo dire che da queste parti molto raramente nei negozi o nei locali pubblici si viene accolti con un sorriso.

Riga è bellissima! Strade e palazzi antichi sono stati tutti restaurati con cura nel trentennio successivo all’indipendenza, proclamata nel 1991; non una carta per terra, non un muro imbrattato da inutili e insignificanti graffiti, non un condizionatore appeso sulla facciata di un edificio di pregio, non un infisso colorato secondo il gusto del proprietario dell’appartamento ma in controtendenza con il resto del condominio, non un’insegna in un improbabile colore sgargiante, non un manifesto abusivo. Pulizia, eleganza, sobrietà, cura, armonia, senso estetico, rispetto: nel mio quartiere come pure nella città vecchia o nei lungofiume. L’opposto esatto di ciò che è stato nei cinquant’anni di dominazione russa, quando il disprezzo per i canoni estetici ritenuti borghesi ha fomentato l’incuria dei palazzi più belli.

Ma se i segni tangibili dell’occupazione russa sono stati rimossi con i tanti restauri edili, il rifiuto e la paura dei russi alberga ancora in modo profondo nell’animo dei lettoni, rinvigorito dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’ex-armata rossa. Mossi presumibilmente dal timore di subire la stessa sorte, i lettoni mostrano una profondissima solidarietà per l’Ucraina, al punto da esporre la bandiera ucraina accanto a quella nazionale su tutti gli edifici istituzionali. Addirittura, su alcuni canali televisivi, sotto il logo dell’emittente, è scritto in caratteri cirillici Slava Ukraina, Gloria all’Ucraina, il motto della nazione gialloblu. 

Sulla facciata di un elegante palazzo sito proprio di fronte all’ambasciata russa è appesa una gigantografia di Putin il cui volto sfuma in un teschio che simboleggia la morte. Il messaggio, alto almeno una decina di metri, non potrebbe essere più chiaro, soprattutto perché pronunciato da chi conosce bene il suo vicino per averne già sperimentato l’abbraccio mortale, costato centinaia di migliaia di deportati nei gulag siberiani, imposizione del bilinguismo e repressione della cultura lettone oltre che repressione poliziesca e militare.
Sarà per questo che la città è piena di bandiere che celebrano il ventennale dell’adesione del paese alla NATO. Visto quello che è successo all’Ucraina, credo stiano benedicendo con tutto il cuore la scelta da loro fatta nel 2004.

Passeggiando per i  vicoli acciottolati della città vecchia, pittoresca e romantica come poche, arrivo al museo della storia navale lettone, ovviamente per me imperdibile. Non c’è molto, a dire il vero: alcuni modelli di navi, qualche strumento di navigazione e inoltre il personale che sorveglia le sale è severo al limite della scortesia, ma ne valeva comunque la pena. I lettoni comunque mi sembrano piuttosto schivi e poco inclini alla socializzazione o anche semplicemente al sorriso. La loro storia si intreccia, oltre che con i russi, con i tedeschi, i polacchi e gli scandinavi; chissà da chi hanno mutuato questo tratto del carattere o chissà se è frutto proprio della presenza prepotente di questi. Va comunque ricordato che Riga ha fatto parte della Lega Anseatica; l’interazione con i vicini non è stata, nei secoli, solo violenza e sopraffazione ma anche protezione e commercio.

Proseguendo verso sud lungo la Daugava, i cui argini sono puliti e curati come l’altare maggiore della basilica di San Pietro a Roma, arrivo al museo dell’Olocausto. La presenza ebraica a Riga prima della seconda guerra mondiale era costituita da diverse decine di migliaia di individui e si era ridotta a poche centinaia alla fine del conflitto. Molti vennero rastrellati e uccisi nei boschi attorno alla città all’indomani dell’invasione nazista del 1941, quando i tedeschi ruppero il patto con i russi. Il museo è ovviamente molto toccante ma c’è una cosa che mi ha particolarmente colpito: in uno spazio aperto c’è un vagone merci di quelli usati per le deportazioni. Al suo interno, da un lato ci sono le gigantografie dei deportati, così da dare al visitatore la possibilità di vedere con i propri occhi cosa quel viaggio significava, dall’altro ci sono degli specchi. Ecco, lo specchio che riflette la tua immagine all’interno di un vagone di deportati è un vero pugno nello stomaco con un doppio messaggio: ti fa identificare con quelle persone, ti fa capire che erano uomini e donne qualunque, non persone rastrellate in modo mirato magari perché ritenute sovversive, e ti dice anche che domani nel vagone potresti ritrovarti tu, vittima sacrificale, capro espiatorio di un odio cieco che in un attimo può sfuggire di mano e colpire con furia criminale qualunque innocente.

Per tornare a respirare libero, salgo in cima al palazzo dell’Accademia lettone delle scienze, un orribile edificio nello stile staliniano pomposamente definito classicismo socialista, che svetta sgraziato verso il cielo oltre i cento metri di altezza. Dall’alto, però, si gode di una meravigliosa vista della città a trecentosessanta gradi che vale decisamente sia il prezzo del biglietto che lo sguardo austero e severo del solito impiegato scostante che lo vende.
Ridiscendo, poi attraverso il fiume per l’altro obiettivo da bibliofilo: la maestosa e moderna biblioteca nazionale, un futuristico edificio che custodisce quattro milioni di volumi. Fortuna vuole che becco il giorno in cui è chiusa per una non meglio specificata manutenzione. Vabbè, anche la vista esterna vale la pena.

Sul volo di ritorno leggo le ultime pagine del libro che ho portato con me, Il mago di Riga, di Giorgio Fontana, che narra la storia di Michail Tal’, il più giovane campione di scacchi della storia (prima di Kasparov). Il romanzo è scritto davvero magistralmente e anche in questa storia ci sono vite schiacciate dal potere violento e oppressivo della dittatura: un leitmotiv della storia lettone che i lettoni sono ben decisi a non voler ripetere più.

(Di Anime Baltiche ho scritto qui: lucianopiazza.com/2023/12/20/anime-baltiche-jan-brokken/)

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