De Sardiniae circumnavigatione

Soffia a circa venti nodi il maestrale che spinge Piazza Grande in modo deciso quando le rocce levigate di Capo Testa sfilano alla mia dritta. Orzo leggermente e dirigo la prua verso l’isola di Cavallo, per attraversare perpendicolarmente le Bocche di Bonifacio e concludere così la circumnavigazione in senso orario della Sardegna, completata nel termine delle cinque settimane previste. C’è ovviamente onda da ovest, che però esalta più che infastidire; sono le condizioni ideali per una veleggiata spumeggiante.

Non sempre, durante questa rotta, il vento e il mare mi sono stati favorevoli, anzi spesso mi sono trovato a percorrere lunghi tratti bordeggiando controvento oppure a motore. Solo una volta, nel golfo di Oristano, una forte maestralata mi ha costretto ad una sosta di tre giorni. divisa fra porto e rada (un meraviglioso ancoraggio di fronte alle rovine fenicie di Tharros). Tutto era comunque stato annunciato con largo anticipo, quindi nessun problema o difficoltà, se non l’impossibilità di fermarsi nel bel tratto di costa precedente, quello che va da Portoscuso a Capo Frasca, interamente esposto ai venti dei quadranti occidentali.

Forse è stata una delle poche volte in cui i siti meteo hanno indovinato la previsione: ne consulto quotidianamente diversi e ognuno dice la sua. Raramente concordano e molto spesso nessuno ci azzecca. Sarà per il riscaldamento globale, sarà per il caldo torrido di questa estate, ma programmare la navigazione giornaliera è stato spesso un terno a lotto: nel dubbio, sempre alla ricerca di un ridosso sicuro da tutti i quadranti, cosa ovviamente impossibile nella maggioranza dei casi. Settecento miglia percorse nell’incertezza. Beh, non sempre, ma spesso.

È stata una bellissima esperienza, durante la quale ho rivisto posti che avevo frequentato da terrestre molti anni fa, girando l’isola in auto e con il gommone al traino per fare pesca subacquea, e ritrovandoli quasi sempre come li avevo lasciati. Tra le poche differenze che mi sono saltate agli occhi, le molte spiagge attrezzate, un fenomeno che una volta in Sardegna era piuttosto raro. Inutile dire che in un’isola che deve molto del suo fascino all’essere selvaggia, il lido con gli ombrelloni tutti uguali e musica banalissima, sparata a tutto volume alle dieci del mattino, svilisce inevitabilmente l’ambiente. A Villasimius è stato così, ma anche altrove l’atmosfera che ho percepito è stata quella del parco divertimenti estivo. Ognuno fa le vacanze come vuole; a me, però, queste cose fanno fuggire a gambe levate.

Molti mi avevano messo in guardia dicendo che, abituato alla solitudine dell’Egeo e del Mar Nero, mi sarei trovato malissimo. Invece devo dire che a parte il tratto di costa che va da Capo Testa a Cala Brandinchi, più alcune altre piccole aree come Stintino o le calette del Golfo di Orosei, ho sempre trovato ancoraggi tranquilli e poco frequentati. Un paio di nomi: Capo Comino, sulla costa est, e Cala Piombo su quella meridionale. Quest’ultima è zona militare e la navigazione è tollerata solo in estate.

Ovviamente lungo la costa nordorientale la situazione è ben diversa, tanto che lo stato del mare è perennemente “Forza yacht“, determinato cioè dall’incessante via vai delle grandi barche a motore (che poi, dove andranno con tutta quella fretta?), le quali provocano ripide onde incrociate che disturbano l’ancoraggio. Per fortuna verso sera rientrano puntualmente in porto e tutto torna placido.

In sostanza, nauticamente parlando, un po’ tutta la Sardegna non è poi così affollata come potrebbe, fatta esclusione per le settimane tra la metà di luglio e il venti di agosto all’incirca. Una pacchia per chi la ama e ha la possibilità di visitarla al di fuori di quel periodo, anche perché i prezzi degli ormeggi subiscono una salita verticale durante l’alta stagione. Il turismo di massa è spesso invasivo, poco rispettoso e degradante, e la Sardegna ha saputo tenere alto il livello dei suo ospiti. Penso però che una stagione turistica più lunga porterebbe ricadute positive sull’occupazione. La Grecia è piena di diportisti nordeuropei da maggio a ottobre; forse, incentivandoli in qualche modo, alcuni di essi potrebbero dirottare da queste parti la loro navigazione.

E comunque di pesce in Sardegna ne è rimasto davvero poco (anche se certamente più che nei mari greci), forse tanto varrebbe imporre il blocco totale della pesca per un paio d’anni, nella speranza che gli stock ittici si riformino e magari ritorni anche remunerativa la pesca professionale. Quella hobbystica, per quanto mi riguarda, quest’anno è andata piuttosto male sia con la traina che con il fucile, anche se un paio di volte solo per colpa mia: ho sbagliato mira salvando involontariamente la vita a due belle cernie.

La cosa che un po’ mi spaventava della Sardegna è il costo dei porti. Per quanto non senta affatto il bisogno di mettere le cime in banchina tutte le sere, ogni tanto bisogna farlo: vuoi per fare rifornimento d’acqua, vuoi per fare cambusa, vuoi per imbarcare o sbarcare qualcuno. Con un po’ di attenzione sono riuscito sempre a pagare cifre accettabili, nell’ordine dei trenta/quaranta euro. La sosta più cara è stata a Marina Piccola a Cagliari, dove ne hanno voluti sessanta. Ovviamente tra Palau e Tavolara i prezzi sono molto più elevati, come pure a Villasimius e a Marina di Capitana: ma lo sapevo e ho evitato accuratamente di fermarmi. La sorpresa positiva è stata invece Stintino, dove mi aspettavo un salasso e invece ho pagato trentasette euro. Voci di banchina mi hanno riferito che a Porto Cervo si sta sui trecentocinquanta a notte, ma a me che mi frega di Porto Cervo? Mai stato tipo da Costa Smeralda, anzi sono decisamente agli antipodi di quella fauna umana, di quel modo di vivere il mare.

Tornare in Sardegna dopo anni di Grecia ha avuto anche un altro interessantissimo risvolto: la gastronomia. Adoro i greci e la Grecia ma la loro cucina si riduce a cinque o sei piatti, sempre quelli in qualunque località o isola, e alla fine vengono inevitabilmente a noia. Si aggiunga anche che, nonostante sia una terra di pastori e allevatori di bestiame, la loro produzione di formaggi e salumi è piuttosto limitata (feta ovunque) e di qualità scadente, i salumi soprattutto sono davvero di scarsa qualità. In Sardegna, invece, la produzione di entrambi è variegata e di ben altro livello e io ne ho approfittato ogni volta che ho potuto, accompagnando il tutto con pane carasau (anzi, guttiau) e annaffiando con l’ottimo Cannonau, reperibile ovunque a prezzi ragionvoli. Va da se che a bordo o a terra non sono mancate le serate a base di porceddu o piatti di mare. Gli equipaggi che si sono alternati in queste settimane hanno sempre gradito e nessuno si è mai lamentato di ciò che è stato messo in tavola o nel bicchiere.

Il pozzetto di Piazza Grande è stato quest’anno parecchio conviviale. Molti gli ospiti a bordo: vecchi e nuovi amici, neofiti ed esperti, marinai e vacanzieri, che hanno portato il loro sorriso e la loro simpatia. Alcuni hanno portato anche da bere, per cui l’allegria non è mai mancata. Tanti anche gli incontri in banchina: molte conoscenze virtuali, persone con cui sono in contatto da anni per via telematica, sono diventati un volto reale. Ne ho trovati un po’ dappertutto, dividendo con tutti un caffè, una birra, una chiacchiera o una serata. Situazioni che fanno rivedere certi giudizi negativi su Facebook e i consessi virtuali.

Il maestrale ha preso a soffiare più forte. Mi ridosso dietro l’Isola Piana, cerco una chiazza di sabbia e calo l’ancora. Trovo anche qui una barca di amici, e con una birra ghiacciata festeggiamo l’incontro. Io festeggio anche la fine del periplo della Sardegna. La circumnavigazione della Corsica mi attende.

PS Sul numero di luglio di SVN – Solo Vela è stato pubblicato un articolo da me scritto su Gibilterra e la navigazione atlantica fino a Lisbona. Chi volesse leggerlo lo trova qui: http://magazines.solovela.net/svn-36/59175365 a pagina 93.

Un nuovo libro per Piazza Grande

Il mio editore si ostina a pubblicarmi ed io mi trovo costretto a continuare a scrivere. Dopo Rotta a Levante, ecco Rotta a Ponente
Racconta la navigazione che ho fatto qualche tempo fa, dalla Sicilia al Portogallo: un piccolo assaggio di Atlantico per Piazza Grande, la mia amata barchetta, e me. Oltre ai porti e le città che ho toccato, ho cercato di descrivere l’emozione che piano piano è montata dentro di me uscendo per la prima volta dallo Stretto di Gibilterra, fuori da quella specie di guscio protetto che è il Mediterraneo. Insomma, un velista qualunque alle prese con la novità di un oceano sotto la chiglia.
Attenzione a fare battute tipo «Te li vuoi fare tutti i punti cardinali?» perché potrei essere tentato da questa cosa!
Chi vuole può leggersi il primo capitolo.

Acquistabile al momento solo su Amazon o presso l’editore. Presto anche su altri siti di vendita online (ibs, La Feltrinelli, Mondadori Store) e presso le librerie nautiche.
Altre informazioni qui:
Rotta a Ponente
Da Marsala a Lisbona
di Luciano Piazza

Edizioni il Frangente
ISBN 978-88-98023-79-0
Pagine 168 + inserto fotografico
Formato 170 x 240 mm

Rais – Simone Perotti


La storia, come è noto, la scrivono i vincitori, e spesso cominciano a scriverla molto prima di aver vinto. Quella dell’Impero Ottomano, vista con l’occhio occidentale, è stata molto spesso semplificata al punto da condensarla nell’espressione “Mamma, li turchi!”, una frase che evoca il terrore di invasioni e devastazioni piratesche sulle nostre coste. La realtà, non appena si cerca di documentarsi un po’, si rivela assai diversa. Innanzitutto, non si trattava di pirati ma di corsari, una differenza non lessicale ma di sostanza: pirati erano coloro che depredavano qualunque nave per tornaconto personale, mentre i corsari agivano su mandato del proprio sovrano e indirizzavano le proprie azioni solo nei confronti dei nemici istituzionali. Era la “guerra di corsa”, ed era combattuta da tutti gli schieramenti: la Superba e la Serenissima, cioè le repubbliche di Genova e Venezia, assalivano le coste anatoliche con le medesime cruente modalità dei corsari turchi.

Tra i più famosi pirati/corsari del Cinquecento c’è Dragut Rais, il protagonista di questo romanzo di Simone Perotti. All’autore va il merito di aver raccontato le vicende di quel periodo in modo onesto, senza alcun pregiudizio ideologico, rifuggendo quelle letture forzate della Storia in chiave contemporanea che vedono (o si sforzano di vedere) i conflitti dei nostri giorni come una riedizione dell’atavica contrapposizione fra Islam e Cristianità. È un libro che racconta di uomini, traccia la loro storia contestualizzandola nella Storia, ne mostra forza e debolezza, pietà e crudeltà, odio e amore, facendoli però sempre restare quello che tutti noi siamo: essere umani. Che non significa minimizzare i crimini o perdersi nell’indulgenza, ma piuttosto cercare di comprendere l’altro, il nemico, anziché limitarsi a demonizzarlo.

La ricostruzione storica è davvero eccellente: un libro così non si improvvisa, ma richiede che per anni si legga, si studi e, perché no, si vada personalmente nei luoghi che fanno da scenario al racconto che, in questo caso, è praticamente tutto il Mar Mediterraneo. Ci sono imperi, battaglie, trame di potere, scoperte geografiche; ma anche vicende amorose, personali e i dubbi esistenziali, questi, sì, decisamente attuali, dei protagonisti. Perché Perotti ha l’indubbia capacità di leggere nell’animo delle persone e di descrivere molto bene ciò che vede; ed ecco, allora, che in certe pagine fa interrogare il lettore su se stesso e quasi lo sprona a tentare nuove strade anziché restare imprigionato nelle proprie paure né, tantomeno, nei propri successi.

È un romanzo a più voci: quelle dei principali protagonisti, le cui vicende vanno progressivamente intrecciandosi in modo indissolubile. Cinquecento pagine che scorrono via senza intoppi, senza mai perdere il ritmo: incessante e ricco di avvenimenti, fatti storici, riflessioni. Quando un libro riesce a traslarti nel suo mondo e a trattenerti lì con la mente durante i giorni che lo hai fra le mani, credo che abbia raggiunto il più grande degli obiettivi. E questo lo fa in modo molto fluido, senza troppi artifici letterari, pur essendo, certamente, un romanzo strutturato in modo non casuale.

Ho conosciuto Simone a Cefalonia, in Grecia, alcuni anni fa, quando casualmente ci siamo trovati ormeggiati vicini con le nostre rispettive barche e abbiamo passato un paio di serate a chiacchierare. Oltre alla passione per il mare e la navigazione, ci accomuna l’amore per quelle terre, la Grecia e la Turchia innanzitutto, e per quelle genti, che continuano a considerare ciò che arriva dal mare come un’opportunità, malgrado dal mare abbiano ricevuto spesso dolore: un’apertura mentale che ha il sapore dell’acqua salata, quella che trasuda copiosa da queste pagine.

Fuga di mezzanotte (seconda parte)


Il destino mescola le carte, ma siamo noi a giocarle.

(B. Moitessier, La lunga rotta)Così, una mattina, intorno alle nove, lasciamo la Bulgaria con vento fresco al giardinetto, viaggiando a circa cinque nodi. Dopo poche ore, al traverso di Igneada, perdiamo il campo al telefono, appena dopo aver segnalato su Facebook che siamo entrati in acque turche. Spero che nessuno si allarmi, perché temo che non lo ritroveremo prima di domattina, essendo costretti a tenerci molto distanti dalla costa per non entrare in uno specchio acqueo riservato alle esercitazioni militari della marina turca.
Nel primo pomeriggio agganciamo la corrente del Bosforo e la velocità sale oltre i sette nodi: troppo, rischiamo di arrivare all’ingresso dello stretto prima dell’alba, cosa che voglio evitare assolutamente. Prima di cena metto alla cappa e ci facciamo un bel bagno in mare e una doccia rinfrescante, poi ripartiamo con velatura ridotta per rallentare l’andatura. Nella notte incrociamo solo qualche nave distante che dirige, come noi, verso il Bosforo ma provenendo da nord, forse dalla Russia. In lontananza si intravedono le luci della costa, oltre al bagliore di Istanbul che anche da questo lato rischiara il cielo a decine di miglia di distanza. E poi le stelle, tante, a brillare nel cielo fino a quando un quarto di luna vermiglio non le spegne riflettendosi sulla superficie del mare.

L’ingresso nel Bosforo

Alle quattro, dopo una navigazione decisamente tranquilla e spedita, accostiamo sulla dritta per dirigere nel canale. Poco dopo torna il segnale al telefono e ne approfitto immediatamente per tranquillizzare i tanti che purtroppo si stanno già impensierendo per questo silenzio durato parecchie ore. Quando siamo a pochissime miglia dal Bosforo, l’alba è ancora di là da venire, mentre la sagoma di una nave militare mi appare nitida subito a est dell’ingresso. Siamo ormai nel risucchio della corrente, presi nel suo vortice che come un imbuto tutto convoglia dentro di sé. Abbiamo ormai solo un piccolo pezzo di genoa aperto e malgrado ciò facciamo quasi tre nodi. Alle nostre spalle, intanto, il castelletto di prua di un enorme cargo si fa sempre più prossimo alla poppa di Piazza Grande, sempre più minaccioso.

Sul ponte sventola bandiera turca

Quando finalmente l’aria si rischiara, il nuovo ponte in costruzione, il terzo che collega l’Europa e l’Asia, scorre sopra di noi: siamo dentro il canale. Malgrado l’ora, diverse squadre di operai sono già al lavoro; lo prendo come un buon segno, un segnale che la normale vita quotidiana sta riprendendo. Una bandiera turca di dimensioni davvero gigantesche sventola attaccata agli enormi cavi d’acciaio che sostengono il viadotto e il vento la scuote producendo uno schiocco secco ogni volta che una raffica la distende. La bandiera in Turchia è sempre stata il simbolo dei kemalisti ed è presente veramente ovunque. Non ho mai visto un’altra nazione con così tante bandiere, sugli edifici istituzionali ma anche sulle colline e negli agglomerati urbani. Sempre nuove, curatissime, di un rosso brillante. I sostenitori di Erdoğan, che in questi giorni hanno invaso le piazze delle città spronati dal loro leader, sventolano anche loro la bandiera con la mezzaluna. Sembrano voler dire di essersi impossessati anche di questo simbolo piuttosto che rifiutarlo in quanto emblema della parte avversa. E allora le bandiere appese oggi, a questo come ai successivi ponti, non capisci più chi le ha messe né cosa vogliano effettivamente comunicare.

