Il mare frange rabbiosamente sui mille scogli che mi circondano, esplodendo con fragore sinistro e lasciando al vento teso il compito di dissolvere in un’aria già densa di umidità i resti frammentati della deflagrazione. In questo scenario attraverso il campo minato di rocce affioranti davanti all’Île-de-Bréhat, percorrendo rigidamente il tracciato marcato dalle segnalazioni marittime cardinali. Stamattina sono salpato all’alba per sfruttare al massimo le ore di luce e coprire prima del buio le cinquanta miglia che ho in programma fino a Saint-Quay-Portrieux, un porto corazzato contro qualunque meteo o marea. Insieme a me sono partite altre due barche, una francese e una inglese: mi sono sentito confortato di aver fatto la scelta giusta, quella di salpare con previsioni di due metri d’onda e vento oltre i trenta nodi ma portante. D’altra parte, con la corrente che c’è da queste parti, senza una forte spinta non si avanza.
Saint-Quay-Portrieux
In teoria passata l’Île-de-Bréhat dovrei essere ridossato, in realtà ogni paio d’ore c’è un groppo, il vento passa da quindici a trenta nodi e le onde da un metro a due metri e mezzo. In Mediterraneo quando entri in un golfo hai la sensazione di essere in uno spazio protetto, qui invece sembra di stare sull’ottovolante. Però non mi ferma nessuno: ogni tanto cancello dal computer il waypoint che ho raggiunto e mi focalizzo sul successivo, continuando a fare lo slalom fra gli ostacoli naturali a una velocità che adesso, fra vento e corrente, è sempre sopra i sette nodi. Quando inizia a piovere me ne vado sottocoperta e lascio Piazza Grande a gestirsela da sola in attesa che smetta. Alle sei e mezzo di sera scorre alla mia dritta il fanale verde del molo di sopraflutto ed entro nel marina. Dieci ore circa dalla partenza: niente male considerando il tratto che ho fatto a bassissima velocità per la corrente contraria.
Il marina di Saint-Quay-Portrieux
È incredibile l’escursione di marea che c’è qui: siamo intorno ai dodici metri. I pali su cui scorrono i pontili galleggianti hanno una altezza impressionante durante la bassa e le passerelle che poggiano sulle banchine sono lunghissime per non diventare ripide come scale a pioli quando sono inclinate verso il basso. Una sera, rientrando in porto dopo il solito rito gastronomico a base di ostriche e Muscadet, mi fermo in cima alla passerella e guardo la sua estremità, dodici metri più in basso, appoggiata al pontile illuminato da una fila di luci: sembra una pista di atterraggio e io il pilota che deve centrarla con il proprio velivolo. Ma forse sono solo gli effetti del Muscadet… a voi, torre di controllo!
In navigazione
A Saint-Quay-Portrieux si sta davvero bene, tutto funziona alla perfezione e il costo non è elevato, quindi decido di fermarmi qualche giorno per riposare un po’. Il marinaio, però, vive in un eterno conflitto interiore: cerca la quiete quando è sballottato dai flutti ma gli basta stare poco tempo fermo in porto per sentire dentro di sé la frenesia del richiamo del mare, quell’anelito interiore, quella sirena irresistibile che lo spinge a sciogliere gli ormeggi dal molo e partire. Ed ecco allora per me una nuova alba con la prua sull’orizzonte, a cercare un’isola che c’è: Jersey, poco più di cento chilometri quadrati appartenenti al regno di sua maestà britannica, malgrado si trovi a pochissima distanza dalla costa francese.
Jersey
Il mare è stranamente calmo, spianato dal sudovest dei giorni scorsi; non sono più abituato a vederlo così. Il vento è poco ma con questo mare non me ne serve molto per avere una velocità dignitosa. Un gigantesco campo eolico, lungo dieci miglia e largo quattro, mi costringe a una deviazione di rotta per rispettare il divieto di non attraversarlo, mentre mi chiedo quali logiche, economiche, ecologiche, o altro, possano rendere conveniente piantare decine di questi enormi ventilatori in mezzo al mare e collegarli in qualche modo alla terraferma. Arrivo nel tardo pomeriggio nella rada che ho scelto; alcune boe libere mi risparmiano la fatica di calare l’ancora: passo due cime nel gavitello e stappo la solita birra di benarrivato. Sto sottocoperta perché fa un po’ freddo, quando sento delle voci: esco fuori e un gruppo di una ventina di nuotatori, partiti dalla spiaggia, mi ha scelto come traguardo e sta sguazzando attorno alla barca. Scambiamo due parole, io con il cappello di lana in testa, loro nell’acqua in costume da bagno, poi se ne ripartono con nonchalance verso la riva, lasciandomi con il dubbio di chi, se io o loro, abbia sbagliato l’abito. Torno giù prima di congelarmi e chiudo il tambuccio: loro, sicuramente.
Man mano che avanzo verso nord gli effetti delle maree incidono sempre di più sulle mie navigazioni. Sia sulla loro programmazione, che in certi passaggi deve per forza di cose tenere conto della corrente che viene generata dal su e giù delle acque, sia nelle manovre in porto dove gli angusti spazi non lasciano molta possibilità di errore. Per di più, qui in Bretagna, non si usa dare assistenza all’ormeggio; quando si chiama, via radio o al telefono, viene assegnato un posto, spiegato più o meno dove dirigersi una volta entrati, e tanti saluti. Stando da solo a bordo, se la corrente è forte può essere un problema, perché l’ormeggio su finger da soli senza supporto a terra è una cosa complicata. A Crouesty, all’ingresso del Golfo di Morbihan, a un certo punto per rallentare ho dovuto ingranare la retro nel canale di accesso ai pontili perché anche con il motore in folle ero troppo veloce! Il marina però è bellissimo, molto grande ed efficiente e ha anche un supermercato molto vicino. Hic manebimus optime!
Barche bretoni
Dato che per un paio di giorni soffierà forte, oltre quaranta nodi, per visitare il Golfo di Morbihan, un ampio bacino costellato di isole e scogli, mi affido a un battello turistico che lo attraversa fino all’Île-d’Arz, che sta proprio nel mezzo. Piove, anzi c’è il sole, anzi ripiove, anzi… E via così. Un detto locale recita che in Bretagna fa bel tempo molte volte al giorno, e io ne ho avuto la precisa conferma. Appena sbarcato, in compagnia di un’amica, ci incamminiamo per visitare l’isola ma in un attimo il sole sparisce e inizia a piovere forte, in orizzontale visto il forte vento. Ho previdentemente indossato la cerata da vela, ma nel giro di pochi minuti i miei jeans sono zuppi come se mi fossi tuffato in mare. Cerco un riparo, ma siamo in un punto completamente aperto. Provo a resistere fino a quando sento una goccia d’acqua scorrere lungo la schiena e insinuarsi nella biancheria intima. Mi dichiaro sconfitto e mi rassegno a una giornata con i pantaloni zuppi addosso; un toccasana per le mie articolazioni.
Île-d'Arz
L’Île-d’Arz è bellissima, selvaggia, cosparsa di casette con i tetti in ardesia, nel tipico stile bretone, e con ampie zone che con la bassa marea diventano paludosi acquitrini. In uno di questi c’è un mulino cinquecentesco ad acqua restaurato di recente e un paio di vecchie barchette abbandonate. Alle spalle, una piccola spiaggia dove ha terminato la sua vita una grossa imbarcazione in legno di cui resta praticamente solo lo scheletro lasciato a marcire. Fascino, sapore di antico, aura di mistero. In giro, vuoi perché il meteo non è dei migliori, vuoi perché ormai siamo a settembre, non c’è quasi nessuno. I pantaloni nel frattempo mi si sono asciugati addosso per il vento ma neanche dieci minuti e parte un nuovo sgrullone: è il mio giorno fortunato!
Île-d'Arz
L’indomani, con Piazza Grande sempre ferma in porto per il ventone, altro giro terrestre. Stavolta tocca a Vannes, una cittadina graziosa ma molto turistica, e poi a quello che probabilmente è uno dei paesini più incantevoli della zona: Auray-Saint-Goustan. Si tratta di un villaggio medievale meravigliosamente conservato, oggi ovviamente riconvertito al turismo ma pervaso da una quiete che stordisce. Devo dire che in Francia non mi è mai capitato di trovare locali con la musica ad alto volume per attirare i clienti, la qual cosa mi piace molto perché quella di imporre agli altri i propri cacofonici decibel la trovo un’abitudine davvero pessima, a tratti violenta.
Auray-Saint-Goustan e Vannes
Dici Bretagna e pensi alle ostriche, che qui sono quasi uno stile di vita. Ci sono molti bar à huitres, locali dove servono quasi esclusivamente ostriche e molluschi crudi, accompagnati da un vino bianco, generalmente Muscadet, prodotto nella Loira atlantica. La mia amica mi porta in uno di questi, nascosto tra una piccola pineta e le scogliere di Morbihan, dove mi assicura hanno le migliori ostriche della zona. In realtà si tratta di un produttore che ha allestito una decina di tavoli e serve le sue ostriche appena tirate fuori dall’acqua. Quando il cameriere arriva con il vassoio pieno, ho un moto di commozione: il sole rosseggia sull’acqua creando una meravigliosa atmosfera che appaga l’anima e le ostriche saporitissime provvedono a soddisfare il corpo. Anima sana in ostrica sana!
Sono le sette di mattina quando apro gli occhi al termine di un lungo sonno, iniziato ieri sera prima delle dieci per via della stanchezza accumulata. Sento la pioggia picchiettare lievemente la coperta, sento il vento fischiare leggero fra le sartie, sento il mare sciabordare un poco intorno allo scafo: ecco, tre ottimi motivi per restarmene al calduccio sotto le coperte, visto pure che da un paio di giorni la temperatura si è abbassata di qualche grado e la mattina fa un po’ freschetto. Neanche dieci minuti e una lama di sole mi trafigge oltrepassando l’esile barriera costituita dalla tendina dell’osteriggio della cabina: segno che le nuvole sono passate e l’alba si sta manifestando in tutta la sua splendente pienezza. Metto il naso fuori dal tambucio e resto ammaliato dalla luce calda del primo mattino che accende l’isola di Houat, di fronte alla Bretagna, dove ho ancorato ieri pomeriggio dopo una piacevole veleggiata di circa quaranta miglia.
Île-d'Houat
Non è facile da queste parti trovare un posto in cui passare la notte in tranquillità. Sia la marea che lo swell rendono impraticabile o quanto meno scomoda qualunque rada che sulla carta sembra invece offrire un buon ridosso. La prima costringe spesso a tenersi molto lontano dalla riva aumentando conseguentemente l’esposizione al secondo che, come tutti i moti ondosi, tende a insinuarsi ovunque seguendo il profilo della costa. Stanotte è andata bene perché il vento ha tenuto, ma avevo messo in conto la possibilità di un’altra notte passata a rollare oscillando come un pendolo se, contrariamente alle previsioni, avesse mollato. Eravamo tre barche in tutto a condividere la meraviglia di questo ancoraggio: quando mi sono svegliato le altre due erano già salpate via. Sulla spiaggia deserta una coppia mattiniera passeggia romanticamente insieme a un cane eccitato dai gabbiani che sembrano prendersi gioco di lui sfidandolo con la loro aerea inafferrabilità; più lui cerca di abbrancarli, più questi si spostano di qualche metro saltando via con un distratto colpo di ali.
Pornic
Dopo l’incanto de L’Île-d’Yeu ho fatto una breve sosta a Pornic. Doveva essere uno scalo tecnico invece ho avuto la sorpresa di trovare una cittadina davvero graziosa, adagiata sulle rive di un canale che va quasi completamente in secca con la bassa marea lasciando le numerose imbarcazioni alla boa posarsi sul suo letto fangoso, fra gusci di ostriche selvatiche e uccelli di varie specie che razzolano guardinghi alla ricerca di un piccolo crostaceo, di un vermetto o di qualche altro cibo per loro edibile. È domenica pomeriggio e le strade sono piene di gente, per lo più famiglie e vacanzieri che si godono gli ultimi scampoli di ferie. Da domani anche in Francia riprende l’attività lavorativa a pieno ritmo e le località costiere torneranno alla loro consueta tranquillità invernale; e il costo dei porti si abbasserà, cosa che non mi dispiace affatto! Quando inizia a piovere mi rifugio sotto la tenda di un locale che serve ostriche e Muscadet; se non puoi eliminare un problema, sfruttalo a tuo favore!
Pornic
Purtroppo a Pornic ho subito un piccolo danno durante la manovra di ormeggio. Non era prevista assistenza e c’erano una ventina di nodi di vento, quindi sono dovuto entrare un po’ allegrotto nel posto assegnato; di prua, come è preferibile sui finger. Il vento era al giardinetto e la poppa si è abbattuta leggermente. Nulla di ché se avessi avuto sottovento un’altra barca a vela: mi sarei appoggiato con delicatezza e i parabordi avrebbero attutito completamente il colpo. Invece c’era una barca a motore ormeggiata di poppa, con una prua altissima, di quelle molto svasate, così prima che i parabordi potessero fare il loro dovere, la battagliola si è appoggiata sulla falchetta del vicino. Nessun danno per lui, per me invece un candeliere piegato vistosamente. Così è chiaro perché barche a vela e barche a motore non devono essere ormeggiate vicine; non, come sostiene qualcuno, per incompatibilità caratteriale dei rispettivi proprietari.