All’andata c’era un po’ di traffico nel Bosforo…

Sul diario di bordo annoto freddamente: ore sei, passato terzo ponte; ore otto, passato secondo ponte; ore otto e trenta, passato primo ponte. Come faccio a non essere freddo in una circostanza del genere? Amo Istanbul, passarci in mezzo così in fretta mi sembra quasi una profanazione, la violazione di chi ti ha regalato emozioni profonde e di cui ti ritrovi, tuo malgrado, ad abusare furtivamente. Quando sono al traverso di Santa Sofia ho un tuffo al cuore: l’anima mi sussurra di girare la prua e accostare verso un porto, fermarmi e urlare che nulla è cambiato, ma la mia mano resta salda sul timone e Piazza Grande mantiene la sua rotta; no, non è davvero il caso di rischiare, fermarsi è un’incognita troppo grande, almeno fino a quando la situazione non si chiarirà meglio. Avevo in programma una sosta di una settimana durante la quale avrebbero dovuto raggiungermi i miei figli: scappo invece via, restando con una sensazione di non sazietà che mi fa dire che devo tornare, è un impegno che prendo con me stesso. Quando entriamo nel Mar di Marmara mi volto ancora ad osservare quel profilo magico, fatto di cupole, minareti e grattacieli. Un vaporetto sta correndo da una sponda all’altra della città, sul ponte superiore un uomo si sporge dal parapetto e scruta il mare: un gabbiano volteggia un attimo sulla sua testa e poi se ne va. Come anch’io sto facendo in questo istante.

Come un gabbiano

Sono sempre in contatto con Ahsen che mi tiene aggiornato sulla situazione. Pare che le tensioni si stiano stemperando e la città stia riprendendo i suoi ritmi, frenetici e consueti. Ieri c’è stata perfino una gara di nuoto nel Bosforo. È indubbia la capacità dei turchi di elaborare il lutto, di metabolizzare. Ci sono stati trecento morti, tra cui tantissimi giovani militari di leva; da noi ci sarebbero le bandiere a mezz’asta per decenni, qui si volta pagina e si va avanti. Un comportamento sovrumano o inumano? Un’altra bella domanda che si aggiunge ai quesiti che mi porto dentro da quando la Turchia sta cambiando volto. L’impressione che colgo durante queste ore in cui attraverso il cuore di Istanbul è effettivamente di tranquillità ma a volte il fuoco cova sotto la cenere. Guardo a prua e aggiusto le vele, poi lascio Roberto di guardia e crollo in cuccetta: la strada è ancora lunga.

Punti di vista

Mi sveglio dopo circa tre ore, quando il sole è alto e scalda l’aria che il vento rinfresca. O viceversa. Do il cambio al mio compagno di viaggio, poi apro una birra e un pacco di patatine. Abbiamo vento portante e procediamo a circa sei nodi, sospinti anche da una leggera onda che frange a volte sulla poppa di Piazza Grande. Siamo in mare da circa trenta ore, sempre a vela, sempre con vento favorevole; da un punto di vista nautico è un’esperienza esaltante. Anche nello stretto dei Dardanelli vorrei entrare con la luce del giorno, sia per il traffico navale, generalmente molto intenso, sia perché se dovessi essere abbordato da qualche autorità turca preferirei che non fosse nell’oscurità. Passiamo la giornata bighellonando, per come si può bighellonare su un’imbarcazione di undici metri: riposando, leggendo, chiacchierando, cucinando, mangiando. Come ieri, prima di sera metto di nuovo alla cappa e con una doccia laviamo via la stanchezza e il sudore che ci portiamo addosso. Stabiliamo i turni di guardia e ci prepariamo per la notte che ci attende, con l’occhio sempre vigile per le tante navi che procedono lungo la nostra stessa rotta. Sono le nove di sera e siamo al traverso dell’Isola di Marmara.

“Tu che m’hai preso il cuor…”

Cerco su Internet qualche aggiornamento sulla situazione politica del paese che stiamo attraversando. Pare che la scure di Erdogan si stia abbattendo non sui kemalisti quanto sui sostenitore di Fetullah Gülen, suo ex-alleato e da lui accusato di essere un pericoloso terrorista nonché l’artefice del tentato golpe. In realtà in passato, almeno verbalmente, Gülen ha preso posizione contro il terrorismo islamico, condannandolo apertamente. Qualunque sia la verità, per domani è prevista una grande manifestazione che vedrà l’AKP, il partito di Erdoğan e il CHP, il partito fondato da Atatürk, per una volta insieme in piazza per esigere il rispetto della democrazia. L’impressione è che Erdoğan abbia abilmente messo con le spalle al muro il CHP, costringendolo a schierarsi con lui con il classico ragionamento manicheo: se non state con me, state con i golpisti. D’altra parte, i kemalisti hanno davvero temuto il peggio e pensato di fare la fine dell’Iran; sentire di non essere nel mirino è certamente un sollievo enorme per loro. Il futuro resta incerto, ma forse è meno tragico di quello che si poteva supporre qualche giorno fa.

L’alba

La notte scorre veloce nell’alternanza di sonno e veglia data dai turni di due ore e alle sette di mattina del terzo giorno di navigazione entriamo nei Dardanelli, dopo aver goduto dello spettacolo di un’alba davvero incantevole. Sto sorseggiando un po’ stordito il primo caffè della giornata, quando vedo una motovedetta della Guardia Costiera puntare verso di noi a grande velocità. Mantengo la rotta e mi preparo a fermare Piazza Grande nel caso me lo chiedano. È un’unità molto veloce, armata, forse blindata, con solo un piccolo vetro circolare per permettere la visuale all’equipaggio. Si accosta a pochi metri sottovento, rallenta per affiancarci, resta il tempo necessario per osservarci bene, poi con il rombo potente dei motori si allontana, perdendosi rapidamente nella luce accecante del mattino. Sempre secondo quanto ho letto, pare che stiano ancora cercando i militari coinvolti con il colpo di Stato, forse disertori in fuga verso la Grecia; il nemico storico che diventa improvvisamente un rifugio. Strane nemesi offre a volte la vita.

Favorisca patente e libretto!

Dentro i Dardanelli, la corrente mostra tutto il suo vigore e Piazza Grande prende a correre a oltre otto nodi. La cosa sorprendente di questo stretto, come anche del Bosforo, è che la corrente è sempre in uscita, non ha cicli inversi come altri stretti, quello di Messina, per esempio. La ragione va ricercata nella bassa concentrazione salina del Mar Nero, inferiore a quella del Mediterraneo per l’apporto di acqua dolce dei grandi fiumi che vi sfociano. L’acqua dolce è meno pesante di quella salata per cui tende a scorrere in superficie per essere poi reintegrata da una controcorrente sottomarina salata che restituisce l’equilibrio idrico fra i due bacini. Se così non fosse, il Mar Nero sarebbe formato da acqua dolce. Grazie alla corrente, all’ora di pranzo abbiamo già percorso le circa quaranta miglia che separano il Mar di Marmara dall’Egeo e siamo al traverso dell’imponente monumento che celebra la vittoria di Atatürk sule armate anglo-francesi durante la Campagna dei Dardanelli. La Storia di ieri che si confonde con la Storia di oggi in una parte di mondo che da millenni viene contesa e che pare non trovare quella pace che dovrebbe essere un diritto inalienabile per l’umanità intera. Il controllo di questo mare, di questi stretti, è troppo importante, dominarli vuol dire controllare tutto il commercio, soprattutto di materie prime, che va dal Mar Nero al resto del mondo. Madre Natura ha creato una frattura fra queste colline, una lingua d’acqua che separa la terra, separa due continenti, ma che pare incapace di separare l’uomo dalla sua avidità, dalla sua crudeltà, dal suo desiderio di sopraffazione.

L’uscita dai Dardanelli

Se l’ingresso nel Bosforo era stato come il risucchio di un imbuto, l’ingresso in Egeo dà invece l’impressione di essere sputati fuori da un lungo tubo dove il signor Venturi ha avuto la bontà di sospingerci per centinaia di miglia. Abbiamo sotto la chiglia l’acqua che viene da Istanbul, da Odessa, da Budapest, da Vienna e che dopo migliaia di chilometri si spande in Egeo, portando la Storia d’Europa dove la Storia d’Europa ha avuto origine. La prima cosa che mi colpisce, dopo due mesi di Mar Nero, è il blu, intenso e vivido, di questo mare meraviglioso. Metto la prua su Limnos, la nostra meta, per percorrere le ultime miglia di acque territoriali turche ed entrare finalmente in quelle greche, a me così familiari. Piazza Grande fila a velocità incredibile sfiorando i dieci nodi, ben oltre la sua velocità critica; ovviamente è la corrente dei Dardanelli a farla correre così. Probabilmente nel giro di poche ore si esaurirà e torneremo a viaggiare con la sola forza del vento, un vento che ci accompagna ininterrottamente da tre giorni. Già, siamo in mare da tre giorni, abbiamo ormai preso quel ritmo naturale di alternanza di giorno e notte, sonno e veglia, con cui si potrebbe andare avanti all’infinito. Hai fame mangi, hai sonno dormi, hai voglia di guardare il mare, lo fai, in tutta rilassatezza, senza alcuna preoccupazione, come ho già avuto modo di sperimentare pochi anni fa navigando in sei giorni da Minorca a Gibilterra.

Il premio finale

Piazza Grande continua a galoppare, veloce come non mai: corre di vento, non solo di corrente. Corre così tanto che forse non sarà necessaria un’altra notte per coprire queste ultime cinquanta miglia, forse riusciremo ad ancorarci nella baia di Moudhros, sul versante meridionale di Limnos, prima che faccia buio e godere finalmente di un lungo sonno, senza turni di guardia e senza essere sballottati dal mare. Alcuni pescherecci turchi sembrano disposti lungo quella linea immaginaria che anche in mare separa gli stati. Li osserviamo mentre passiamo oltre, verso l’isola nostra meta, ormai così vicina da sentirla davvero a portata di mano. Corriamo via, quasi scappando, non in una Fuga di mezzanotte, fulminea e drammatica come nel famoso film, bensì in un percorso che si protrae da giorni ininterrotto. Verso le otto di sera entriamo nel golfo e alle nove, quando le prime stelle stanno già cominciando a punteggiare la volta celeste, do a Roberto il comando di lasciar cadere l’ancora nel punto che ho scelto: ben ridossato e tranquillo, come serve a noi. Ci battiamo il palmo della mano per sancire la fine di questa lunga navigazione, poi stappiamo una birra per festeggiare. Mentre ringrazio su Facebook i tanti amici che ci hanno accompagnato con il loro pensiero e il loro calore umano, dalla costa arrivano alcune voci sommesse e i profumi tipici della macchia mediterranea, sospinti da una leggera brezza calda. Mi tuffo in mare per rinfrescarmi e quando risalgo noto che che la scotta della randa è rimasta distrattamente lasca. Afferro il grappolo fra i due bozzelli per fermarlo ma in realtà vorrei fermare il tempo, le emozioni, fissare la mia amata Turchia al momento in cui l’ho conosciuta, rivedere ancora una volta Istanbul con tutto il suo fascino, quell’incredibile charme che mi ha fatto innamorare e che non ho mai smesso di sentire dentro. En Büyük Türkiye!

PS Piazza Grande era già stata a Istanbul nel 2013. Dal racconto di quella bellissima esperienza è nato il libro Rotta a levante, pubblicato da Edizioni Il Frangente e disponibile su Amazon.

(acquarello di Patrizia)

Fuga di mezzanotte (prima parte)


Il popolo deve stare allerta e vigile. Non deve lasciarsi provocare, né lasciarsi massacrare, ma deve anche difendere le sue conquiste

(S. Allende)

La fresca notte odessita si distende sul porto della città, sulle imbarcazioni all’ormeggio, sulle piccole navi passeggeri che ogni sera fanno rientro dal loro consueto giro con i turisti, sui mercantili in attesa di terminare le operazioni di carico o scarico, sulle persone che passeggiano lungo la banchina, sulle coppie che affidano alla brezza i loro baci e le loro promesse d’amore, sul rivenditore di bibite e caffè che staziona ogni giorno davanti all’ingresso del mio pontile. Faccio due passi per rinfrescarmi anch’io e trovare un poco di sollievo dopo la calura del giorno che la bonaccia di oggi ha reso ancora più asfissiante. Il beep del telefono richiama la mia attenzione ed infilo automaticamente la mano in tasca per estrarlo: un messaggio da parte di Ahsen, la mia cara amica di Istanbul.
«Ci sono soldati dappertutto, il Bosforo è bloccato, sta succedendo qualcosa di grosso.»

Faccio scorrere i polpastrelli sullo schermo del telefono e apro un paio di quotidiani: «Colpo di Stato in atto in Turchia». Smetto di camminare e mi fermo un istante a pensare e, oltre a mille riflessioni politiche e generali, ne faccio una personale e schietta: bella rogna!
  

Carta, forbice, sasso

Il Mar Nero è un bacino collegato con il Mediterraneo unicamente attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli e per fare rientro a casa devo passare obbligatoriamente di lì. La possibilità di risalire il Danubio per duemilacinquecento chilometri e poi trasferire Piazza Grande da Vienna a Trieste con un TIR non la prendo neanche un attimo in considerazione, visti i tempi e i costi per praticarla. Certo, dove mi trovo ora sono al sicuro ma mi viene da sorridere al pensiero che l’Ucraina, che sembrava essere il luogo politicamente più pericoloso di questa rotta, sia improvvisamente diventata il più tranquillo: tutto è sempre molto relativo e la sorte, se non la casualità, è a volte il governo principale della nostra vita.
Il telefono nel frattempo ha preso a suonare ripetutamente: amici e parenti mi cercano per accertarsi della mia incolumità. Tranquillizzo tutti, anche attraverso una sorta di comunicato ufficiale su Facebook, sentendomi un po’ ridicolo nel farlo, anche se certe dimostrazioni d’affetto fanno decisamente piacere. Il fatto che si stiano preoccupando anche persone che sanno esattamente dove mi trovo, ovvero a oltre seicento chilometri dalla Turchia, mi conferma l’idea che per i più il Mar Nero è una sorta di voragine sconosciuta, una specie di Hic sunt leones, tanto vaga quanto idealmente e genericamente pericolosa.
Resto un paio d’ore a seguire l’andamento delle vicende attraverso Internet, poi, nella fatalistica attesa che si chiariscano le cose, torno in barca, dove un bicchiere di un liquore che ho comprato ieri, buono e di ignota fattura, mi addolcisce la bocca e i pensieri. Faccio un brindisi al fascino di Odessa e mi ritiro in cuccetta.
  

Recep Tayyip Erdoğan

Per chi nutre sentimenti democratici, l’idea di un colpo di Stato è quanto di più aberrante possa esistere. Il fatto che qualcuno si impadronisca del potere usando la forza e rovesciando un governo leggittimamente eletto cozza in modo violento contro i più elementari principi di giustizia cui siamo stati allevati. Ho sempre impressa in mente l’immagine di Salvador Allende che esce dal Palazzo della Moneda con in testa un elmetto che gli sta scivolando via di lato: un drammatico attimo di smarrimento fissato per sempre da una foto in bianco e nero che è stata per decenni l’icona ignominiosa di quella lunga notte della democrazia. Come Allende, anche Erdoğan è salito al potere con elezioni democratiche ma le similitudini fra i due si esauriscono qui, perché il secondo ha intrapreso da tempo una sistematica delegittimazione dei poteri a lui scomodi, rinchiudendo la democrazia nel recinto sempre più stretto della delega plebiscitaria a un uomo solo: lui. Questo induce una riflessione: si possono ancora chiamare democrazie quelle società, quelle nazioni in cui la stessa persona governa indiscussa per decenni, confinando le opposizioni, sia politiche che sociali, in spazi progressivamente sempre più ristretti fino a soffocarle? La Turchia di Erdoğan, la Russia di Putin, il Venezuela di Chavez e Maduro, hanno ancora i crismi della democrazia o sono qualcosa di diverso che della democrazia mantiene solo quella parvenza datale da consultazioni elettorali sempre più fasulle? In altri termini: se con un atto antidemocratico si rovescia un governo formalmente democratico che sta riducendo la democrazia a un contenitore vuoto, dobbiamo comunque indignarci e rifiutarlo per principio o possiamo considerare che sia forse l’ultima chance di salvare la democrazia stessa? Confesso di non avere la risposta, l’evoluzione della geopolitica planetaria degli ultimi venti anni ha fatto saltare molti degli schemi di lettura della realtà che abbiamo usato finora. O almeno che ho usato io.  