Pornic
Un gabbiano si posa sul pulpito di poppa, sostenendosi con le zampe sulla zattera; è un esemplare giovane, come si evince dal piumaggio, inevitabile il pensiero a Jonathan Livingston, il protagonista di un romanzo un po’ stucchevole che furoreggiava ai tempi della mia infanzia. Condivido con lui qualche momento, poi mi vedo costretto a scacciarlo prima che scambi Piazza Grande per un deposito di deiezioni aviare.
Ho diverse piccole avarie da sistemare e il meteo dei prossimi giorni suggerisce di restare in porto, quindi, anche in questo caso, sfrutterò l’avversità a mio favore. Devo solo trovarne uno con un posto disponibile, cosa niente affatto scontata da queste parti. Sollevo l’ancora e apro le vele; la Bretagna è davanti a me.
La Sicilia, a torto o a ragione, viene generalmente associata al mare e al turismo estivo. Andarci fuori stagione costituisce la rottura di uno schema, cosa divenuta quasi obbligatoria un po’ ovunque se si vuole ricercare la veracità di un luogo invece di viverlo nei mesi in cui si acchitta per assecondare le esigenze e gli stereotipi di chi lo visita distrattamente. Il fuori stagione consente inoltre di schivare il caldo asfissiante e l’affollamento turistico soffocante. Ho chiesto come si dicesse “fuori stagione” in dialetto siciliano: “unn’è tempu“, non è tempo, mi è stato detto; un’espressione generica e spendibile in diversi ambiti. Io credo invece che il tempo di viaggiare sia diventato proprio quello che i più considerano “fuori tempo”: in epoca di esplosione demografica muoversi controcorrente è quasi imprescindibile, doveroso.
La temperatura a Palermo è comunque mite anche in autunno, forse più per le normali caratteristiche climatiche della città che per gli effetti del riscaldamento globale, anche se durante alcune giornate del mio soggiorno un libeccio deciso ha portato nuvole e pioggia creando una cappa di leggera cupezza. Anche questo, in fondo, è uno stereotipo che si rompe, quello del legame inscindibile della Sicilia con il sole: e io, gli stereotipi, li detesto. La Palermo che cerco in questi giorni non è quella da cartolina, fatta di spiagge e mare bello. Quando visito una città cerco di coglierne l’anima girando per le strade, osservando le persone e il modo in cui vivono, si muovono e si relazionano tra loro, guardando il funzionamento del tessuto economico e sociale, o anche leggendo qualche libro che la racconti da un punto di vista particolare. Forse è una pretesa, e ancora di più lo è per Palermo che certamente è una città molto complessa da comprendere, quasi da sfogliare strato per strato.
Un’interrogativo che mi pongo spesso quando sono in un luogo del nostro continente geograficamente lontano dalle sedi delle principali istituzioni della UE è quanta Europa ci sia, cosa sia sorto dalla mescola di usi e tradizioni locali secolari con le indicazioni culturali (nel senso ampio del termine) dell’Unione Europea che cerca, giustamente, di creare uno standard generale e uguale per tutti. A Palermo la risposta appare piuttosto semplice: di Europa ce n’è pochissima, quasi nulla. Per rendersene conto basta passeggiare per la città, sia nei quartieri eleganti attorno al Politeama e al teatro Massimo, che nelle zone più popolari, come la Kalsa, la Vucciria o Ballarò. Nelle prime, una borghesia raffinata e colta dà l’impressione di essere saldamente ancorata, per scelta o costrizione, alle proprie abitudini e al proprio modo d’essere, mentre nelle seconde il degrado raggiunge purtroppo livelli da metropoli nordafricana e i mercati storici famosi, come quello del Capo, inscenano uno spettacolo molto pittoresco e affascinante ma certamente non al passo con i tempi e per questo forse unico in Italia e in Europa. In alcuni angoli sembra di essere negli anni Sessanta/Settanta.
Va detto però che, al netto di questo degrado (che a Ballarò è davvero sconvolgente), Palermo è un bellissimo agglomerato urbano mediterraneo che mischia fasti antichi, per lo più di epoca arabo-normanna o barocca, con costruzioni del periodo umbertino, siano esse villini liberty o palazzi borghesi, e con la fitta selva di brutti edifici costruiti dal secondo dopoguerra in poi durante quello che è passato alla storia come il sacco di Palermo, operato dalla mafia con la complicità dei politici di allora. Si può dire quindi che la città ha mantenuto sempre costantemente la propria identità pur avendo cambiato spesso aspetto. A differenza di altre città italiane, non ha subito un’immigrazione di proporzioni tali da stravolgerne l’anima; anche la presenza attuale di extracomunitari non sembra numericamente in grado di incidere troppo. Gli odori delle spezie esotiche che si sprigionano da alcune finestre si fondono con l’odore del mare, e già questo basta per farmi stare bene e sentire a casa.
Già, la mafia: un marchio di infamia che tutti i palermitani, anche quelli onesti, si portano purtroppo addosso. Secondo Roberto Alajmo, autore del breve saggio Palermo è una cipolla, si è generato un senso di colpa negli abitanti della città per aver esportato la mafia nel mondo. Che il fenomeno mafioso non sia più subìto, accettato o minimizzato in modo omertoso bensì finalmente osteggiato dalla società civile si percepisce chiaramente: ovunque ci sono monumenti, steli, lapidi, murales (istituzionali o spontanei) che celebrano i caduti nella guerra alla criminalità organizzata. A Capaci è impossibile non provare un forte turbamento guardando la casupola bianca da dove è stato azionato il telecomando che ha fatto esplodere la bomba che ha provocato la morte di Falcone e degli altri che erano con lui: di notte viene illuminata con un fascio di luce che fa spiccare le parole “No mafia” poste sulla facciata. Come pure si resta turbati camminando lungo certe strade, sapendo che sono state il teatro di omicidi efferati compiuti in pieno giorno nella quasi certezza dell’impunità.
Forse non c’è stata quella rivoluzione culturale che è sempre parsa lì lì per esplodere dopo le stragi dei primi anni Novanta (ma del resto l’Italia tutta ha disatteso le speranze sorte in quegli anni, dopo Tangentopoli), ma certamente Palermo si è ribellata e le conseguenze si sono viste. Quella mafia è stata sconfitta, non esiste più. Resta da vedere se insieme sia sparito anche il tragico dilemma che, sempre secondo Alajmo, doveva affrontare qualunque imprenditore prima di avviare un’attività, e cioè quello fra un’umiliante connivenza e una resistenza eroica che aveva alte probabilità di risolversi nel tragico modo in cui è finito Libero Grassi. L’impressione comunque è di una città decisamente più tranquilla e sicura rispetto anche a pochi decenni fa e che meriterebbe di più di quello che al momento si ritrova ad avere.
A passeggio per il centro incappo nel set cinematografico de I leoni di Sicilia, il best seller che ha raccontato la saga familiare dei Florio, partiti praticamente dal nulla e arrivati a essere una delle famiglia più ricche d’Europa nel giro di un paio di generazioni, per poi dissolversi con la stessa rapidità con cui avevano accumulato la loro ricchezza. Il romanzo evidenzia soprattutto gli aspetti frivoli di una storia che è invece interessante da molti altri punti di vista, speriamo quindi che il film banalizzi un po’ meno le vicende. E il pensiero va al Gattopardo di Visconti, proprio mentre cammino nella bellissima piazza su cui affaccia il palazzo Valguarnera-Gangi al cui interno è stata girata la famosa scena del ballo.
Ma Palermo, come tutta la Sicilia, è anche il trionfo della gastronomia, che spazia dal salato al dolce. Per gusto personale preferisco il primo al secondo (cannoli a parte) ma la fantasia dei siciliani nella preparazione del cibo è davvero inarrivabile, sia che si tratti di street food che di cucina raffinata. Resta un’annosa questione, quella della declinazione, al maschile o al femminile, di uno dei prodotti alimentari più conosciuti di tutta l’isola: arancino o arancina? Nel dubbio, facendo l’ordinazione al bancone di un bar, ho troncato la vocale finale biascicando fintamente, perché su certe cose da queste parti non è lecito scherzare, proprio come succede a Roma quando si sente dire della carbonara fatta con la pancetta anziché con il guanciale: si rischia seriamente la lite. Perché noi italiani siamo così: bravissimi a trasformare la farsa in tragedia ma purtroppo eccellenti anche nel viceversa. Un tratto del nostro carattere per il quale pare essere sempre tempo.
Il garrito incessante di un gabbiano riecheggia oltre i faraglioni di mezzogiorno illuminati da un accecante sole pomeridiano, mentre con un piccolo colpo di retromarcia lascio che la catena dell’ancora si distenda opportunamente. Cala Brigantina offre un ridosso sufficiente dalla leggera tramontana prevista per questa notte, e anche dai modesti residui di onda che altrimenti, in assenza di un vento deciso, potrebbero disturbare il riposo notturno.
La bianca scogliera di monte Guarniere, chiazzata di verde da una vegetazione bassa e stentata, incombe a picco sul mare incastonando nella bellezza un ancoraggio che più tranquillo non si potrebbe desiderare: non un solo rumore disturba la quiete assoluta di questo ottobre inoltrato a Palmarola, un’isola meravigliosa che in estate sconta la vicinanza a Roma e lo sciame di barche e gommoni che arrivano da Ponza. Ero qui due mesi fa, nel pieno della stagione turistica e l’atmosfera era di tutt’altro genere.
In uscita da FiumaraPalmarolaIsola in vista!
Fa ancora caldo, decisamente troppo per essere autunno, ma faccio buon viso al cattivo gioco dei cambiamenti climatici e ne approfitto per fare un tuffo in quest’acqua cristallina e tonificante. A parte Piazza Grande, nessun’altra barca a godere di questo incanto di madre natura; i vantaggi del “fuori stagione” che però, viste le temperature, è un fuori stagione solo sul calendario. Probabilmente, il periodo migliore per navigare nel Tirreno è diventato questo: clima mite e pochissime barche in giro, così poche che stamattina ho ottenuto senza difficoltà il permesso di accostare in banchina a Ponza; provateci ad agosto!
Ogni tanto fa capolino una mosca mezzo addormentata che ronza un po’ sottocoperta senza troppa convinzione; lo fa con una lentezza sufficiente a darmi il tempo di prendere la mira con la racchetta elettrica, quella che si usa per le zanzare, ed eliminarne per sempre il fastidio. Altri disturbi non ce ne sono, a parte una barca che arriva in serata e propone la sua compilation musicale a un volume ferragostano. Nella pausa fra due brani, suono la tromba da allarme generale e gli urlo, per favore, di abbassare. Chissà se a sortire l’effetto è la tromba, l’urlo o il “per favore”, fatto sta che immediatamente abbassano e nella piccola baia torna la quiete.
In banchina a PonzaPonzaChe caldo!
Già, la quiete. Una volta era questo uno dei miei obiettivi principali andando per mare; negli ultimi tempi si è aggiunto il fresco. Se il primo scopo può dirsi pienamente centrato durante questa navigazione, il secondo è stato raggiunto solo a tratti. Un paio di giorni fa il termometro sottocoperta ha sfiorato i trenta gradi; incredibile e preoccupante. Non basta il pensiero delle bollette del gas, che in questo modo si alleggeriscono, a consolare.
La quiete, dicevo. Quella meravigliosa sensazione che si prova calando l’ancora in una rada deserta, in una baia protetta, al riparo di un frangiflutti, dopo una navigazione impegnativa, forse una bolina. Si raggiunge il ridosso e tutto all’improvviso si placa, la burrasca resta fuori e il ruggito delle onde arriva ormai ovattato e innocuo. Resto fedele al detto che recita: “di bolina vanno solo i regatanti e i cretini” e, non essendo un regatante, quando mi ritrovo con le vele cazzate a ferro vengo colto dall’atroce dubbio di far parte dell’altra categoria. Ieri, però, non è dipeso da me: le previsioni erano di 10/12 nodi, ne sono arrivati quasi 25 e il mare si è inevitabilmente alzato. E allora, giunto dopo alcune ore a destinazione, mi sono goduto ancora di più la quiete dell’ancoraggio.
E quieta, nella notte, dondola Piazza Grande sul suo calumo mentre il tonnetto che strada facendo ha abboccato alla traina finisce parte in padella con pomodorini e capperi e parte a carpaccio con una scorzetta d’arancia e finocchietto selvatico. Se ne spande il profumo, in questo caldo autunno che conserva ancora piacevoli sentori d’estate.