Mustafà Kemal Atatürk

Va detto che la Turchia ha una storia di colpi di Stato che si è ripetuta più volte, durante il XX secolo, secondo un copione consueto e di contenuta violenza. Le ragioni vanno ricercate nell’ordinamento dello Stato dato da Atatürk dopo il rovesciamento del sultanato ottomano. A sorvegliare sul corretto svolgimento della vita democratica e, soprattutto, sul rispetto del dettato costituzionale egli ha posto l’esercito. Detta così suona male, ma tutto sommato ha funzionato. L’esercito, ogni volta che ne ha ravvisato gli estremi, si è impadronito del potere e ha rimesso le istituzioni nella carreggiata della costituzione per poi restituire il comando alla democrazia. Al fine di scongiurare il pericolo di un rovesciamento violento, Erdoğan ha fatto fuori tutti i vertici delle Forze Armate da sempre nelle mani dei kemalisti, i seguaci di Atatürk, per sostituirli con persone di sua fiducia. La stessa cosa ha fatto con la magistratura, con la stampa e progressivamente con tutte le istituzioni, invadendole in modo tentacolare, fino a svuotare completamente la democrazia di quel concetto fondamentale che è alla base della sua stessa esistenza e cioè il rispetto delle minoranze, senza il quale tutto si riduce a tre lupi e una pecora che votano, democraticamente, chi mangiare per cena. Ha anche creato una guardia presidenziale di fedelissimi, ben pagata e ben equipaggiata, alle sue dirette dipendenze, per avere un a forza armata in grado di difenderlo da eventuali attacchi dei militari.
 

Carretto kemalista

La società turca di questi anni è tendenzialmente spaccata in due: da un lato i kemalisti, la parte più istruita e progressista, quella che è già pienamente europea da decenni e che dall’avvento della Repubblica detiene le leve del potere e dell’economia. Vive soprattutto nelle grandi città e lungo la costa egea. Dall’altro c’è quella fetta di popolazione più tradizionalista, culturalmente messa nell’angolo da Atatürk, desideroso di sbarazzarsi di qualunque residuo dell’era ottomana, e che vive soprattutto sulle montagne e nei villaggi dell’Anatolia. A dare voce e riscatto a quest’ultima ha pensato, negli ultimi quindici anni, Erdoğan. Per fare un esempio: la legge turca vietava l’uso dell’eşarp, il fazzoletto che copre i capelli delle donne turche (attenzione: un fazzoletto come quello delle nostre nonne, non un burqa), negli uffici dell’amministrazione pubblica, fatto che ha impedito a milioni di persone la possibilità di accedere alla carriera amministrativa; l’attuale presidente ha rimosso il divieto. Non saprei dire quanto dei legami di Erdoğan con la religione sia genuino spiritualismo e quanto invece calcolo politico, resta il fatto che il suo bacino elettorale è quello che frequenta le moschee. Il problema, come avviene in quei paesi, compreso il nostro, dove la religione guadagna spazi politici, è che i governanti non resistono alla tentazione di trasformare il peccato in reato. In Turchia è stata emanata una legge che vieta agli studenti fuori sede di dividere l’appartamento con persone di sesso diverso dal proprio. Un po’ come è successo da noi con la fecondazione eterologa o con le unioni civili: perché molti pretendono di imporre la propria etica agli altri invece di limitarsi a seguirla, anzi spesso non seguendola affatto? La prima volta che sono stato in Turchia, l’adorazione di Atatürk m’era sembrata eccessiva, soprattutto considerando i lati oscuri della sua biografia politica, quali il genocidio degli armeni, la questione curda o quella greca. Oggi capisco che tutto quello sventolio di bandiere con la sua effige aveva soprattutto il senso del baluardo contro l’integralismo religioso e che in questo momento quella diga è a rischio di crollo. Ed è anche la ragione per cui, nelle prime ore del golpe, i carri armati hanno in qualche strada raccolto gli applausi di quella parte di popolazione che si sente soffocata, anzi lo è.
  

E sì, ha proprio ragione!

L’indomani, appena alzato, con la moka che ancora borbotta sul fornello, cerco immediatamente le notizie dalla Turchia: il golpe è fallito ed Erdoğan promette vendetta. Una parte di me è forse un po’ delusa ma certamente con un paese così diviso, esattamente a metà, c’era il rischio concreto che tutto si trasformasse in una guerra civile e la Turchia si riducesse nelle condizioni della Siria. Resta da vedere cosa succederà ora ai kemalisti e anche cosa succederà a me, visto che è stato decretato lo Stato di emergenza per trenta giorni, una misura che generalmente riduce i diritti e le garanzie delle persone comuni, anche di quelle che se ne vanno in giro in barca per i fatti loro. Non ho fretta di andare, comunque, quindi deciderò nei prossimi giorni, in base all’evoluzione delle cose, cosa fare. Anche se spesso ci sembra che le vicende della Storia siano astratte e lontane, soprattutto da quando l’Italia vive in una discreta condizione di tranquillità e benessere o perché semplicemente gli effetti non ricadono direttamente su di noi, questa volta ho un’immediata conseguenza: il direttore di SVN, la nota rivista di vela, mi comunica che, a seguito di quanto sta avvenendo in queste ore, al momento di chiudere il numero hanno deciso di rinviare la pubblicazione dell’articolo che ho scritto per loro sulla Turchia, vista dal punto di vista del viaggiatore di mare. Comprendo e condivido perfettamente le ragioni di questa scelta, ma certamente me ne rammarico. “Il personale è politico”, si diceva negli anni Settanta. “Il politico è personale”, pare essere la versione aggiornata agli anni Duemila.
  

Istanbul, Ortaköy

Un po’ per curiosità, un po’ nella remota ipotesi di dover lasciare Piazza Grande qui, chiedo a Oksana, la manager dello Yacht Club di Odessa, di mostrarmi il luogo dove vengono rimessate le barche durante l’inverno. È una specie di hangar molto protetto, con il solo problema di dover disalberare per entrarci dentro ma, visto il basso costo della vita in Ucraina, l’eventualità avrebbe i suoi risvolti positivi. Nel frattempo studio la rotta da seguire, tenendo conto oltre che del meteo e delle zone normalmente interdette alla navigazione, come l’area del Mar Nero a ridosso del Bosforo, delle normali consuetudini burocratiche di entrata e uscita dai paesi che attraverserò e della necessità o meno di uno stop in Turchia. Insomma, invece di pianificare il percorso in base agli elementi naturali, mi trovo a dover contrastare le difficoltà create dagli uomini. La questione più spinosa è come transitare legalmente nei mari turchi senza fare l’ingresso nel paese. Tutte le volte che sono entrato nelle acque territoriali di una nazione ho sempre fatto le pratiche di entrata al primo porto utile: bandiera gialla alla crocetta di dritta, chiamata sul VHF e via. Arrivando però dalla Bulgaria, il primo porto turco, Igneada, non è porto di entrata, quindi sarei costretto a fermarmi a Istanbul, dove avrei due opzioni: la prima, andare al marina di Ataköy, il più caro della città, dove so che per circa cinquecento euro un agente può fare le pratiche per me; la seconda, provare a farle da solo, ma gli uffici sono sulle sponde opposte della città e davanti alla Chamber of Shipping, l’autorità che rilascia il Transit log, non c’è un molo per ormeggiare. Insomma, non esiste la possibilità concreta di mettersi in regola senza sborsare una cifra assurda e senza evitare di fermarsi a Istanbul, dove le ultime notizie riportano le piazze piene dei seguaci di Erdoğan, esaltati da quella che considerano ormai una loro vittoria.
 

Controlli di polizia in Grecia, molto informali

Esiste un trattato del 1938, il Trattato di Montreaux, che disciplina il transito delle navi lungo gli stretti turchi e il Mar di Marmara. Essendo una carta di ottanta anni fa, parla di navi militari, mercantil e sommergibili, distinguendo fra quelli appartenenti ai paesi rivieraschi del Mar Nero e a quelli di paesi terzi, ma non parla di imbarcazioni da diporto. Lascia inoltre alla Turchia il diritto di interdire l’accesso in situazioni particolari, come appunto potrebbe essere questa. Provo a chiedere informazioni in giro ma ottengo risposte diverse e contraddittorie. Mi metto in contatto con l’Ambasciata Italiana ad Ankara, la quale mi rimanda al Consolato Italiano a Istanbul, dove una signora molto gentile, ascoltata la mia storia, si attiva per darmi le risposte che mi occorrono. Avere un filo diretto con la diplomazia del nostro paese mi dà un pizzico di sicurezza in più nel caso qualcosa dovesse andare storto. La sera stessa vengo richiamato al telefono: seguendo il canale di traffico che va dal Bosforo all’Egeo, attraversando il Mar di Marmara, posso transitare senza fare alcuna pratica in Turchia. Sono circa duecento miglia, non poche da fare d’un fiato, anche perché si sommano a quelle da percorrere prima e dopo in Bulgaria e in Grecia. In tutto sono trecentoquaranta miglia, più o meno tre giorni e tre notti di mare per Piazza Grande. Sempre che la situazione in Turchia non precipiti e non venga bloccato completamente il traffico marittimo. Intanto, diplomazia italiana efficiente, oltre che cortese!
  

Lo Yacht Club di Odessa

Al di là di tutto, delle difficoltà contingenti, dei macrosistemi politici, delle avversità di qualunque natura, c’è sempre un momento in cui chi naviga sente il richiamo del mare. Succede che un riflesso di sole sull’orizzonte, un gabbiano che volteggia nel cielo azzurro o semplicemente un guizzo nel fondo dell’anima ci dicano chiaramente che è giunto il momento di andare. Così, una mattina, saluto tutti e vado alla Polizia di Frontiera, dove ritrovo la stessa poliziotta gentile e carina di quando sono arrivato, poi mollo le cime che vincolano Piazza Grande al pontile e restituisco a lei e a me il fascino incommensurabile della libertà. Una libertà che, dopo che ho percorso neanche cento metri, mi viene tolta dall’Autorità Portuale:
«Piazza Grande, keep your position, you can’t leave the port because a big ship is entering».
Non importa, non ho fretta, devo fare parecchie miglia e arrivare, se ci riesco, direttamente in Bulgaria, così da evitare di fare entrata e uscita in Romania. Passo una buona mezzora a fare avanti e indietro in attesa del via libera poi, finalmente, dal VHF arriva l’Ok che aspettavo e con un affondo di gas guadagno il mare aperto. Subito mi prende quel senso di leggerezza che provo quando sono in mare da solo e il mare sembra assecondarmi perché poco dopo arriva un branco di delfini ad accompagnare la mia rotta per un tratto.
     

Birre senza frontiere. Almeno loro!

L’indomani mattina, dopo un giorno e una notte di navigazione, mi trovo al traverso di Sulina. Sono in acque rumene ma, non avendo intenzione di fermarmi, proseguo dritto con nonchalance. Dal Danubio vedo uscire un’imbarcazione molto veloce. La osservo bene e noto l’inconfondibile livrea delle motovedette della Guardia Costiera: punta verso di me. Sono al lasco con solo il genoa e avanzo a poco più di cinque nodi, aspetto che eventualmente mi dicano qualcosa per sventare la vela e rallentare. Sono ormai a pochi metri da me, mi guardano, li osservo anch’io, poi mi chiamano via radio:
«Sailing boat, sailing boat…».
Affero il microfono e rispondo: vogliono sapere chi sono, dove vado, eccetera. Cerco di tenermi sul vago, non perché abbia qualcosa da nascondere ma perché in effetti non sono sicurissimo di non avere la necessità di fare una sosta in qualche porto rumeno. Forse mi tengo un po’ troppo sul vago perché a un certo punto mi chiedono:
«So, what is your intention in Romanian waters?».
Bella domanda! Navigare. Sarebbe questa la risposta più sensata, quella più vera ma, temendo che non si accontentino, dico chiaramente che deciderò se fermarmi o meno da qualche parte in base al meteo e alla stanchezza. Visto che devo fare almeno un paio di giorni di navigazione, la risposta è plausibile; infatti mi salutano e vanno via. Alla fine, però, quando sono al traverso di Mangalia, decido che una sosta me la posso concedere, anche se ciò comporterà di affrontare due volte la burocrazia in ventiquattro ore. Mi sento quasi di casa in questo porto: ritrovo l’Harbour Mistress dell’andata e ritrovo anche il tizio che mi aveva consigliato l’Ucraina per il basso costo della prostituzione. Sono tentato di dirgli che una volta, a Odessa, hanno provato ad abbordarmi due così brutte che non dubito che fossero poco esose, ma lascio correre.
  

In navigazione

Quando riparto ho in mente di arrivare direttamente a Varna ma, dopo qualche ora di bordeggio controvento, cedo nuovamente alla stanchezza e calo l’ancora davanti a Capo Shabla, in acque bulgare, quindi da clandestino. Ma chi le ha inventate le frontiere? Il mare è libero, l’acqua scorre senza barriere nè confini, sarebbe logico che anche le barche che ci scivolano sopra godessero della stessa libertà. Decido di fregarmene: il ridosso è buono, siamo in ambito UE e comunque resto a bordo, se mi dicono che non posso stare, levo l’ancora e vado via. Il profumo del mio amato frittatone di cipolle si spande nell’aria mentre mi godo il fresco della sera in pozzetto. L’indomani, con tutta calma, mi sposto a Varna dove c’è il più rozzo e piacevole Yacht Club di tutto il Mar Nero occidentale e dove mi raggiunge Roberto, che dividerà con me la lunga rotta per tornare in Egeo.
 

Notare la data di morte

In Turchia, intanto, a pochi giorni dal tentato golpe che secondo le stime ha causato circa trecento morti, le cose stanno prendendo la piega che si poteva supporre, anzi temere. La reazione di Erdoğan non si è fatta attendere ed è più cruenta e capillare del previsto. Secondo la stampa, decine di migliaia di persone stanno subendo un duro processo di epurazione, con l’ovvio pretesto di perseguire i golpisti. La scure del potere pare si stia abbattendo non solo sui militari coinvolti ma anche su insegnanti, magistrati, impiegati pubblici e amministratori con una rapidità tale da far sospettare che le liste di proscrizione fossero pronte già da un pezzo. Qualcuno comincia a sussurrare che si sia trattato di un golpe fasullo, forse architettato dallo stesso Erdoğan per avere poi mano libera per fare quello che con gli strumenti democratici non è riuscito a fare finora. È un vecchio giochino che in passato ha funzionato spesso qua e là nel mondo. I kemalisti sono ormai nell’angolo, incapaci di reagire, prostrati; in molti temono che sia davvero la fine della Turchia come l’abbiamo conosciuta, come è stata negli ultimi cento anni. Quella Turchia che a me è piaciuta subito quando, quindici anni fa, vi ho messo piede per la prima volta, restando colpito dalla vitalità della sua società, dalla fierezza delle proprie tradizioni e da quella sua forma di laicismo che considererei un enorme progresso sociale se lo vedessi, anche in misura minore, applicato in Italia.
 

Stesso porto dell’andata

Con l’aiuto di Roberto preparo Piazza Grande per affrontare questi giorni di mare: riempiamo i serbatoi dell’acqua e del carburante, facciamo una ricca cambusa e un check dell’attrezzatura velica e del motore. Malgrado generalmente deprechi l’uso smodato dei social network, decido di creare una pagina su Facebook dove raccontare, più o meno in tempo reale, la navigazione che sto per effettuare e nel quale coinvolgo molti amici, velisti e non. Lo scopo che mi prefiggo è duplice: far scattare il prima possibile l’allarme se dovessero sorgere dei problemi e avere una sorta di compagnia virtuale lungo la rotta. Raccolgo subito molti consensi e incitamenti: non c’è che dire, il calore umano, anche se mediato dalla telematica e da questa reso impalpabile più di quanto non sia già di suo, è una carica formidabile quando si deve affrontare un ostacolo, un momento difficile. Con questo bel viatico lasciamo Varna alla volta di Tsarevo, ultimo porto bulgaro, dove facciamo l’uscita formale dal paese. Speravo di avere un pezzo di carta dove fosse scritta a chiare lettere l’isola di Limnos quale porto di destinazione ma la poliziotta che con zelo sale a bordo per controllare che non ci stiamo portando via qualche bulgaro, nascosto sottocoperta, solo su mia insistenza corregge a penna la clearance, scarabbocchiandoci sopra “GR”. Eccellente, davvero un documento formale da mostrare alle autorità turche per dimostrare che non ho intenzione di fermarmi nel paese.
 