Frontone desertoPunta della guardiaTrasparenzaPalmarola
Il bagaglio di un’ospite, smarrito a Termini, ha ritardato la partenza di ventiquattro ore ma anche quest’anno Piazza Grande è salpata verso il mare aperto discendendo fino alla foce il fiume che l’inverno la custodisce, fino a vedere spalancarsi davanti a sé quella sterminata distesa d’acqua salata che, come nessun’altra medicina al mondo, riesce ad curare l’anima di chi naviga. Un poco di attenzione nel passaggio fra i fanali rosso e verde per via della secca fangosa non segnalata che si è creata recentemente lungo la riva destra poi, una volta fuori, un vento leggero al traverso ci dà il giusto passo sulla rotta che conduce verso sud. Sarà una navigazione nelle acque domestiche del Tirreno centrale, forzatamente tranquilla per via di un problema di salute che al momento mi sconsiglia di affrontare rotte impegnative come in passato; l’importante, però, è prendere il mare, comunque sia. C’è una ragione in più, quest’anno, che preme insistentemente in questa direzione: il caldo asfissiante che da oltre due mesi sta soffocando le città italiane. Parto anche per cercare un po’ di refrigerio.
Che sia conseguenza dell’azione dell’uomo o semplicemente una fase ciclica della vita del globo terrestre, il riscaldamento globale è un imprescindibile fatto con cui bisogna fare seriamente i conti: a livello politico con azioni che possano limitarlo o mitigarne gli effetti sulla vita del pianeta e delle persone, a livello personale perseguendo stili di vita che consentano di contenere la sofferenza fisica che spesso genera. Sì, sofferenza fisica: almeno per me, di questo si tratta. Vuoi per l’età non più verde, vuoi per il tanto caldo che negli ultimi dieci anni ho preso navigando in zone dove le temperature sono elevate (Andalusia, Nordafrica, Turchia), da un po’ di tempo quando il termometro supera i trenta gradi avverto un disagio che va oltre il semplice fastidio: non mi piace vivere perennemente bagnato di sudore, dormendo male e poco, cercando di evitare, per quanto possibile, qualunque lavoro o attività fisica che possano peggiorare la sudorazione, e patendo anche in termini di concentrazione mentale. Una volta il disagio era limitato a due o tre settimane l’anno, ora sono tre o quattro mesi: troppi, davvero troppi. Si parla sempre più spesso di migrazioni climatiche e se la tendenza attuale verrà confermata credo che saremo in molti a dover considerare la cosa. Al momento, intanto, cerco un po’ di sollievo nella brezza che spinge Piazza Grande facendola avanzare a circa quattro nodi. Calo anche la traina, dopo aver rifatto il nodo al Rapala per evitare strappi delle prede dovuti all’usura del filo di nylon.
Zannone, Ponza, Gaeta fiammeggiante
Agosto è il mese delle ferie degli italiani e per questo mi aspetto porti e rade affollate, anche se alcuni amici in giro già da un po’ mi segnalano vuoti sorprendenti e inaspettati: forse la crisi economica ed energetica si stanno veramente facendo sentire anche nelle fasce di popolazione meno disagiate. Ma i nostri connazionali al Ferragosto non rinunciano, quindi per quel periodo prevedo il consueto casino. Che poi, il problema non sta tanto nell’affollamento (tutti hanno il diritto di navigare) quanto nella qualità delle persone che si incontrano per mare ad agosto. La sensazione è che i più si catapultino sulle proprie imbarcazioni trascinandosi tutte le nevrosi proprie delle città, cercando una prepotente affermazione di sé attraverso un’inutile aggressività che si manifesta negli incroci di rotta o in certe assurdi comportamenti quando si sta all’ancora. Precedenze non rispettate, gommoni che sfrecciano in planata fra le barche alla fonda, grossi motoscafi che sfiorano le barche a vela a folle velocità alzando onde ripide che spesso provocano danni oltre che ovvio disagio. Quest’anno, mentre gironzolavo cercando il punto giusto per calare l’ancora, un tale già ancorato ha iniziato a recuperare la propria catena frettolosamente e, richiamando la mia attenzione, mi ha detto: «Non ti mettere lì perché mi ci devo mettere io», indicando un punto indefinito della superficie del mare. In pratica, «Il parcheggio l’ho visto prima io» in versione nautica! Le volte che hanno calato l’ancora a pochi metri da Piazza Grande, ormai non le conto più, limitandomi ad affrontarle con rassegnata pacatezza. Il mare è rispetto, solo con la cultura del mare ci può essere spazio per tutti. Ma forse non solo in mare.
Scene di mare
A Ponza, impossibile trovare un posto al pontile: ma con quei prezzi, se pure fosse… Per fortuna c’è Khaled, che per dieci euro fa il taxi-boat con le barche alla fonda al Frontone, la spiaggia vicino al porto. Puntuale, efficiente, cortese, offre un servizio utile che permette, a chi lo desidera, di fare comunque due passi a terra. E, sempre per fortuna, Piazza Grande ha due pannelli solari che nelle giornate estive erogano quasi 1 kWh al giorno, consentendo ai servizi di bordo di funzionare regolarmente senza la necessità di andare in banchina per ricaricare dalla rete elettrica; alla faccia di Putin! Sempre belle le Pontine, ed effettivamente noto meno barche del solito per il periodo. Certo, il via vai di gommoni e barchini è quello consueto ma alle sette di sera fanno tutti ritorno in porto restituendo quiete alle rade che spesso impestano con il loro rumoroso sciamare, apparentemente vacuo e senza meta. Non trovo però un po’ di refrigerante sollievo: anche se le temperature la sera calano, la barca restituisce nella notte il calore accumulato durante il giorno rendendo poco confortevole il riposo notturno. Per dare un’idea: di giorno le stoviglie riposte negli stipetti sono calde al tatto; mai successo prima di quest’anno.
Nel Golfo di Napoli
Ci spostiamo verso sud, facendo tappa a Torre del Greco. Sono stato diverse volte a Napoli, anche in barca, ma non conosco nessuna delle cittadine della fascia costiera, per questo accolgo con favore la disponibilità di un’amica, ospite in passato di Piazza Grande, a trovarci un posto in porto. Una sosta utile anche per fare cambusa e rifornimento di acqua. La città non si può certo definire bella ma, come un po’ in tutta la zona, la carica di umanità e simpatia delle persone fa passare in secondo piano il degrado e la sporcizia (anche se venendo da Roma non sono nella posizione più adatta a notare certe cose). Che il posto non sia proprio tranquillo lo attesta anche la curiosa abitudine di proteggere i citofoni con una grata di ferro. Mangio uno dei più buoni casatielli della mia vita che aggiunge una grassa tessera al mosaico adiposo che si va componendo sul mio addome. Ma d’altra parte, l’eterno dubbio resta irrisolto: meglio essere magri o felici? Ci penso su spalmando di alici il tipico pane torrese a base di grano duro, secondo la ricetta locale. Poi molliamo le cime alla volta dell’isola più bella del Tirreno e forse d’Italia (insieme a Pantelleria).