Beyoğlu, Pera, Galata.

A Tsarevo ho ritrovato Eugenio, il direttore del porto, che ama l’Italia e e la nostra musica leggera. Chiacchierando con lui, mi racconta di essere di origine greca da parte di madre e armena da parte di padre ma di sentirsi comunque profondamente bulgaro, secondo una mescolanza di popoli e razze molto comune dei territori dell’ex-impero ottomano. Gli ottomani hanno dominato la Bulgaria per circa cinque secoli, adottando, qui come nel resto dell’impero, una politica di conquista che mirava soprattutto all’imposizione di tasse piuttosto che alla conversione religiosa o all’assimilazione dei popoli conquistati. In pratica, a differenza dei regni occidentali della stessa epoca, il sovrano chiedeva soldi e lealtà ai suoi sudditi ma non pretendeva di modificarne i comportamenti o le pratiche quotidiane, al punto che spesso le più alte cariche dello Stato, visir, pasha e kapudan pasha (ammiraglio) erano ricoperte da cristiani assoggettati durante qualche guerra di conquista. Non era inoltre prevista la linea di discendenza secondo primogenitura, quel diritto che impediva a grandi talenti dell’occidente di esprimersi in casa propria come invece riuscivano a fare emmigrando in Turchia, così come oggi avviene verso altri paesi del mondo. È famoso il caso di Alvise Gritti, figlio del doge di Venezia, in turco chiamato Beyoğlu, ossia figlio del bey (signore) che nel Millecinquecento si trasferì alla corte del sultano dove ricevette cariche e onori. Ancora oggi a Istanbul c’è un famoso quartiere che porta il suo nome. In buona sostanza, nell’impero ottomano vigeva un multiculturalismo che ha consentito a etnie e fedi diverse di convivere pacificamente per secoli seppure sottomesse al dominio del sultano. A nessuno è stata mai imposta la conversione forzata come invece è avvenuto spesso in Europa occidentale, si pensi ad esempio al caso dei marrani nella Spagna dei Reyes Catolicos, i re cattolici. Tanta tolleranza ha consentito migrazioni di popolazioni che hanno finito, se non per mischiarsi fra loro, per lo meno con il condividere lo stesso territorio. Il nazionalismo, quella corrente di pensiero politico che pretende che il diritto di occupare una terra sia riservato ad un solo popolo, si è affermato in Turchia nel Novecento, con il movimento dei Giovani turchi, provocando lì come altrove i disastri che sappiamo: pulizie etniche o genocidi. A ben guardare, molti degli attuali conflitti in Medio oriente sono figli della stessa logica di spartizione, spesso a tavolino, seguita al crollo dell’impero ottomano.

(acquarello di Patrizia)


La vela di Odessa


“Ma dove siamo? Ma dove siamo?”, chiese la mela.

“Se pensi che il mondo sia piatto allora sei arrivata alla fine del mondo. Se credi che il mondo sia tondo allora sali e incomincia il girotondo!”
E la mela salì, salì, salì, salì, salì.

(Area, La mela di Odessa)

Ci sono immagini che si imprimono in modo indelebile nella nostra mente e continuano a rappresentare per noi la realtà così come l’hanno fissata, anche quando la realtà è radicalmente mutata e di quelle immagini sbiadite fatichiamo a trovare tracce nel presente. È una trappola mortale in cui bisogna evitare a tutti i costi di cadere, perché ci espone a un duplice rischio: quello di essere sorpresi, se non delusi, di non trovare ciò che ci aspettavamo e quello di non vedere ciò che invece il presente è in grado di offrire. È altresì vero che ci sono immagini talmente iconiche dall’essere imprescindibili e, se anche il tempo le ha rese poco o nulla rappresentative, ricercarle è quasi un obbligo se si vogliono cogliere le radici del presente. O anche solo per confrontarle con quanto la nostra mente ha tenuto in serbo o costruito artificiosamente.
Di Odessa ho sempre avuto due immagini: la città zarista e quella sovietica, entrambe datate, superate dalla Storia ed entrambe da me interiorizzate in modo aspecifico, come una qualunque altra città di quei tempi e di quella parte di mondo. Odessa però detiene, a livello iconico, qualcosa che nessun’altra città possiede e che l’ha posta al centro della Storia europea del Novecento: il plotone di soldati che avanza, scalino dopo scalino, discendendo la scalinata che conduce al porto e da cui precipita rovinosamente una carrozzina con dentro un neonato. La conseguente disperazione della madre del piccolo è sottolineata da un primissimo piano dell’occhio di lei.
 

La scalinata

È una delle scene clou de La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn, film che racconta in modo romanzato l’ammutinamento di una nave nel 1905, quando i primi moti rivoluzionari scuotevano la Russia zarista. La pellicola, del 1925, era dichiaratamente celebrativa del nuovo corso sovietico ed è stata considerata un capolavoro dai cinefili di tutto il mondo per molti anni; in Italia almeno fino a quando Fantozzi la massacrò con un’altra scena, divenuta celebre a sua volta, nella quale, in modo assolutamente catartico, urlava la sua dissacrante opinione. In realtà credo che Paolo Villaggio volesse colpire non il film quanto un certo tipo di intellettuale in voga in quegli anni e il conformismo ideologico che imperava allora.
 

Odessa

«Così come a Roma non si gira più in biga da un pezzo, sicuramente a Odessa non spareranno più ai neonati in carrozzina.»
È questa più o meno la risposta che ho dato, durante i mesi in cui preparavo questo viaggio, a tutti quelli che mi dicevano:
«Ma che ci vai a fare a Odessa? È pericoloso!»

A dire il vero, anche le guide turistiche e i portolani parlano di una certa pericolosità, della corruzione delle forze di polizia e dei loro taglieggiamenti, della microcriminalità diffusa, di pratiche burocratiche estenuanti per entrare con una barca. E poi l’Ucraina è in guerra. In Donbass, la regione orientale, si spara da mesi e la Crimea, la bellissima penisola sul versante settentrionale del Mar Nero, è stata inglobata (per usare un eufemismo) dalla Russia qualche anno fa, per altro senza che l’ONU avesse nulla da ridire; chissà se perché non c’è petrolio o se perché la Russia è militarmente meglio attrezzata dell’Iraq o della Libia a respingere la filantropica esportazione della democrazia in cui l’Occidente si è distinto negli ultimi decenni. Ma l’Ucraina è grande, davvero tanto, quasi quanto mezza Europa, quindi la guerra non mi sfiorerà. Del resto, se pensassi che fosse davvero così pericoloso non ci andrei e comunque sono pronto a girare la prua al primo segnale avverso. Non sono un temerario, neanche un più modesto audace, sono semplicemente un uomo che vede nell’altro, nel diverso, un’opportunità prima che un problema.
 

Delfini in Mar Nero

Il resto del mondo sembra pensarla in modo diverso, se è vero, come è vero, che Piazza Grande è l’unica barca che solca queste acque. Acque non proprio cristalline, ma in cui sono costretto a tuffarmi, una decina di miglia a nord del faro di Sulina, per liberare il timone dagli enormi ciuffi di alghe che mi trascino da quando sono uscito dal Danubio e che non sono riuscito a tirare via mentre ero ormeggiato sul fiume. Di fare il bagno lì non m’è sembrato davvero il caso. Ma lo sporco non è solo in carena, anche la coperta è parecchio sudicia. Ci sono ovunque i resti sparsi della battaglia che ho combattuto per giorni contro le mosche: così tanti che camminare a piedi nudi mi da quasi fastidio. Fra l’altro, le mosche da queste parti sembrano imparentate con l’Araba fenice: dopo ogni ecatombe, appena esco in mare, spuntano fuori copiose ad infastidirmi e pizzicarmi le caviglie, come se l’aria di mare favorisse la schiusa delle loro uova. Un branco di delfini mi restituisce un immagine di freschezza volteggiando a lungo attorno alla prua; il Mar Nero sarà pure sporco e inquinato, ma di delfini ce ne sono tanti, come da nessun’altra parte in Mediterraneo.
  

C’è anche di questo in giro

Sono al traverso di Zmeiny, l’Isola del serpente, l’unica di questo mare; uno scoglio dove la leggenda narra che sia sepolto Achille, l’eroe omerico dell’Iliade, ma di cui da qualche parte ho letto che è inavvicinabile in quanto presidio militare, quindi che mi accontento di vederla sfilare a qualche miglio di distanza. È comunque il segnale che sono entrato in acque ucraine. E mò? L’Unione Europea, con le sue pur fasulle certezze, è ormai di poppa, e ora sono qui, solo, a vedermela con i nipotini di Stalin. I quali, a dare retta a tutti quelli che hanno provato a dissuadermi dal venire, mi staranno aspettando con una mano sulla pistola e la bocca ancora piena dei resti dell’ultimo bambino che hanno mangiato giusto ieri sera. Vista la recente esperienza bulgara, che ha evidenziato come fossi tenuto costantemente sotto controllo dai radar della Guardia Costiera, do per scontato che a Kiev, al comando generale della Marina, abbiano già abbiano aperto un dossier a mio carico. Scruto l’orizzonte, cercando una motovedetta o una qualunque unità militare, ma vedo invece solo mare. Vedo anche che si sta finalmente alzando il vento, quindi spengo il motore e do a Piazza Grande il suo passo naturale: quello della vela.
 

Il monumento a Caterina la Grande

Verso sera, avvisto una nave a poche miglia da me che procede nella mia stessa direzione. L’AIS me ne dice il nome, quindi provo a chiamarla per avere un riscontro sul funzionamento della mia radio, dopo che a Costanza una cornacchia mi ha distrutto l’antenna in testa d’albero. Mi rispondono dicendo di ricevermi forte e chiaro, poi sento che parlano con qualcun’altro in una lingua di cui colgo un accento che non so se russo o ucraino ma di cui ho la sensazione che, se trasposta su carta, andrebbe scritta con l’alfabeto cirillico:
«
Da, Biaza Grandi.
»
Accidenti, parlano di me! Ma con chi? Dopo poco mi sento chiamare sul canale 16: è sempre la nave lungo la mia rotta e mi fanno una serie di domande sulla mia posizione, la mia destinazione, il mio numero di registro, le persone a bordo… Strano, molto strano. Cerco di rispondere in modo cortese ma evasivo, poi ho l’impressione che riferiscano le informazioni raccolte a qualcuno di cui però non ricevo il segnale. Comunque sia, non ho nulla da nascondere e sono un libero cittadino che solca le libere acque di un libero stato. Spero che le stesse parole non debba ripeterle il mio avvocato durante il processo!
 

Odessa: tramonto sulle gru

Vorrei arrivare con la luce del giorno, quindi a sera ammaino il gennaker e lascio solo il genova, in modo di rallentare la velocità e non trovarmi all’imboccatura del porto prima dell’alba. La navigazione finora è stata piuttosto veloce, mi ha spinto uno strano vento da sud: strano perché mi era stato detto che in estate qui soffia generalmente dai quadranti settentrionali. Un vento leggero, ma una mano ad andare me la danno pure la corrente, segnalata anche dalla carta nautica, e l’onda al giardinetto, che però fa rollare Piazza Grande in modo veramente fastidioso. Non credo che riuscirò a dormire, ma forse è meglio così: sia perché sono piuttosto sottocosta, sia perché a Kiev potrebbero non gradire se mi intercettassero senza nessuno al governo, mentre ronfo sottocoperta. L’aria della notte è molto asciutta; incrocio un altro paio di navi, ma mi guardo bene dal contattarle via radio. Quando il vento aumenta, lascio solo un piccolo fazzoletto a prua, tanto per garantire all’autopilota un minimo di governabilità, ma potrei benissimo ammainarlo completamente perché a secco di vele avanzo a tre nodi. Alla mia sinistra, le luci della costa, sovrastate in alto dal Grande carro.
 

Il faro di Odessa

Al primo chiarore, il cielo appare completamente nuvoloso e il profilo di Odessa si disegna sfumato in lontananza. Il faro del porto è ancora acceso e mi lancia impulsi di soddisfazione, di meta raggiunta, più che di semplice luce intermittente. Quando sono davanti al molo foraneo chiamo l’Harbour master per avere il permesso di entrare e subito mi chiedono se ho già avvertito la Polizia di frontiera ed il marina del mio arrivo. Alla mia risposta negativa mi mettono in standby per alcuni minuti, durante i quali provo a immaginare come possano essere le condizioni di vita nelle prigioni zariste, no, sovietiche, no… Maledetti, iconici stereotipi! Dall’altoparlante in pozzetto arriva stentoreo: «You have the permission to enter, go directly to the Yacht club, a dispatcher and a policeman are waiting for you
Formali ma efficienti, senza dubbio. O semplicemente cortesi ad aver avvertito tutti del mio arrivo? Fra dieci minuti, il tempo di essere lì, e lo scoprirò. Intanto vorrei scoprire cos’è un dispatcher, capire se è una cosa buona o meno che uno di essi mi aspetti sul pontile.
 

Il marina di Odessa

Appena varco la soglia di ingresso del porto, si scatena un acquazzone terribile e, mentre fra gli scrosci cerco il marina, penso che Fantozzi deve avere con questa città un filo diretto, se ad attendermi c’è la sua famosa “nuvoletta”. Un uomo si sbraccia per farmi segno dove accostare, gli lancio le mie cime, lo ringrazio in inglese, ne ricevo in cambio un paio di minuti in ucraino di cui ovviamente non capisco una parola. Provo a fargli intendere a gesti che non lo capisco, ma lui prosegue come se niente fosse. È curiosa l’ostinazione di certe persone a parlarti nella loro lingua, magari usando progressivamente parole sempre più semplici e verbi all’infinito, anche dopo che hai mostrato di essere straniero. Per fortuna parla sorridendo; chissà, forse mi ha solo detto di aspettare che si finisca di rosolare il bambino che mi verrà offerto come cocktail di benvenuto. Alla fine capisco che mi sta dicendo di non muovermi da qui e aspettare che lui ritorni. Do una riassettata a Piazza Grande, piuttosto sottosopra per la navigazione e per la pioggia che, dispensata dalla nuvoletta fantozziana, ha tipicamente smesso di cadere appena terminato l’ormeggio.
 

Odessa Film Festival: cosa proietteranno sulla scalinata?

Tra le motivazioni addotte dai detrattori di questo viaggio c’era la questione burocratica. La burocrazia è uno dei mali della società odierna e quella ucraina risente probabilmente del retaggio di quella sovietica che aveva davvero una brutta fama. Durante l’inverno ho cercato di avere il maggior numero di informazioni possibile circa le pratiche di ingresso in Ucraina, contattando ambasciate, consolati, autorità portuali e marina, il più delle volte non ricevendo alcuna risposta alle email inviate. Alla fine ho trovato un agente marittimo che per la modica cifra di cinquecento euro avrebbe svolto per me l’improbo e faticosissimo compito di far apporre un paio di timbri su altrettanti pezzi di carta. È possibile farlo da soli? Boh! L’ostacolo linguistico potrebbe essere insormontabile. Dalle informazioni che ho raccolto l’inglese pare davvero poco diffuso e recentemente in Turchia ho avuto una pessima esperienza con un funzionario di polizia che continuava a illustrarmi in turco la procedura da seguire e ad alterarsi perché non lo capivo. Alla fine, la piccola soddisfazione di rispondergli in italiano: «Sei un grandissimo coglione.», ovviamente sorridendogli.
Ma c’è una cosa che ho imparato in questi anni trascorsi andando per mare: più si è lontani dal problema, più questo appare insormontabile; più ci si avvicina, più si raccolgono informazioni utili a risolverlo, molto spesso riferite da barche che hanno affrontato le stesse situazioni di recente.
 

Piazza Grande allo Yacht Club di Odessa

«You can do everything by yourself, Police and Custom offices are just behind the Yacth club in Odessa.»
Me l’hanno ripetuto un paio di diportisti ucraini che ho incrociato lungo la rotta. Ottimo, anche se non risolve il problema della lingua. Uno di essi mi ha anche mostrato il modulo da riempire, ovviamente scritto in cirillico. Alla fine mi sono deciso a tentare, ritenendo che una qualche procedura di ingresso debba pur esistere e che se proprio non riuscirò da solo, chiamerò l’agente esoso e lascerò fare a lui. Nel frattempo cerco sul dizionario di inglese il significato della parola dispatcher: “Da to dispatch, spedire. C’è anche una frase di esempio: “Spedire al creatore”. Confido nei limiti dei dizionari tascabili e resto ottimista.