Procida, La Corricella
Volendo definire Procida con un solo termine, direi verace. A differenza di quasi tutte le altre piccole isole italiane non si è trasformata in un’industria per il turismo di lusso ma conserva quei tratti paesani che solo nell’entroterra continentale si riescono a volte ancora a trovare. Alcuni angoli, poi, fatti di piccoli archi e vicoli a gradini, rasentano l’iconografia immaginaria della marina dove, prima o poi, ci si aspetta sbarchino i Turchi annunciati dal suono a distesa delle campane. A sventolare sulle teste dei turisti, i panni stesi alle finestre: una delle immagini più belle da vedere nei centri storici ormai tutti invasi dalle insegne dei marchi internazionali dell’alta moda. Il porto è un salasso: 130 euro per una notte. Ma c’è mio figlio a bordo, ci tengo a fargli vedere l’isola. Alla Corricella si commuove anche lui di fronte a tanta bellezza: qui era il bar di Troisi nel film Il postino (la casa, invece, era a Salina). Assaggiamo le lingue di Procida, un dolce da colazione a base di crema pasticcera: niente male davvero
Istantanee procidane
Sfiorata Ischia, dove passiamo un paio di notti alla fonda, ci muoviamo alla volta della Costiera amalfitana, costeggiandola interamente e godendo di un panorama davvero unico. Colpisce passare dal disordine dell’area napoletana alla cura maniacale che si nota in ogni casa che si affaccia sul mare in questo tratto di costa. Purtroppo il traffico è davvero intenso, spesso insostenibile: un viavai incessante di piccoli traghetti e soprattutto di motoscafi con enormi motorizzazioni che fanno gite giornaliere con i turisti, per lo più americani e giapponesi, sfrecciando fra le barche all’ancora e creando un moto ondoso incrociato che rende impossibile anche solo fare un bagno intorno alla propria barca. Mare Forza yacht, praticamente (lo so, la forza è del vento, ma mi sia concesso). Se crisi c’è, non è da queste parti.
Magica Costiera (più castello aragonese a Ischia)
Per trovare un po’ di quiete ce ne andiamo a Salerno. Se c’è una cosa che mi piace è arrivare in barca nelle grandi città. Intendiamoci, non che non mi piacciano i porticcioli pittoreschi delle isolette (stile Grecia, per capirsi), ma entrare in una grande città che magari trasuda storia da ognuno dei palazzi che compongono la linea di edifici del fronte mare ha un fascino per me incomparabile. A Salerno sono già stato tanti anni fa, con la barca precedente, e tornarci non fa che rinnovare il ricordo piacevole che ne avevo. Il centro storico oltre che molto bello è davvero ben tenuto; pulito, curato, ordinato ma non per questo non vissuto. Verace anche lui. Peccato solo per l’orribile costruzione a esedra, eretta recentemente proprio sul porto commerciale e non ancora ultimata: sproporzionata rispetto agli edifici circostanti, non ha uno stile compatibile con le costruzioni preesistenti; anzi, non ha proprio uno stile, e le colonne che la adornano su tutti i piani appaiono grossolane quanto inutili, sia funzionalmente che esteticamente.
Una cosa colpisce navigando in Campania: la musica. Ormai da anni, tutti – bar, esercizi commerciali o privati cittadini – si sentono in dovere di diffondere la loro musica (musica? Mah!) urbi et orbi ad un volume da discoteca. Non c’è rada o porto che in estate non abbia la sua martellante e insulsa colonna sonora: un disturbo acustico permanente, a tutte le ore, soprattutto serali. Perché il sacrosanto diritto di alcuni di divertirsi debba prevalere sul diritto di tanti alla quiete e al riposo non lo capirò mai, ma almeno in Campania, invece del solito estivo tormentone ispanico o di un anonimo tunz-tunz, c’è musica napoletana, melodica, arrangiata, suonata da musicisti capaci. Una sera, cenando in una trattoria in un vicolo, siamo stati allietati durante tutto il pasto dalle canzoni di Renato Carosone. Quale migliore sottofondo per un piatto di linguine con pesce spada e friggitelli (un accostamento ardito ma vincente)? E al momento dell’amaro, inaspettatamente, è arrivata la melodia di Era de maggio, cantata da Roberto Murolo: un’immortale poesia in musica!
Salerno
Di fresco, purtroppo, neanche l’ombra (è il caso di dirlo!), né in navigazione né tantomeno a terra, ma quanta poesia si respira da queste parti, in ogni luogo! Siamo lontani anni luce dall’asettico aspetto di molte rinomate località di vacanza, confezionate a misura di turista dopo una valutazione preventiva del suo portafogli. Qui in Campania tutto ancora ha il sapore della vita quotidiana e non del baraccone stagionale; resiste un’identità che è riuscita a non omologarsi pur stando al passo con i tempi e soprattutto senza chiudersi alle contaminazioni esterne. Non è un caso che i bar mettano spesso musica di Pino Daniele: identità e contaminazione, appunto, canzone napoletana e ritmi jazz/blues.
Torno in barca con uno dei migliori equipaggi che abbia mai avuto, simpatico e capace; il clima a bordo è stato sempre sereno, amichevole, collaborativo, sia sopra che sottocoperta. Aspetto che tutti vadano a nanna poi metto la testa fuori dal tambucio: una falce di luna spunta dietro la collina, le luci delle case si riflettono sulla superficie appena increspata del mare e una lievissima brezza spira da terra: tutto appare armonioso e silenzioso. È ancora pace, è ancora amore; anche se fa davvero tanto caldo.
Alcuni giorni fa c’è stata una forte tempesta sulla costa ovest della Corsica che ha causato l’affondamento di parecchie barche. Avendo letto su Facebook alcuni suggerimenti piuttosto pittoreschi su come affrontare situazioni del genere, ho scritto un articolo per provare a fare un poco di chiarezza e che Solovela ha avuto la bontà di pubblicare.
L’odore inconfondibile della macchia mediterranea si mescola a un vago effluvio di kerosene sprigionato dai motori ormai spenti dell’aereo che mi ha portato, per l’ennesima volta nella mia vita, in terra sarda. Mi basta allontanarmi di qualche passo dal velivolo e avanzare verso l’uscita per liberarmi dal retrogusto fastidioso di idrocarburi e inalare con pienezza il profumo delle piante resinose che, insinuandosi fra le rocce granitiche o lo scisto, ricoprono l’isola resistendo con eroica pervicacia all’azione devastante del vento salato. Ogni luogo ha una sua caratteristica, un tratto che lo connota in modo particolare se non unico; la Sardegna, fra gli altri, ha certamente il profumo del lentisco, del mirto, del cisto, dell’elicriso, del ginepro, del rosmarino, che confondendosi fra loro danno vita a una fragranza che in estate è così forte e inebriante da essere avvertibile, arrivando via mare, anche prima di avvistare terra.