  

A ben cercare qualche icona zarista si trova!

Poco dopo torna l’ormeggiatore (che scoprirò in seguito essere lui quello che qui chiamano dispatcher) accompagnato da due poliziotte, una delle quali davvero carina e che in ottimo inglese mi da il benvenuto, mi chiede cortesemente di seguirla in ufficio e sorridendomi mi dice che rapidamente farà tutte le pratiche che mi servono. E l’orso ex-sovietico? La burocrazia cirillico-parlante pronta a fagocitarmi nel suo infernale abisso? Sarà una trappola, penso, appena in ufficio, al riparo da sguardi indiscreti, mi verrà mostrato il vero volto delle istituzioni, subirò un interrogatorio stile KGB e mi spediranno in un gulag con un pretesto qualsiasi. E invece no! La poliziotta carina resta cordiale, il funzionario di dogana si accontenta di un paio di firme e di qualche fotocopia e rapidamente mi lasciano libero di andare. Per sicurezza, chiedo conferma che sia stato tutto così semplice:
«
Am I free to go to town?»
«
Yes, enjoy Odessa
», mi rispondono con un sorriso.
«
Thank you, I will for sure!»
Sono quasi tentato di andare dall’agente che voleva cinquecento euro a fargli marameo.
 

100 anni dopo, ancora carrozzine giù per la scalinata!

Torno in barca e mi trasferisco al posto che mi assegnano, con il corpo morto e le cime di poppa fissate ad un pontile di ferro, robusto e ben ridossato. Metto un paio di spring per sicurezza, poi via di corsa in città! Subito cerco l’icona di Odessa, la scalinata Potëmkin; si chiama così, come il film, come la corazzata. È praticamente un marchio di fabbrica che deriva dal nome di Grigorij Potëmkin, amante di Caterina la Grande nonché tra i fondatori della città. Si trova subito alle spalle del porto e per raggiungerla devo camminare lungo un cavalcavia e poi un sottopassaggio che servono a superare la ferrovia che ai tempi di Ejzenštejn non c’era.
Che emozione essere qui, davvero al centro della Storia!
Cerco i cosacchi, cerco la carrozzina, cerco l’occhio della madre, ma vedo solo persone tranquille che passeggiano, osservano il bellissimo panorama sul porto e scattano foto e selfie in cui appariranno sorridenti su qualche social network. Lo so, non devo cadere nella trappola, non devo cercare i vecchi cliché superati dal tempo, ma provo a immaginare questo posto un secolo fa. Chiudo un attimo gli occhi e, quando li riapro, un’incredibile scena mi appare davanti: qualcuno sta spingendo una carrozzina giù dagli scalini. Allora è vero, è tutto ancora come l’ha raccontato Ejzenštejn, devo dirgli di fare attenzione, fra poco qui spareranno! Quando mi passa vicino, però, vedo che a spingerla è un uomo, l’occhio eventualmente è del padre, pure questo è un segno dei tempi. Evidentemente anche i costumi si sono aggiornati qui a Odessa, non solo le immagini, datate e stereotipate, che spesso ci portiamo dentro e pericolosamente continuiamo a cercare per ritrovare la realtà così come è fissata nella nostra mente.


Sulina, lo shtetl danubiano


Le antiche carte dei corsari
portano un segno misterioso,
ne parlan piano i marinari
con un timor superstizioso.

(F. Guccini, L’isola non trovata)


Le antiche leggende marinare, quelle storie fasulle e abusate che per secoli sono rimbalzate fra i tavoli delle taverne dei porti di tutto il mondo, narrano spesso di visioni incredibili e inattese: vascelli fantasma e isole, apparsi un solo istante per imprimersi come un lampo negli occhi di chi osserva l’orizzonte, prima di sparire di nuovo. Sempre, ciarlatani ed imbroglioni hanno in malafede alimentato queste leggende per meglio abbindolare il malcapitato di turno e derubarlo, magari dopo averlo incantato, oltre che con le parole, con qualche bicchiere di rum. Ma al giorno d’oggi, chi può ancora credere a certe fantasie?
A volte giochiamo a farlo, perché chi va per mare ha sempre un pizzico di romanticismo nel cuore ma, nel momento della verità, l’uomo del terzo millennio pondera le sue scelte sui fatti dimostrabili e sulla conoscenza scientifica, giammai sulla superstizione. Men che mai un razionalista come me. Cos’è mai allora, mi chiedo, quella strana cosa che vedo delinearsi lontano, in controluce, su questo mare deserto di imbarcazioni e liscio come l’olio? Un tratto in cui secondo la carta nautica non dovrebbe esserci nient’altro che acqua.
  

Atmosfere danubiane

La osservo da un po’ strizzando bene gli occhi, senza però riuscire a coglierne forma e dimensioni. Afferro il binocolo e la inquadro ma non cambia molto. Neanche una foto col teleobiettivo, ingrandita poi al computer, riesce a darmi qualche dettaglio in più. Un po’ per curiosità, un po’ perché potrebbe trattarsi di qualcuno in difficoltà, faccio una piccola deviazione e vado a vedere. Tanti anni fa, alcune miglia a largo del porto di Civitavecchia, una mattina in cui soffiava un deciso Forza 6, una visione analoga è poi risultata essere la prua di un piccolo motoscafo che affondava. Intorno, a mollo già da un’ora nel freddo mare di aprile, due ragazzi e una ragazza, intirizziti, che ho fortunatamente raccolto prima che finissero assiderati o peggio. Sarà mica qualcosa di analogo, ora? Accompagnato dall’allegro scoppiettio del motore, mi avvicino sempre di più, continuando a guardare e credendo di riconoscere prima la sagoma di una barca, poi di un peschereccio intento a salpare le reti, infine di una piccola isola. Ma di isole qui non ce ne sono, a meno che ne sia spuntata improvvisamente una nella notte, come la famosa Ferdinandea emersa nel Canale di Sicilia nel luglio del 1831 a seguito dell’eruzione di un vulcano sottomarino e poi inabbisatasi di nuovo nel giro di cinque mesi; un tempo comunque sufficiente perché Borboni, Inglesi e Francesi se ne contendessero la sovranità.
  

Visioni

Che si tratti di un qualcosa ricoperto di vegetazione mi appare sempre più indiscutibile man mano che mi avvicino; vedo ormai perfettamente il profilo di un fascio canne di fiume appena agitate da un vento leggerissimo. Decisamente incredulo, controllo di nuovo la carta nautica ricavandone ancora una volta la medesima informazione: non ci sono isole qui. Ma in mare non è facile cogliere l’esatta dimensione delle cose e solo a pochissime centinaia di metri di distanza riesco a capire cos’è davvero: un’enorme zolla di terra di diversi metri quadrati, ricoperta di vegetazione, che galleggia immobile sulla superficie del mare. Il pensiero mi va subito a cosa potrebbe succedere incontrandola di notte; non credo sia molto salutare centrarla a cinque o sei nodi di velocità. Probabilmente qualche piena del Danubio l’ha strappata via da un argine per lasciarla poi andare alla deriva nel Mar Nero. Chissà, magari qualche leggenda di mare è nata proprio così, ricercando nell’ultraterreno le risposte che il sapere umano del tempo non era in grado di fornire e individuando, di volta in volta nella crudeltà del demonio o nella benevolenza della divinità, il castigo o la salvezza che Madre Natura dispensa spesso con fatalistica casualità. Il ricorso al sovrannaturale è spesso la scorciatoia più comoda che hanno le menti pigre per trovare le risposte alle domande insolute che accompagnano la nostra esistenza.
  

Danubio, poco oltre l’ingresso

L’isola che non c’è, anzi che non ci dovrebbe essere, sembra però portarmi fortuna: si alza un po’ di vento e posso quindi spegnere il motore e ritrovare il silenzio perfetto della navigazione a vela. Nel frattempo proseguo la mia incessante guerra contro le mosche. Piazza Grande ne è invasa, le ho prese a bordo non so dove qualche giorno fa e puntualmente, nel primo pomeriggio, inziano a venir fuori a dozzine e posarsi dappertutto: sulle braccia, sulle gambe, sugli occhiali, nel naso. Per scacciarle mi muovo continuamente, agitandomi come un tarantolato in preda ad una crisi convulsiva acuta. Oggi sono apparse in coperta anche una cavalletta, una farfalla, una vespa e un calabrone: un completo corredo da entomologo. Con un canavaccio da cucina faccio una strage che, se da un lato mi libera dal fastidio e dai morsi (sono mosche che mordono, ho le caviglie piene di bolle), dall’altro trasforma Piazza Grande in un campo di battaglia. Ce ne sono di morte ovunque, sui materassi in cabina, nella dinette, sul piano cucina: uno schifo indicibile. In pozzetto, addirittura, ne trovo una matassa che inizialmente m’era sembrata di capelli. Prima di sera mi metto dieci minuti alla cappa e faccio una doccia saponata d’alto mare che mi restituisce la splendida sensazione di pulito. Almeno fino a quando scenderà la sera e arriveranno le zanzare. Ma se l’anno prossimo andassi sulla Marmolada? Se costruiscono il porto, perché no!
  

Sulina, la chiesa sull’argine

Mentre consumo un pasto frugale a base di insalata, formaggio e frutta fresca, vedo sfilare al mio fianco le piattaforme galleggianti, petrolifere o non so cosa, ancorate al largo della costa rumena. Il Mar Nero settentrionale è poco profondo per via dell’apporto di sabbie dato dai grandi fiumi che sfociano in questa zona, il Danubio e il Dnepr prima di tutti, e questo fatto consente di posizionarle anche a molte miglia di distanza dalla costa. Alcune sono davvero enormi ma hanno almeno il pregio di essere perfettamente segnate sulla carta e segnalate visivamente con le dovute luci. Quello che invece lascia amplissimi margini di incertezza sono le molte aree segnate come minate: da chi e perché? La carta rimanda agli avvisi ai naviganti ma il Navtex non dice nulla a riguardo. Da qualche parte leggo che in quelle zone è consentita la navigazione solo alle imbarcazioni non magnetiche. Fantastico, vuol dire che per saltare su una mina devo proprio finirci sopra, non basta passargli vicino e attirarla a me! Confido che la fine della guerra fredda abbia raffreddato questi ordigni e che il mare sia stato bonificato o alternativamente ben segnalato. Insomma, la Romania è pur sempre nell’Unione Europea e in Europa non ci sono tratti di mare minato senza chiare segnalazioni. Credo si tratti semplicemente di zone per esercitazioni militari, come avviene da noi in Sardegna, e che, quando sono in atto, il mare sia pattugliato dalla Guardia Costiera per tenere lontane le imbarcazioni.
    

Memento mori

Poco prima di mezzanotte, il vento improvvisamente cala del tutto lasciandomi tristemente abbonacciato. Sono diretto a Sulina, un paese adagiato sulle sponde del Danubio, lungo uno dei bracci che formano il delta, e ho ancora più di trenta miglia da fare. Non ho fretta e se non c’è vento, non vale la pena di passare la notte senza dormire, dato che, essendo sottocosta, non è il caso farlo in navigazione navigazione. Accosto qualche grado a sinistra e dirigo verso Sfintu Gheorghe, un’altro braccio del fiume, questo non navigabile per via dei bassi fondali. Avevo però visto, mentre preparavo il Piano B senza cui non prendo mai il mare, che c’è una sorta di rada, lunga alcune miglia, dove alcune zone sono sufficientemente profonde per ancorare. C’è un solo problema: è notte e la carta nautica avverte che a causa del riversamento in mare delle sabbie fluviali, le batimetriche possono differire significativamente da quelle riportate. Quando sono nei pressi avanzo con il motore al minimo e l’occhio fisso sull’ecoscandaglio e un paio di volte sono costretto a cambiare rotta dopo aver visto avvicinarsi pericolosamente quota due metri. Certo, il fondo è sicuramente fangoso e quindi non sarebbe un dramma, ma sempre meglio evitare un incaglio, soprattutto notturno. Alla fine calo l’ancora su un fondale di circa due metri a quasi mezzo miglio dalla costa, ma va benissimo. Poco distante intravedo alcune luci, forse piccole barche alla fonda: gli unici segni di vita che rilevo. L’aria è calda e molto umida, praticamente ferma; accendo la luce in testa d’albero e me ne vado felicemente a dormire.
  

Calafatando

Mi sveglio che sono appena le sei, il sole è sorto da poco e mi sembra di cogliere i segni di un vento favorevole, per altro annunciato dai bollettini meteo. La luce mi da l’esatta percezione del posto dove mi trovo: un’ampia baia dove regnano inconstrastati la natura ed il silenzio. Sulla riva, il verde degli alberi contorna una lunghissima lingua di sabbia completamente deserta. Solo in lontananza scorgo la sagoma di una nave, forse militare. Effettivamente, ieri notte ho sentito delle voci alla radio ma ho preferito ignorarle pensando che se non potevo fermarmi qui, che almeno fossero venuti di persona a mandarmi via. Recupero l’ancora e insieme tiro su qualche chilo di fango; la lascio quindi appesa al musone perché si sciacqui un po’ prima di riporla nel suo gavone. Poi imposto l’autopilota, metto a segno le vele e dopo qualche ora avvisto il faro di Sulina davanti alla mia prua. Il vento è sostenuto, non meno di venti nodi, ed entrare in un fiume la ritengo una delle manovre più rischiose che ci siano, per la quale ciascuno ha la sua tecnica preferita. La mia prevede motore su di giri, la sola vela di prua aperta e ancora libera da qualunque ritenuta, pronta ad essere calata in un attimo. Appena sulla destra dell’ingresso, giace sferzato dalle onde il relitto semiaffondato di un cargo, quasi a rammentare a chi passa di qui la pericolosità del luogo.
 

A vela nel grande fiume

Piazza Grande avanza decisa dentro il fiume, con il vento che la spinge da un lato e la corrente che la spinge dall’altro, e io vengo subito catturato dalla meravigliosa atmosfera danubiana. Stormi di  gabbiani, cormorani e cicogne volteggiano sulla mia testa per poi andarsi a posare lungo le sponde a contendersi a colpi di becco il frutto di una battuta di pesca. Per alcune miglia, i bassi argini artificiali mostrano un mare agitato sopravvento e una spianata di acqua verde sottovento. In mezzo, una lingua d’acqua dolce ritorta a tratti dalla forte corrente e percorsa da piccoli gozzi, lunghi e affusolati, spinti da moderni e potenti fuoribordo. La torre dell’Autorità Fluviale, addobbata di antenne e radar come l’albero di Natale di un centro commerciale, svetta sulla vegetazione e su alcune costruzione basse ad uso industriale apparentemente abbandonate. Un rimorchiatore si stacca da un molo e si dirige verso il mare, probabilmente per accogliere qualche grossa nave in arrivo. Qua e là, alcune gru e qualche relitto in avanzato stato di decomposizione. Incrocio molte chiazze galleggianti di vegetazione che provengono da chissà dove, chissà da quanto lontano: brandelli di continente trascinati verso il mare. È strano pensare che quest’acqua su cui sto navigando sia già passata sotto i ponti di Vienna, Budapest, Belgrado. Poi, la sagoma di un centro abitato e un lungofiume attrezzato per il passeggio mi dicono che sono arrivato a destinazione. Ora ho due problemi da risolvere: il primo, dove ormeggiare; il secondo, in che modo, perchè con la corrente e il vento laterale così forti, da soli è praticamente impossibile.
 

Un ormeggio difficile

Provo a contattare l’Harbour Master nella speranza di avere indicazioni e supporto ma si ripete il solito copione e le mie chiamate sul VHF restano inascoltate. Un uomo, intanto, ha notato che mi aggiro un po’ sperduto e mi fa cenno di accostare ad un pontile galleggiante di ferro. Colgo al balzo l’offerta e con il suo aiuto e un po’ tensione per il rischio di fare danni seri, porto a termine l’operazione in modo indenne. Ho messo ovviamente tutti i parabordi che ho dal lato di accosto e ora li vedo tremendamente compressi perché il vento mi schiaccia davvero con forza contro il pontile: ho il reale timore che ne possa scoppiare qualcuno. Inoltre, l’intenso via vai di barchini, provoca continuamente onde e risacca e che fanno ballare Piazza Grande come una marionetta. 

«Resta pure qui» mi dice Daniel, così si chiama il tale che mi ha aiutato, «vedrai che stasera i barchini si fermano e tutto diventa tranquillo».
Io mi chiedo invece come diavolo farò domani, o quando sarà, a lasciare quest’ormeggio, perché con la corrente così forte, appena mollo lo spring che mi tiene, in un attimo sono addosso alle barche alla mia poppa. Nel frattempo, per non sbagliare, invito Daniel a bordo per una birra, per sdebitarmi in qualche modo della sua cortesia e per il piacere di due chiacchiere con un locale. Quando scende la sera, noto che le due sponde del fiume sono illuminate con file di luci verdi e rosse, a dritta e a sinistra, per segnalare il percorso alle imbarcazioni in entrata. Io sono a sinistra e l’atmosfera è un po’ da Lanterne rosse, ma è bellissimo ed effettivamente è sparito tutto il traffico fluviale. Buonanotte e sogni d’oro!
 

Vicini d’ormeggio

Mi sveglio intorno alle sette, faccio il caffè poi vado in bagno.
«
Toc toc
», sento bussare sulla murata. Accidenti, proprio adesso!
«
Chi è?
», urlo dalla mia postazione. «Polizia», risponde una voce.
Mi do una sistemata ed esco in coperta. Mi fanno le normali domande di rito, poi mi invitano a passare da loro.

«
Certamente
», rispondo, «pochi minuti e arrivo» e torno alla mia precedente occupazione.
«Toc toc»
Di nuovo?

«
Chi è?
»«Autorità Portuale»
Peggio che in Italia: cento corpi di polizia diversi e sempre nel momento peggiore. Stesse domande, stesse risposte, poi mi chiedo io stesso: riuscirò a portare a termine l’importante e delicato compito che stavo diligentemente svolgendo? Non è detto, perché di buon ora sono ripresi l’intenso traffico di barchini e la conseguente onda a complicare le cose.
Faccio il giro degli uffici che mi attendono e trovo funzionari preparati e gentilissimi. Finite le pratiche, soddisfo volentieri l’incredulità dei graduati:
«Ma veramente sei arrivato dall’Italia da solo fin qui?»

«Beh, più o meno sì»
«
Incredibile! E non ti annoi?
»
No, in mare mai, ci sono troppe cose da fare. È a terra che invece mi capita a volte di annoiarmi, soprattutto in posti dove non ci sono altri navigatori con cui fare quattro chiacchiere. E in Mar Nero di diporto ce n’è davvero pochissimo, praticamente niente.
 

Per le vie di Sulina

Passeggiando per Sulina si respira un’aria d’altri tempi. Essendo collegata con il resto della Romania esclusivamente attraverso il Danubio, per le strade ci sono pochissime automobili e qua è là mi sono imbattuto in trasporti di merce fatti con un carretto trainato da un cavallo. Le case sono basse, cinte da staccionate in legno, come a Paperopoli o a Topolina, e hanno tetti con la foggia tipica di questi luoghi, a volte in paglia o tegole, altre purtroppo in amianto; così tante da chiedermi come sia possibile non respirarlo. Spicca la cupola a cipolla di una chiesa ortodossa, sormontata dalla croce con doppio braccio e poggiapiedi e mi ricordo di aver letto che un paio di secoli fa da queste parti si sono uccisi fra di loro per stabilire come fosse realmente stata fatta la croce di Cristo: una questione teologica dirimente per la quale davvero valeva la pena di accopparsi. I pochi negozi hanno l’aria degli spacci di paese, quelli dove si trova un po’ di tutto seppure in limitatissimo assortimento. Il retro della cittadina ha strade di sabbia che si chiamano freddamente Strada 1, Strada 2, eccetera, oltre le quali ci sono orti e campi coltivati a mais, in un atmosfera rurale che ha davvero un sapore antico. Camminando ancora mi imbatto in alcuni edifici più moderni e molto squallidi, condomini dai muri scrostati e dalle linee architettoniche divenute vecchie senza alcuna speranza di diventare mai antiche.
 
  

Fiumaroli si nasce!

Per uno strano gioco di ingegneria acustica, mentre lungo il fiume c’è un gran via vai e conseguente rumore, qui c’è pace assoluta. Un anziano accovacciato davanti alla sua casa risponde sorridendo al mio cenno di saluto, una donna col fazzoletto in testa porta alcune buste della spesa da cui tracimano ciuffi di verdura a foglia larga, alcuni uomini sono intenti a riparare il fuoribordo di un motoscafo sollevandolo con un argano a mano, un gatto fugge via al mio passaggio, rifugiandosi dietro un muro. Dà una strana sensazione questo silenzio, è un silenzio da rumori artificiali, si sente solo il vociare delle persone, qualche cane abbaiare e un piacevole gracidare di rane di cui la notte si riempono le strade: è il brusio naturale della vita. La sera la gente passeggia per le vie poco illuminate, alcuni bambini si rincorrono, uno di loro cade e piange per un solo minuto, il tempo necessario a trovare la consolazione della madre. Alla fine andando in giro per il mondo ti rendi davvero conto che il mondo è ovunque tranquillo, fatto in maggioranza di persone tranquille, e che le generalizzazioni, se non le mistificazioni, dei mass-media, fanno unicamente il gioco di chi ha interesse a creare tensioni fra le genti. Un’upupa si alza improvvisamente in volo e va a nascondersi dietro una fronda, distogliendomi bruscamente dai miei pensieri.
  

Lo shtetl

Sulina sembra un shtetl, uno di quei villaggi dell’Europa orientale dove, fino alla metà del secolo scorso, risiedeva la popolazione di religione ebraica. La parola sthetl è un diminutivo del tedesco stadt che significa città. Una cittadina, quindi, e l’etimo tedesco ci ricorda anche che l’yiddish, la lingua che parlavano quelle persone, è appunto un miscuglio di ebraico e tedesco. Ignoro se qui abitino o abbiano mai abitato degli ebrei, ma ho davvero l’impressione di un salto indietro nel tempo. Si assiste alla rappresentazione di un modo di vivere che appartiene al passato e che altrove si è perso da almeno un paio di generazioni. Qui sopravvivono i fiumaroli, quelli che vivono sul fiume e dal fiume ricavano di che vivere, svolgendo i tanti mestieri legati ai corsi d’acqua dolce. Sul lungofiume incontro persino un calafato, un uomo anziano intento a pressare con un martello di legno della stoppa negli interstizi delle tavole di legno della sua piccola barca. Riusciamo a comunicare solo a gesti e mi fa capire che una barca nuova costa troppo e che per questo è costretto a riparare quella che ha. Alla fine è il denaro a muovere il mondo, a dargli la direzione, e la sua mancanza ha almeno il pregio di preservare gli antichi saperi, evitando che un gozzo di legno termini la sua esistenza ardendo in un camino, sostituito da una barca di plastica che diverrà vetusta in pochi anni e il cui smaltimento contribuirà a produrre quell’inquinamento che prima o poi finirà con l’uccidere il mondo stesso. Con la beffa di chiamare tutto ciò progresso.

Il nuovo che avanzava

La pompa comunista


Chi non è comunista a vent’anni è senza cuore, 
chi è comunista a quaranta è senza testa.

(Anonimo)

 

Con la prua puntata su Varna, affronto la prima sventolata di questo viaggio in Mar Nero: una bolina piuttosto dura, con circa venticinque nodi di vento e onda corta e ripida. Piazza Grande tiene comunque un bel passo e le quaranta miglia che abbiamo da percorrere sembrano scorrere rapide, seppure certamente in modo poco comodo e rilassato. D’altra parte, se il mare fosse sempre placido e tranquillo e le veleggiate sempre sospinte da brezze leggere, navigare sarebbe noioso. Tutto, alla fine, stanca ed è al male che talvolta va ascritto il merito di farci apprezzare il bene o, almeno, di farcelo riconoscere. Poi capita che improvvisamente il male si trasformi in peggio e divenga a sua volta bene, se non in senso assoluto, certamente da un punto di vista relativo. E il mare, a breve, me ne darà la dimostrazione.

Di bolina

Intorno all’una, dopo alcuni lunghi bordi e relative virate, il vento improvvisamente cala e nel giro di mezzora svanisce del tutto, lasciando le vele a sbattere inerti e vuote mentre l’onda residua ci sbatacchia impotenti qua e là. Rollo il genoa e accendo il motore ma, dopo neanche cinque minuti, fa un paio di starnuti e si spegne: eccolo il peggio! Provo senza successo a riavviare ma, pur non essendo un esperto meccanico, mi pare di aver colto negli ultimi sussulti i segni della mancata alimentazione. Lasciando che Piazza Grande scarrocci nella tanta acqua che abbiamo sottovento, faccio tutte quelle cose che si fanno in casi del genere, dallo spurgo della nafta al controllo dei filtri, che comunque avevo sostituito o pulito non più di un mese fa. Inizio poi a scollegare progressivamente i tubi che portano il carburante, provando succhiare e avendo la conferma che il circuito è ostruito. Provo anche a soffiare, nella speranza di sturare, ma non ottengo niente se non delle labbra che mai nessuna donna vorrebbe baciare e un alito che annichilirebbe qualunque cellula olfattiva. Mi consulto telefonicamente con un amico, il quale mi dà un suggerimento furbo: prova a soffiarci dentro con il gonfiatore del tender. Eureka! Rimonto tutto, spurgo a dovere e rimetto in moto. Riprendiamo il cammino interrotto, con il timore che di nuovo la morchia, perché è evidente che di morchia si tratta, possa di nuovo intasare tutto. La morchia, detto semplicemente, è sporcizia, impurità e perfino alghe o batteri che si addensano e che Dio solo sa come possano vivere e prosperare tra i miasmi degli idrocarburi dentro la piccola cubatura di un serbatoio. O forse, più che a Dio, bisognerebbe chiederlo a Darwin, in genere è più informato su queste cose.
  

Lo Yacht Club di Varna

Entriamo in porto, dopo qualche ora, con il timore che il motore possa spegnersi di nuovo proprio nel momento peggiore. Sono comunque pronto ad aprire le vele o calare l’ancora nella malaugurata ipotesi che ciò avvenga. Acclarato che qui in Bulgaria sul VHF non risponde nessuno, cerco lo Yacht Club seguendo le indicazioni del portolano, mentre scorgo una camionetta della polizia con quattro uomini in divisa in testa al molo. «Vuoi vedere che ci stanno aspettando?», dico a Giovanna. Rigidi, formali e impassibili ci chiedono di visionare i documenti e ispezionano la barca per verificare che non abbiamo carichi o persone non dichiarate. «Da, da, Piaza Grandi», sento che dicono parlando via radio con la centrale. L’esito positivo del controllo pare sciogliere i loro algidi cuori: «Buono viagio, arivedderci», mi fanno con un sorriso pieno e sincero. Stappo una Burgasko, la buona ed economica birra bulgara, e festeggiamo di essere arrivati senza danni in porto. Ora, però, inizia la via dolorosa, quella che condurrà all’eliminazione della morchia dal serbatoio. Ma domani: stasera passeggiata sul corso e cenetta in un ristorante tipico dove, grazie al WiFi, ricevo la mail del signor Penev, del marina di Burgas, dove già sono stato un paio di notti nei giorni scorsi, che mi informa che purtroppo non hanno posti in transito per me. Penev: nomen omen.
   

Varna, la spiaggia

Quando vado a registrarmi all’ufficio dello Yacht Club (chiamiamolo così, dai!), conosco Tony, che parla sia un po’ di inglese che di italiano, e in un cocktail linguistico mi racconta di aver lavorato molti anni come macchinista sulle navi da crociera. Colgo la palla al balzo e gli spiego il mio problema: «Devo togliere e mettere da qualche parte i cento e più litri di nafta che stanno nel serbatoio, in modo di poterlo poi pulire». «Ti presto io le taniche e una pompa, tu intanto svuota tutto poi, più tardi, vengo ad aiutarti.» «Fantastico, grazie! Verso che ora pensi di venire?», gli chiedo. «Intorno a mezzogiorno Saluto e ringrazio ancora, poi guardo l’ora sul telefonino e mi accorgo che è quasi l’una; mi sa tanto che intendeva dire domani, mi toccherà fare da solo. Intanto ripasso fra le mani questo strano attrezzo a manovella che mi ha lasciato, mai visto prima e dall’aspetto rozzo ed efficiente. Su un bordo ha una scritta in cirillico, chissà se è di fabbricazione russa; di sicuro ha qualche decennio di servizio sulle spalle. Ricordo che della tecnologia sovietica si diceva proprio questo: rozza ma efficiente. Poi quando un amico infatuato dell’ideologia anticapitalista si comprò una reflex Zenith, capii, confrontandola con la mia Canon, che forse era rozza e basta. Costava pochissimo, però, un vantaggio competitivo vanificato poi dall’apertura dei mercati ai prodotti cinesi, nati da quella sintesi perfetta di capitalismo e comunismo che si può definire schiavismo di Stato. Il peggio di entrambi i fronti sul piano umano, in buona sostanza, fornisce le merci migliori.
  

Pompa e taniche

E a proposito di zenith: è in quella posizione il sole quando inizio l’improbo lavoro. Fa un caldo atroce, ma non ho scelta, farò finta che sto facendo la sauna. Anzi, senza finta: la faccio sul serio. Alla fine per svuotare il gavone, succhiare tutta la nafta, pulire il serbatoio attraverso un buco largo poco più di una moneta da due euro, filtrare la nafta, riversarla nel serbatoio, ripulire con il sapone tutto quello che inevitabilmente si è sporcato, ecc, vanno via due giorni. Sono però nel posto ideale per farlo: un molo rozzo (ed efficiente!) dove se mi cade qualche goccia di gasolio in terra, che ovviamente provvedo a ripulire, nessuno ha da ridire e dove il via vai di barche e la conseguente onda è limitato agli Optimist della scuola vela. È davvero un ormeggio tranquillo, oltre che economico: circa 8 euro al giorno, comprese acqua e luce. Giovanna riparte e la sera sono l’unico a dormire a bordo; dall’altro lato del porto arriva il clangore delle gru che depongono i container sui mercantili ma, quando sto in cuccetta, è così ovattato da essere quasi piacevole anziché fast idioso. E un goccio di raki mi concilia ulteriormente il sonno.
 

Varna, il Teatro dell’opera

Sistemate le incombenze motoristiche, mi dedico alla visita di Varna, che ha diversi aspetti interessanti. La città si dipana sulla dorsale del corso principale, una lunga via pedonalizzata dove si alternano edifici in stile liberty e brutte costruzioni moderne. Tra quelle brutte spicca sicuramente l’hotel Cherno More (Mar Nero), un grattacielo solitario e squallido piantato nel mezzo del centro storico come Dracula pianterebbe un paletto nel petto delle sue vittime. Ai bordi delle strade, come e più che a Burgas, molte persone che arrotondano le loro misere entrate con piccolissimi commerci di merletti e fiori. Non hanno l’aria da mendicanti, anche se il loro aspetto non è certamente dei migliori; lo Stato sociale qui è quel che è e gli anziani soli non hanno davvero alcun sostegno, a parte una pensione che spesso non arriva a cento euro. Come in Cina, del capitalismo sono stati presi gli aspetti peggiori. La cosa curiosa dei bulgari è che hanno una forte componente xenofoba, soprattutto anti-islamica. Chissà se frutto della loro aspirazione di reintegrarsi con l’occidente dopo i decenni di dittatura sovietica o se è un fatto che affonda le sue radici nei secoli di dominazione ottomana. Resta il fatto che individuare un nemico esterno quale origine dei propri guai è il modo più semplice che ha un popolo di deresponsabilizzarsi e i politici disonesti di prendere voti per continuare a rubare. Da questo punto di vista, l’integrazione bulgara nella UE è già cosa fatta.
 

L’elicottero di Topolino

Visito un paio di musei interessanti: quello del mare, una collezione di artiglieria navale dei tempi della guerra fredda, e quello enografico, ospitato in un’antica casa borghese del Settecento, che però ha il difetto di avere i cartelli con le spiegazioni solo in bulgaro e le finestre tappate che creano un effetto sauna che mi riporta indietro di un paio di giorni, quando trafficavo con la pompa sovietica. Nel primo è esposta anche la barca a vela del capitano Georgiev, il primo bulgaro, dice la targhetta, ad aver girato il mondo per diporto. Sembra un Carter 33, una barca di serie dei primissimi anni Settanta; un viaggio relativamente recente quindi.
  