LentiscoMirtoElicriso
L’aria è fresca, tonificante, quasi frizzantina, resa tersa dalle piogge dei giorni scorsi e dal maestrale, che soffia deciso e che ha reso l’atterraggio un po’ ballerino. In cielo, sparsi a distesa fino perdita d’occhio, piccoli e grandi cumuli sembrano promettere un ripetersi prossimo delle precipitazioni atmosferiche mentre si muovono veloci lungo la direttrice del vento. Anche la temperatura non rende giustizia al calendario in questa strana primavera che, come spesso negli ultimi anni, sembra uno strascico di inverno prolungatosi oltre i normali canoni meteorologici.
In Sardegna mi sento a casa: nei decenni è stata per me terra di vacanze, di amicizie, di amori, di avventura, di mare, di vela, di pesca, di cultura e di scoperte antropologiche. Venirci in aprile, quando l’orda vacanziera non ha ancora invaso ogni metro quadrato di costa e gli abitanti delle località turistiche non hanno ancora messo in scena lo show estivo fatto di locali alla moda e intrattenimento stereotipato con cui si guadagnano – giustamente – da vivere, offre il beneficio ulteriore di godere del privilegio della quiete. Un breve tragitto stradale mi conduce fino a Palau dove mi aspetta il traghetto per la Maddalena.
Testa di polpoGiardinelliGiardinelli
Quale che sia il mezzo che ci porta, l’arrivo su una piccola isola è sempre un momento emozionante. Si ha il senso della meta raggiunta, dell’arrivo in un microcosmo che il mare protegge da tutte le brutture del mondo – e in questo momento, fra pandemia e guerra, il periodo è decisamente brutto – e che in una qualche misura proteggerà anche noi, isolandoci. Razionalmente sappiamo che non esistono isole felici, soprattutto in questa nostra epoca globalizzata e interconnessa a livello planetario, però a volte si ha bisogno di pensare che non sia così.
L’incomparabile bellezza della Maddalena e del suo arcipelago è cosa nota, e perdersi con lo sguardo fra i suoi colori accende l’anima: il mare che vira dal blu al turchese, le varie tonalità del granito, tra il rosa e il grigio, e il verde intenso della macchia mediterranea, ancora più vivido in primavera, fra cui spiccano il giallo della ginestra, il bianco dell’infiorescenza del cisto e dell’asfodelo, e i tappeti di carpobrotus, una pianta piuttosto invasiva conosciuta anche con il nome di fico degli ottentotti (vai a sapere perché) e che produce dei fiori a petalo di un colore viola molto forte. Chi è abituato alle distese brulle, al giallo spento delle sterpaglie estive resta facilmente a bocca aperta di fronte a questa stupefacente esplosione di natura e di vita.
Fiori di carpobrotusFiori di cistoFiori di asfodelo
Dai punti più alti si gode della vista delle tante isole, isolette e scogli che punteggiano la distesa azzurra del mare fino alla costa meridionale della Corsica, rendendo il panorama variegato come in pochi altri posti in Mediterraneo: ovunque si volga lo sguardo, non c’è un punto in cui il paesaggio appaia piatto e monotono. Avvicinandosi invece alle rive, si gode dell’esclusività di spiagge altrimenti affollate di bagnanti; la sabbia è spesso modellata dal vento che forma le tipiche piccole coste anziché rimestata in modo disordinato dai passi di migliaia di persone. C’è un qualcosa di poetico nell’osservare questo meraviglioso spettacolo ascoltando il leggero sciabordio della risacca sulla battigia appena sovrastato dal sibilo del vento.
La Maddalena ha anche un bellissimo centro abitato, antico e aggraziato, elegante e curato; anche qui la mancanza di turisti dà leggerezza e fruibilità al luogo. A differenza di molte altre piccole isole italiane, questa non si è votata esclusivamente al turismo, grazie anche alla consistente presenza di personale della Marina Militare che qui ha da sempre un importante presidio. La collocazione strategica, al centro del Tirreno, rende quest’isola un punto formidabile di controllo del traffico navale fin dai tempi antichi: Horatio Nelson, tra la fine del 1803 e il 1804, tenne ancorata qui la sua flotta per alcuni mesi per controllare i francesi prima di spostarsi a capo Trafalgar dove, pur vittorioso, perse la vita. La leggenda narra che si invaghi di una bella maddalenina, Emma Liona, ma in realtà il nome è una semplice italianizzazione dell’amante dell’ammiraglio, l’inglese Emma Hamilton, che da nubile faceva Lyon di cognome.
A spasso per l’isolaA spasso per l’isolaA spasso per l’isola
Prima di lui, nel 1793, giunse un giovane Napoleone che cercò di prendere l’isola ma si trovò ad affrontare l’inaspettata resistenza dei maddalenini, capeggiati dal luogotenente Domenico Lioni detto Millelire, che cannoneggiarono la flotta francese fino a costringerla alla fuga. A ricordo dell’impresa, la piazza che si affaccia su cala Gavetta si chiama XXIII febbraio, giorno in cui si svolsero i fatti e ospita un monumento a Millelire: una stele sulla cui sommità è posta una palla di cannone sparata allora dai francesi verso l’abitato.
Ma il personaggio che spicca su tutti nell’arcipelago della Maddalena è certamente Garibaldi, che qui scelse di finire i suoi giorni, sull’isola di Caprera, fra la gestione della fattoria che aveva messo in piedi e le tresche con le donne di servizio della casa. E qui venne sepolto, anche se qualcuno sussurra che in realtà, nel rispetto della sua volontà, la salma sia stata segretamente riesumata e cremata. La sua casa è visitabile e interessante è anche la visita al Compendio garibaldino, un’antica fortezza riadatta a museo del Risorgimento, dove è possibile ripercorrere tutti i momenti salienti del processo politico e miliare che ha portato all’unità d’Italia.
Colori sardiColori sardiColori sardi
Ed è incredibile come un’isola così piccola possa essere stata tante volte al centro della Storia: nel 1943 venne condotto segretamente qui Benito Mussolini, deposto il 25 luglio dal Gran consiglio del fascismo, per nasconderlo nel timore che i tedeschi lo liberassero, come poi avvenne dopo che fu trasferito sul Gran Sasso, in Abruzzo. Venne fatto alloggiare a villa Weber, una costruzione in stile moresco fatta edificare da un nobile inglese nella seconda metà dell’Ottocento in località Padule, ma la sua presenza venne notata dagli isolani e rapidamente ne giunse voce ai militari tedeschi che organizzarono un colpo di mano per portarlo via. Le autorità italiane, però, ebbero sentore che il nascondiglio fosse stato scoperto e furono più leste: all’alba del 28 agosto un idrovolante decollò dallo specchio acqueo antistante l’ammiragliato con a bordo il prigioniero. Poche ore dopo, i tedeschi travestiti da marinai italiani, si recarono a villa Weber con la scusa di consegnare della biancheria lavata ma trovarono solo un carabiniere di guardia che li avvertì che in casa non c’era ormai nessuno. La villa oggi è in totale abbandono e se ne scorge solo una torretta dalla strada che da Padule sale verso la collina.