Varna

Una sera arriva in porto una barca con bandiera ucraina e a bordo una coppia di mezza età ed un gatto. Li aiuto nell’ormeggio, visto che il molo è deserto di autorità, e loro prontamente ricambiano con un bicchiere di non so cosa ma molto alcolico. Stanno andando in Grecia e suppongo che vengano da Odessa. «No, da Kiev, è li che teniamo la barca», mi fanno, «Per arrivare al mare ci sono cinquecento chilometri di fiume che possiamo percorrere perché abbiamo un sistema rapido per abbattere l’albero e passare sotto i ponti». Potessi anch’io abbattere l’albero rapidamente, quasi quasi ci fare un pensierino…
Intraprendiamo un cordiale scambio culturale: informazioni sulla Grecia in cambio di informazioni su Odessa, soprattutto per la parte burocratica. Mi danno alcune dritte che dovrebbero servire a scavalcare l’agente che per fare le pratiche di ingresso mi ha chiesto cinquecento dollari; qualcosa come un paio di stipendi medi per un’oretta di lavoro.
  

Ci passerò?

Prima di lasciare Varna voglio passare una notte all’ancora nel grande lago (o laguna) navigabile che si trova alle spalle della città e a questa collegato attraverso un canale accuratamente segnato con boe rosse e verdi. «Ma che ci vai a fare?», mi chiede Tony. Già, che ci vado a fare? Ci vado perché mi incuriosisce il posto e  perché dopo tanti giorni di porto ho voglia di un ancoraggio solitario. Mollo le cime e mi infilo nel canale, passo sotto un alto ponte stradale e mentre faccio ancora una volta la sauna, visto che il leggerismo vento che c’è è esattamente da poppa e si annulla con quello di avanzamento, una grossa nave alle mie spalle avanza lungo il mio stesso percorso dandomi la sensazione di un cane che cerchi di mordermi il sedere; affondo quindi la manetta del gas e mi tolgo di mezzo. Una volta dentro questa sorta di laguna, inizio a gironzolare: ci sono alcuni piccoli cantieri navali, alcune baracche lungo le sponde, un piccolo marina e molte persone che pescano dalla riva. In lontananza si vedono un paio di grosse navi che stanno facendo carenaggio e qualche piccolo insediamento industriale. Nel frattempo noto che l’acqua ha un aspetto davvero terribile, probabilmente qualche scolo fognario finisce qui senza alcuna depurazione ma, nonostante ciò, un paio di moto d’acqua si rincorrono allegramente schizzandosi a vicenda come fossero in un mare paradisiaco anzichè in una sorta di lago fecale, così insalubre che perfino le meduse, organismi generalmente resistenti, sono tutte a testa in giù, evidentemente morte. Spero proprio di non avere necessità di tuffarmi per spedare l’ancora o liberare l’elica da qualche pezzo di plastica.
 

Per favore non mordermi le chiappe!

Alla fine trovo un angoletto dignitoso, dove si sente lo stormire delle fronde degli alberi sulla riva, e mi metto alla ruota. Il sole cala rosseggiando dietro le gru, dietro una ciminiera, dietro una piccola barca a vela alla fonda e dopo cena mi distendo in pozzetto a prendere il fresco. Dalla riva opposta della laguna arriva di tanto in tanto lo sferragliare di un treno che corre via, la cui sagoma vedo scorrere fra le tante luci della costa. C’è un senso di pace incredibile; è sparito il calore soffocante del giorno e alla sensazione di refrigerio contribuisce psicologicamente anche il leggero sciabordio dell’acqua sotto la chiglia. Acqua o quel che è.
 

Atmosfera lacustre

Quando la mattina dopo ritorno in mare, mi sembra limpidissimo; tanto per rifarmi al discorso a proposito di male, bene e peggio. Sul filo di una bolina leggera, mi metto in rotta per Balchik, ultima tappa bulgara nonché porto dove farò i documenti di uscita dal paese. Mentre sulla destra scorre una costa molto rovinata da un’edilizia scriteriata, incrocio una boa che indica un bassofondo e che emette anche il segnale sonora. Bisogna riconoscere che le segnalazioni marittime in Bulgaria sono sempre accurate e ben mantenute, al contrario di quanto avviene in Italia: il faro di Fiumara, la foce del Tevere, è spento da decenni, tanto per citarne una. L’unico errore lo riscontro proprio entrando nel marina di Balchick: il fanale di ingresso sulla dritta è rosso anziché verde, ma il portolano mette adeguadamente in guardia da una situazione potenzialmente fatale. L’altra sorpresa di questo marina è il prezzo: trenta euro. Poi, però, realizzo che gli unici due porti cari di tutta la Bulgaria sono questo e Tsarevo, cioè i due sui confini nord e sud, quelli dove è più ovvio fermarsi per fare i documenti. Si tratta, quindi, di semplice speculazione. C’è vento forte quando entro e nessuno che mi aiuti per quello che, in solitaria, è l’ormeggio a mio avviso più complicato: il finger. Considerato il costo della sosta, almeno un paio di braccia che raccolgono le cime potrebbero tenerle pronte. E magari mettere anche una doccia calda!
 

Balchik

In città l’attrazione più interessante è il palazzo che negli anni Venti fece costruire la regina Marie, moglie di Ferdinando di Romania, quando questo tratto di costa apparteneva, appunto, al regno di Romania. Forse palazzo è un termine esagerato per una costruzione di queste dimensioni, è poco più di una villetta borghese, anche se è sicuramente interessante dal punto di vista architettonico, sopratutto per la piccola torre modellata sulla forma tipica dei minareti turchi e per il bellissimo giardino. Prima di tornare a bordo faccio un salto negli uffici della polizia di frontiera, nella speranza che ci sia un modo per non dovermi domattina spostare al loro molo, un colata di cemento corta e bassa contro cui lasciare facilmente le penne. Mi rispondono con estrema cortesia e disponibilità, ma non c’è nulla da fare: domani mi tocca la manovrina al cardiopalma. Nel frattempo i bar del porto si sono predisposti per la sera: i tavolini cominciano a riempirsi di gente che mangia, beve o tutte e due le cose insieme. L’attività mandibolare degli avventori è accompagnata dalla musica italiana d’antan, soprattutto Eros Ramazzotti e i Ricchi e poveri, un ascolto cui mi sottopongo malvolentieri, che ha però l’indubbio pregio di farmi andar via da qui senza troppi rimpianti. Punto la sveglia per domani, quando “sarà, sarà l’aurora“, e penso che forse, cara Bulgaria, se sono qui “sarà perché ti amo!

L'Uomo Nero


“Ninna nanna ninna oh, questo bimbo a chi lo do?
Lo darò all’uomo nero che lo tiene un anno intero.”

(Filastrocca tradizionale italiana)

C’è una linea invisibile, a volte sottile altre più marcata, a volte nitida altre appena sfumata, che ci separa dall’ignoto. Al di qua c’è il consueto o, nei casi peggiori, la routine; al di là c’è la scoperta o, nei casi peggiori, il pericolo. Varcare la soglia del mondo conosciuto, se anche ci priva del conforto dell’esperienza, è sempre un momento emozionante, di crescita; a patto, ovviamente, di avere una mente curiosa e il cuore aperto alle novità. E se anche viviamo in un mondo ormai già tutto esaustivamente esplorato, la modalità con cui approcciamo un luogo o un contesto può ancora porci in una condizione di esplorazione, cosa che il luogo e il contesto di per sé non sarebbero in grado di fare.
Una pioggia fine ed insistente cade leggera sulla coperta di Piazza Grande che avanza lenta in un mare grigio e deserto, dopo una notte intera di navigazione. Un cormorano con il collo completamente proteso in avanti vola radente all’acqua sbattendo rapido le ali; all’improvviso si tuffa e sparisce per qualche istante per poi riemergere, a becco vuoto, da una battuta di pesca evidentemente infruttuosa.
 

Il porto di Tsarevo

Scruto l’orizzonte tutto intorno a me e ho quella meravigliosa sensazione di benessere psicofisico che provo ogni volta che navigo in solitaria, un misto di rilassatezza e gioia che scaturisce dal fare ciò che amo: navigare. Un’occhiata alla carta nautica sullo schermo del computer mi rivela quello che allo sguardo è ancora celato dalla leggera foschia: sono a pochissime miglia da Tsarevo, la mia meta, la mia prima destinazione in Mar Nero. I miei occhi cercano impazienti elementi che mi aiutino a dare un volto, una connotazione, a questo mare, quasi sconosciuto e non frequentato da diportisti, men che mai, a parte rarissime eccezioni, mediterranei.
 

Tovarish!

All’imboccatura del porto chiamo sul VHF, provando diversi canali ma senza ottenere alcuna risposta. Entro e dirigo verso il molo che il portolano indica per il diporto, un tratto di banchina dove sono ormeggiate un paio di piccole barche dall’aspetto vetusto e trasandato. Un uomo mi fa il cenno di alzare una trappa, quindi accosto di poppa e gli lancio le mie cime. Republic Bulgaria – Port Tsarevo, dice un enorme cartello in inglese e in bulgaro, ovvero in caratteri cirillici dato che qui si usa questo alfabeto. Dice pure qual è il canale che dovevo chiamare sul VHF, il 73: ancora una volta diverso da quello indicato dal portolano, ma avevo provato anche questo senza successo.     
 

Proprio Nero non sembra…

In banchina trovo tre persone ad aspettarmi: un poliziotto in divisa e due uomini uomini in abiti civili: il direttore del porto e un marinaio suo sottoposto. Con fermezza e cortesia il poliziotto mi fa alcune domande sulla mia provenienza, poi chiede il permesso di salire a bordo per controllare che non trasporti qualcosa di proibito, sia esso merce o clandestini. Terminata l’ispezione, mi dice di seguirlo nel suo ufficio, un edificio moderno e ben attrezzato che sarebbe in grado di svolgere le funzioni dell’autorità frontaliera in un aeroporto di medie dimensione, ma che suppongo veda transitare non più di un paio di forestieri al mese. Il poliziotto, oltre che cortese, è preparato (è ancora vivo nella mia mente il delirio di un paio di giorni prima con la polizia turca) e in venti minuti sono pronte le autorizzazioni che mi servono per navigare in Bulgaria. Poi vado alla direzione del porto, dove il responsabile si dichiara grande amante dell’Italia e in mio onore inizia a cantare il peggio della musica leggera nostrana degli ultimi cinquant’anni: solo al terzo refrain comprendo che l’annunciata La mia amica di stasera di più è in realtà Cara amica di una sera dei Pooh. Faccio un sorriso di circostanza che, vuoi per la stanchezza, vuoi per le stonature e le storpiature linguistiche che ascolto, esce un po’ stiracchiato.
   

Reperti del tempo che fu

Dopo una indispensabile dormita, faccio due passi in città, in realtà poco più di un paesotto decisamente anonimo. Si chiama Tsarevo perché pare fosse frequentato dagli Zar (Tsar), un nome ripristinato dopo la parentesi sovietica in cui era stato ribattezzato Michurin, in onore di uno scienziato russo; nome che alcune carte riportano ancora.  Fa caldo e in giro non c’è quasi nessuno; cerco un po’ di fresco in un bel parco che si affaccia sul mare e in cui trovo alcune giostre e giochi che non vedevo dalla mia infanzia, come il punchball che misura la forza del pugno che riceve o il volante che muove un piano su cui far scorrere una biglia senza che cada nelle buche lungo il percorso. L’abitato non ha davvero alcuna attrattiva, ha l’aria del luogo di villeggiatura senza villeggianti, quindi piuttosto triste, ma se anche fosse pieno non sarebbe certo un posto che apre il cuore. Un paio di banchetti vendono reperti dell’era comunista, decorazioni al valore senza ormai alcun valore, neanche affettivo visto che con un pugno di spicci chiunque se li può portare via. Sic transit gloria mundi, ammesso che di gloria si trattasse.
 

Qualche danno l’hanno fatto

I bulgari, comunque, paiono socievoli: sono cortesi e se parlano inglese mostrano il desiderio di scambiare due parole e volentieri danno indicazioni. Direi che l’immagine che si era delineata dopo il loro coinvolgimento nell’attentato al papa è assolutamente archiviata: è gente mite, tranquilla e solo alcune rare macchine sportive di grossa cilindrata, vecchie e attrezzate con il meglio degli optional tamarri sul mercato, lasciano intendere che qualcuno, del nuovo corso, ha preso il peggio. Da quando sono qui mi risuona nella testa la canzone di Elio e le storie tese, Il ballo del pippéro, che parlava in toni scherzosi proprio di quell’ultimo brandello di guerra fredda consumatosi in Piazza San Pietro per mano di un turco, armato, così dissero le cronache del tempo, dai servizi segreti bulgari.
   

Così dal Mare d’Azov a Bodrum

All’ormeggio sono affiancato a una barchetta davvero piccola, intorno ai sei metri, con bandiera russa. A bordo una coppia sulla sessantina con cui tento uno scambio verbale in un misto di gesti e inglese minimo. Vengono dal Mare d’Azov, un bacino chiuso che si estende a nordest del Mar Nero in territorio russo, e sono diretti a Bodrum, nella Turchia egea. «Un viaggio molto lungo con una barca così piccola», gli dico, «complimenti!». Definire spartana la loro imbarcazione è riduttivo e quasi insultante per gli abitanti dell’antica Grecia: non ha nulla, neanche la battagliola. Provo una sincera ammirazione per loro, per la loro determinazione e forza d’animo di mettersi per mare in questo modo. Penso ai tanti “grandi diportisti” di casa nostra che attrezzano le loro barche depredando negozi di elettronica e ship chandler e che senza l’ultimo modello di bozzello al titanio foderato in spectra non affronterebbero mai la terribile tratta Porto Santo Stefano-Isola del Giglio. «La vostra barca ha un aspetto robusto, è di ferro.» «Non è ferro», mi rispondono battendo le nocche sulla coperta, «è bachelite; è sì robusta ma molto economica.» Resto di stucco, ho a bordo un paio di bozzelli in bachelite (negli anni Trenta/Quaranta con la bachelite si costruivano gli apparecchi telefonici) ed effettivamente una volta ho provato a segarne a mano uno senza successo, ma non ho mai sentito di barche costruite con questo materiale; ignoro come si lavori e quali siano i costi di produzione. Mi chiedono alcune informazioni sulla Turchia e volentieri dico loro quello che so, poi infine ci congediamo con un reciproco buon vento.
 

Un’icona del passato

Quando mi raggiunge Giovanna, un’amica che navigherà con me per alcuni giorni, tentiamo la sorte in un ristorante locale, ma forse non incappiamo in quello giusto perché la qualità del cibo che ci servono è decisamente scadente. Almeno a me pare così, Giovanna, invece, è più di bocca buona. La cucina bulgara sembra comunque avere influenze da quella greca e da quella turca, oltre che da quella slava: segni tangibili di interscambi culturali e di dominazioni subite nei secoli passati.
Al momento di pagare il porto, scopro che per sedici centimetri Piazza Grande paga il doppio. Praticamente sono circa quindici euro fino a 10,68 metri fuori tutto, poi diventano trenta fino a 12,34. Mi chiedo sui multipli di quale antica unità di misura sia stato costituito il tariffario per essere ripartito su cifre così frazionarie del sistema metrico decimale, qualcosa tipo la spanna slava dell’IX secolo o la pertica reale dell’imperatore Svetoslav. Oltre al salasso (trenta euro a notte qui è davvero una cifra folle) devo subire un nuovo ascolto de “La mia amica di stasera di più” dalla voce del direttore. Stavolta, però, restituisco la cortesia facendo il coro!
 

Sozopol, rovine dell‘antica fortezza

Una navigazione breve e tranquilla ci conduce a Sozopol, una delle città di questa zona che più mi interessano. Ci fermiamo davanti all’imboccatura del porto e ci gustiamo un meraviglioso tramonto prima di passare la notte all’ancora nella calma assoluta. La mattina successiva entriamo in porto, anzi in marina (è un marina!), ignorati, come al solito, sul VHF. C’è vento, non meno di una ventina di nodi, e senza qualcuno che mi prenda le cime non mi fido di manovrare. Fra l’altro non vorrei scegliere il posto sbagliato ed essere poi costretto a spostarmi. Dopo dieci minuti a zonzo fra i pontili, sbuca una tale che vuole che mi metta all’inglese in fondo a un budello dove, con questo vento, non uscirei se non tirato da un rimorchiatore. Declino l’offerta e gli indico invece una zona con parecchi posti liberi; mi fa segno che va bene e in pochi minuti siamo sistemati. Il marina è bello e curato ma meno caro di Tsarevo e il personale in ufficio parla un ottimo inglese; e soprattutto non canta i Pooh! Nella zona commerciale del porto stazionano alcuni pescherecci e un paio di motovedette, tanto vecchie e malandate che portano a chiedersi se la paura della capacità militare del Patto di Varsavia che avevamo trent’anni fa non fosse esagerata.
 