Passeggiando la sera in paese si gode del fresco e della tranquillità: in giro quasi solo maddalenini e marinai, pochissimi i turisti, pochi gli avventori di bar e ristoranti che nel giro di un paio di mesi saranno invece pieni fino a scoppiare. Il bello della Maddalena è anche questo: essersi saputa mantenere nella sua identità senza lasciarsi snaturare completamente dal turismo, senza chiudere completamente i battenti per dieci mesi l’anno nella pigra attesa della stagione estiva. Una Sardegna nella Sardegna, un’isola nell’isola, una quiete vitale quale alternativa alla frenesia.
Il clangore dell’ancora del traghetto, che lasciata cadere di peso trascina la sua grossa catena a maglia rinforzata e la fa scorrere nell’occhio di cubia, desta il porto dal torpore autunnale. Il grosso mezzo ruota su se stesso al centro del bacino, davvero a pochi metri da Piazza Grande ormeggiata sul molo opposto, e con un breve ruggito del motore e il ribollio delle acque intorno porta la poppa in banchina. La manovra provoca una vibrazione che che si ripercuote sulla mia piccola imbarcazione facendo stridere le cime di ormeggio al ritmo della risacca.
La pioggia ha cessato da poco di cadere, il cielo è ancora grigio ma piccoli squarci di azzurro in lontananza promettono momenti di sole nelle prossime ore. La temperatura, comunque, è mite già così. Il basolato del molo, sgombero di persone come mai in estate, è ricoperto da un sottile strato di acqua che qua e là forma qualche piccola pozzanghera. Due uomini in divisa parlano tra loro di fronte ai mezzi navali dei rispettivi corpi di appartenenza, ingannando forse il tempo nella vacuità di incombenze urgenti.
Le isole minori hanno due volti: quello estivo, vacanziero e confusionario, e quello invernale, silenzioso, taciturno, quasi letargico. Andarci fuori dalla stagione turistica, un tempo ne offriva un’immagine arcaica dove emergevano stili di vita ancestrali che il clamore non permetteva di notare. Si potevano ritrovare ritmi di vita più lenti di quelli cittadini o apprezzare le piccole cose, come perdersi in chiacchiere con un locale che disponeva in abbondanza di quella ricchezza che chi vive in città non ha più: il tempo. E con esso la volontà e il piacere di donarlo a un forestiero.
Negli ultimi decenni il turismo – e tutto ciò che gli ruota attorno – ha soppiantato qualunque altra attività economica, e le piccole isole si sono ritrovate così a vivere ogni anno tre mesi di frenesia e nove di attesa che sconfina a volte nella noia. La pesca, complice anche il depauperamento degli stock ittici, è stata abbandonata quasi ovunque e spesso è tenuta in vita dall’ostinazione di alcuni appassionati, ridotta a mera testimonianza del passato. Altre attività, generalmente, nelle isole molto piccole se ci sono sono storicamente sempre state marginali.
Il paese è quasi completamente serrato. La sfilza interminabile di pub, ristoranti, bar, pizzerie e quant’altro ha le saracinesche abbassate e gli ingressi sprangati. Le pergole antistanti, senza tavoli né sedie risposti per proteggerli dalle intemperie, appaiono ingombranti e inutili di fronte al mare. I pochi esercizi commerciali aperti operano a regime ridotto. Tra questi, un paio di negozi di alimentari, la farmacia, un ferramenta, una piccola rivendita di materiale edile: in pratica quelle stesse attività che durante il lockdown sono state le uniche lasciate aperte dal governo perché ritenute indispensabili per la sopravvivenza.
Il destino di questi luoghi, tanto preziosi quanto fragili, sembra ormai segnato, al pari di quello di tanti centri storici delle città italiane: la loro bellezza è anche la loro condanna, perché una politica avida e miope li ha trasformati, o ha lasciato impunemente che si trasformassero, in parchi a tema dove l’elemento umano e sociale è stato messo stupidamente a margine. Un’isola, una citta, un qualunque posto, esistono in quanto tali quando le persone ci abitano, li animano, gli conferiscono un’impronta caratteriale propria, non quando si limitano a inscenare uno spettacolo stagionale per gli avventori.
In mancanza di questo, tutti i luoghi finiscono per somigliarsi e alla prima crisi del turismo, come si è visto a volte durante la pandemia, appariranno come la maschera triste di uno show senza più spettatori. Ribellarsi alla trasformazione del mondo in una Disneyland globale vuol dire salvare i luoghi e consegnarli vivi alle generazioni future.
Rientro a bordo dopo aver fatto un po’ di spesa al supermercato. Sul corso quasi deserto un paio di persone che camminano in senso opposto al mio mi scrutano curiose: le buste della Conad mi indicano implicitamente come uno che abita qui e loro sembrano domandarsi chi sia quest’uomo sconosciuto che ha sull’isola un posto dove cucinare, quindi una casa. I nostri sguardi si incrociano: ricambio il sorriso e il cenno di saluto, anche se la mia casa in questo momento è il mare.
Non ho mai vissuto stabilmente in barca, pur avendoci trascorso lunghi periodi, anche cinque o sei mesi consecutivi. Mi piace però quando sono ormeggiato in un porto e mi preparo per uscire come se uscissi da casa. Uno sguardo per controllare luci e gas, le chiavi e il cellulare nelle tasche (ultimamente, ahimè, anche la mascherina), poi chiudere il tambuccio e via per le strade della città.
Un centro abitato lo senti tuo se ci abiti, se hai la casa lì; e la barca altro non è che una casa che si sposta con te e ti segue ovunque tu vada. Se poi la stagione turistica è definitivamente conclusa, la barca dà ancora di più la sensazione di una piacevole routine quotidiana, trasmette un senso di appartenenza al luogo che il soggiorno in una qualunque struttura turistica non potrà mai dare.
Omnia mea mecum sunt, chiosava Seneca: tutte le mie cose sono con me. Lui lo diceva per ribadire la sua estraneità ai beni materiali, chi va per mare invece può sposare felicemente questo detto per la ragione opposta.
Ponza, posto libero in transito; tra le cose belle del mare d’inverno.