Tipiche case di Sozopol

Sozopol, l’antica Apollonia fondata dai Greci nel ‘600 a.C., è davvero deliziosa. È un agglomerato di case rivestite di legno, adagiato su un piccolo promontorio. Le abitazioni, tra i cui tetti svetta una piccola cupola dorata con in cima una croce ortodossa, ricordano quelle del Trentino e in mezzo ai vicoli si respira un’aria verace, quella di un posto non ancora raggiunto, o almeno non invaso, dal turismo di massa. Una vecchia Trabant, l’utilitaria che furoreggiava in epoca comunista, è parcheggiata davanti a un ristorante, ben restaurata e probabilmente esposta per attirare clienti in cerca di stereotipi che evidentemente hanno ormai fatto il loro tempo. Davanti agli usci, molte donne vendono i loro manufatti: centrini ricamati all’uncinetto (un articolo nei cui confronti ho maturato un odio viscerale durante l’infanzia a causa di una prozia che ci ha infestato il soggiorno regalandocene a vagonate) e marmellate fatte in casa. Mi avvicino a un banchetto e ne prendo in mano un barattolo: Fig marmalade, dice l’etichetta, marmellata di fichi. La signora che li vende, quando capisce che siamo italiani, ci tiene a tradurre personalmente: «In italiano, marmellata di figa!». Ostento imperturbabilità ma non ho il coraggio di rivelarle l’equivoco.
A sera, in porto, il sole ci regala uno spettacolo fantastico, infuocando il cielo e riflettendosi sulle nuvole che vanno addensandosi sopra di noi e che nella notte porteranno un po’ di pioggia.

  

Burgas, il porto commerciale

L’indomani lasciamo Sozopol alla volta di Burgas, dove arriviamo intorno all’ora di pranzo, dopo quattro ore di bolina tranquilla. Entriamo nel grande porto commerciale ma, prima di dirigermi verso la zona riservata al il diporto, faccio un giro di perlustrazione nel bacino, curiosando fra le navi e le gru, in un atmosfera calda e assolata e con tratti di fatiscenza nelle strutture ma, almeno ai miei occhi, decisamente affascinante. Come è ormai prassi, al VHF non risponde nessuno e neanche in banchina le poche persone che ci sono sembrano notare che da un quarto d’ora facciamo avanti e indietro davanti al molo dello Yacht Club, un nome altisonante quanto vacuo viste le apparenze. Le poche barche che ci sono sono ormeggiate con le cime di poppa e la prua fissata a un gavitello. Ne adocchiamo uno libero e, pur nel dubbio che sia sufficientemente robusto per Piazza Grande, Giovanna lo afferra e poi rapidamente ci passa dentro la cima già predisposta sulle gallocce di prua. Lascio che il poco vento faccia ci faccia ruotare, poi si pone il problema di come vincolarci al molo, visto che le poche persone che c’erano sono sparite, forse erano operai andati in pausa pranzo, e la banchina è troppo alta per saltarci su.
 

Commerci minimali

Rimaniamo dieci minuti buoni in questo limbo, schiumando dal caldo e cercando una non facile soluzione, finchè vedo avvicinarsi a passo rapido un poliziotto. Meno male, penso, ora gli passo le cime. Invece, quando faccio il gesto di lanciargliele, mi chiede di dargli i documenti. Chissà come pensa che possa farlo, a due metri da lui! Alla fine capisce la situazione e si convince a darci una mano. «Da dove venite?», mi chiede. «Da Sozopol», rispondo. «Ah, allora tutto ok, arrivederci» Una verifica sulla fiducia, misteri della burocrazia bulgara.
Come la banchina, anche l’ufficio dello Yacht Club è deserto. Provo a chiedere a qualcuno ma non ottengo informazioni utili a capire se posso restare, se devo registrarmi e quanto devo pagare. Anche perché io chiedo in inglese e tutti mi rispondono in bulgaro. Ok, in dubio, pro reo! Metto un paio di spring per allentare lo sforzo del gavitello di cui continuo ad ignorare la resistenza, poi ce ne andiamo a visitare la città.
  

Piazza Grande nel “marina” di Nesebar

Da Burgas non mi aspettavo granché e infatti la trovo brutta e piuttosto squallida; in più il caldo afoso mortifica qualunque tentativo di cercare qualcosa di interessante. Anche qui, per le strade, anziane donne vendono centrini ed altri oggetti di scarso valore, oppure, in cambio di una moneta, offrono la pesatura su una bilancia domestica poggiata sul marciapiede, segno che il nuovo corso postcomunista non riesce a dare di che vivere dignitosamente a tutti. I pensionati soprattutto, si ritrovano con un mensile calcolato con gli stipendi del tempo che fu e un costo della vita oggi analogo a quello dell’Europa occidentale; così chi non ha più l’età per andare in Italia a fare la badante si arrangia come può. In una delle piazze sopravvive un monumento all’Armata Rossa; un soldato in cima ad una grande stele tiene un braccio alzato mentre avanza fiero verso non si sa cosa: il nemico, il sol dell’avvenir o forse, più modestamente, l’entrata del casinò che sta di fronte, icona fasulla di un modello occidentale di cui evidentemente i bulgari hanno preso il peggio.
 

Cacciate i mercanti dal tempio!

Dopo Burgas ci muoviamo alla volta di Nesebar, città tutelata dall’Unesco che però si rivela una delusione. La visuale di tutta la città antica, fino a 3 metri d’altezza, è oscurata dall’esposizione di souvenir di probabile fattura cinese, mortificando quello che invece sarebbe davvero un posto interessante: passeggiando per i vicoli antichi, si ha l’impressione di girovagare fra le corsie di un supermercato dozzinale. Tutto intorno, la devastazione urbanistica: milioni di metri cubi di squallide costruzioni moderne che sfregiano irrimediabilmente il territorio. In mezzo a questo mercimonio, scopriamo casualmente una chicca: un’antica chiesa bizantina con affrechi votivi di pescatori splendidamente conservati che ci lascia davvero senza fiato.
Siamo ormeggiati all’inglese in quello che teoricamente è un marina ma in pratica è una banchina di cemento malamente protetta. Così, quando alle tre di notte gira il vento, siamo costretti dalla risacca mollare l’ormeggio e dare ancora nella piccola baia a nord della città. Anzi, ancore: ce ne vogliono due, una a prua e una a poppa, per scongiurare una notte in bianco. Ovviamente il posto nel “marina” l’avevamo pagato, anche se non molto, in verità. Una piccola consolazione ce la da uno spettacolo imprevisto: fuochi d’artificio che qualcuno spara in aria per festeggiare non so cosa.
 

Spettacolo portuale

Comunque possiamo dirlo: il Mar Nero non è nero neanche un po’! Non è nera la sua acqua, anche se certo non è il top della trasparenza; ci sono molte meno meduse che nel vicino Mar di Marmara e ci sono invece tanti delfini; non c’è tutto il traffico navale che pensavo, anzi, non ce n’è quasi per niente se non attorno ai principali porti commerciali, e non si vede una barca da diporto neanche a pagarla; le persone sono socievoli; il paesaggio, dove la linea di costa non è stata invasa da orribile alberghi edificati con i soldi dei russi di cui i bulgari continuano ad essere strenui ammiratori, è gradevole e spesso boscoso. Sono contento di essere qui, sento che ho scelto bene la mia rotta, un tracciato nato dalla curiosità di vedere cose nuove, inconsuete e forse anche di esorcizzare la paura dell’Uomo Nero, il mostro che da piccoli ci hanno detto che era lì ad attenderci, subito fuori dal sentiero battuto. Perché, non neghiamolo, ogni volta che intraprendiamo una nuova navigazione, che affrontiamo un mare a noi sconosciuto, abbiamo dentro quel pizzico di timore che ci deriva dalla paura dell’ignoto. Un’apprensione moderata e positiva che ci mantiene alto il livello di attenzione: quello che serve, nel caso lo si incontri davvero, ad affrontare l’Uomo Nero.

Il giorno delle locuste


Le cavallette non hanno un re, eppure marciano tutte insieme schierate.

(Salomone, Libro dei proverbi)

Le mani sciolgono rapide il nodo sulle gallocce di poppa, liberandomi dai legacci che mi trattengono al molo. La marcia avanti ingranata al minimo allontana Piazza Grande dalla banchina facendole riguadagnare lentamente il mare aperto. Volto la testa per un ultimo sguardo, un cenno di saluto alla cittadina che ormai sento mia e che mi ha fatto suo, ricevendone altrettanti sguardi e saluti.
Fuori dal canale di Poros il vento soffia leggero da sud, condizione ideale per un primo test stagionale per barca e comandante. Il programma è fare poche miglia per verificare che tutto sia a posto, che i sei mesi di pausa invernale non abbiano intorpidito entrambi. È inconsueto navigare da queste parti con venti meridionali, di solito in Grecia si viene in estate, quando il meltemi infesta il Mar Egeo rendendo difficoltoso, se non impossibile, dirigere verso nord.
Messe a segno le vele, comincio la ricognizione generale dell’attrezzatura, per quanto ancora sottoposta a sforzo lieve. Scoperchio la sentina, apro il vano motore, controllo le prese a mare: tutto è perfettamente asciutto. Anche in coperta tutto pare a posto; solo le sartie medie mi sembrano aver bisogno di essere leggermente tesate ma, visto il meteo, non c’è nessuna urgenza di farlo.
 

Una scena consueta nelle isole greche.

Apro il quaderno che ho comprato prima di partire e scrivo la prima pagina del diario di bordo, a mano, con la penna, ritrovando un piacere smarrito decenni fa, barattato con la comodità e l’efficacia della tastiera del computer. Scrivo il diario a mano perché lo trovo più rapido da aggiornare o consultare e per avere, nella malaugurata eventualità di un black-out elettrico, qualche riferimento per la navigazione non strumentale.
Ma la scrittura non è la sola cosa che ritrovo: tornano i gesti automatici e un po’ strani che faccio per muovermi senza sbattere da qualche parte e senza finire in acqua, torna la moka che bascula sul fornello mentre l’autopilota governa al mio posto, torna lo sciabordio leggero dell’acqua sullo scafo e tornano i gabbiani a volteggiare sopra di me. Ma soprattutto torna l’emozione interiore, quella meravigliosa sensazione che mi fa sentire vivo e che mi mette più che mai in contatto con me stesso.
«Perché vai per mare?», mi chiedono spesso. «Perché in mare mi trovo», è la mia puntuale risposta.
 

Skyros, il porto

Dopo qualche ora controllo di nuovo il Grib, il sistema di previsioni meteo che utilizzo maggiormente e che conferma il bollettino della partenza: 15 nodi da sud. In vista di Capo Sunion penso che si possa proseguire e sfruttare le condizioni favorevoli, magari anche oltre il Kafireas, il terribile stretto che con vento da nord è praticamente inaffrontabile. Non era in programma di cominciare il viaggio con una notte di navigazione, ma ho chiesto a Piazza Grande se se la sente e mi ha risposto di sì. Lo chiedo anche al resto dell’equipaggio, ricevendo la medesima risposta. Alla via così, allora; e mentre il sole rosseggia dietro le montagne dell’Attica mi godo questo primo tramonto per mare.
 

Un ristoratore ci insegna a riconoscere il sesso delle aragoste

In realtà una piccola avaria la riscontro: le luci di via di prua non si accendono. Per quanto ci si sforzi di controllare tutto prima della partenza, qualcosa sfugge sempre. Smontare il fanale senza farne cadere qualche pezzo in acqua è davvero un esercizio di equilibrismo, ma nel giro di mezzora risolvo e il rosso e il verde tornano a brillare rispettivamente a sinistra e a dritta, rilucendo nel buio sugli spruzzi che si alzano al frangere dell’onda.
Durante la notte incrociamo alcuni mercantili che procedono lungo la rotta dei Dardanelli, la stessa che a breve intraprenderà Piazza Grande; per il resto una navigazione tranquilla e rilassata che mi conferma di aver fatto la scelta giusta. All’alba, mentre un delfino solitario volteggia poco distante, avvisto Skyros, la meta di questo primo tratto di rotta, una rotta lunghissima che ha l’ambizione di condurre fino in Mar Nero, fino in Ucraina, fino a Odessa.
 

Skyros, libri in banchina a disposizione degli equipaggi

Diamo fondo in una piccola baia dove già tre anni fa ho passato la notte. C’era il meltemi quella volta e il ridosso era perfetto; ora invece entra un po’ di mare e la rada è praticabile solo per qualche ora di riposo prima di spostarci in porto. Skyros è bellissima: una natura giocosa l’ha divisa in due, con un segno di cesura quasi netto nel mezzo. Tanto è rigogliosa a nord, ricca di vegetazione ad alto fusto, quanto brulla e ricoperta di sassi a sud. Ha una pittoresca chora in stile cicladico, malgrado l’isola geograficamente e amministrativamente appartenga alle Sporadi settentrionali, e alcuni piccoli e sparuti agglomerati di case.
 

Piazza Grande in banchina a Skyros

Non ha un porto vero e proprio ma un molo piuttosto esposto che non la rende un rifugio sicuro in caso di maltempo. In compenso in banchina ci sono tutti i servizi, comprese le docce, la lavanderia, una sala con TV e Internet e uno scaffale per il bookcrossing, lo scambio di libri fra gli equipaggi. Non lo dite a nessuno, ma per tutto questo ben di dio, che comprende anche corpi morti e gommone di assistenza all’ormeggio, si pagano ben 8,5 euro a notte: giusto in filo meno che in Italia! E sempre in porto, la sera, risuonano le note di Così parlò Zarathustra di Strauss, diffuse puntualmente dal traghetto durante la non facile manovra di accosto.
 

Case in stile ottomano ad Aghios Efstratios

Dopo un paio di giorni a spasso, lasciamo Skyros alle sei di mattina in direzione di Aghios Efstratios, una piccolissima isola che mi incuriosice proprio per il fatto di essere piccolissima quanto remota. Un vento gagliardo da sud ci spinge vigorosamente, facendoci coprire le circa 60 miglia di mare in una decina di ore. Nel porticciolo c’è solo qualche piccolo peschereccio e poco distante alcuni pescatori intenti a sbrogliare le reti. Ormeggiamo all’inglese, siamo l’unica barca e di banchina libera ce n’è in abbondanza, ma preferisco mettermi sul lato esterno perché il vento è dato in rotazione e ho timore di restare incastrato se dovesse anche rinforzare (cosa che effettivamente avverrà producendo una notevole risacca). Efstratios è davvero lontana da tutto, così tanto che in passato è stata la destinazione coatta degli confinati politici, soprattutto comunisti, spesso morti di stenti su questo scoglio piantato nel mezzo dell’alto Egeo. Oggi la abitano circa duecento persone, quelle che si sono ostinate a restare dopo un forte terremoto che nel 1968 ha raso al suolo quasi tutte le abitazioni. Le poche ancora in piedi mostrano gli stilemi dell’architettura ottomana, denunciando la vicinanza geografica e culturale della Turchia.
 

Il cimitero degli esuli politici ad Aghios Efstratios

In compenso, l’isola è invasa dalle cavallette: milioni di esemplari che la infestano ovunque, spostandosi in nuvole che tappezzano i muri e le strade, saltando in ogni direzione al passaggio delle persone, distruggendo gli orti e i frutteti e rendendo impossibili le coltivazioni anche minime. Proviamo a chiedere le ragioni di una presenza così fastidiosa e quasi inquietante al curatore del piccolo Museo della democrazia, centro culturale che ricorda le vicende dei perseguitati politici. Pare che questi insetti abbiano un ciclo che può durare decenni, con picchi che si ripetono ogni dieci/venti anni, e che il prossimo anno ci sarà uno di questi apici. Ci dice che la difficile situazione di questo periodo è dovuta al tardivo intervento di disinfestazione che, per essere efficace, dovrebbe essere agito subito dopo la schiusa delle uova, quando le larve si raggruppano sui versanti dell’isola esposti al sole per riscaldarsi l’una con l’altra. Invece, forse per la solita mancanza di fondi generata da questa maledetta crisi economica che strangola la Grecia, l’intervento del governo si è limitato a qualche spruzzo di insetticida nei giorni scorsi, simbolico quanto inutile.
 

Un buon posto per meditare

L’aria è fresca, quasi pungente: meglio così, perché per non ritrovarsi la barca invasa di insetti è necessario serrare tutti gli oblò. Prima di chiudere anche il tambuccio lancio alcuni avanzi di pane ad un piccolo gruppo di papere che nuota attorno a Piazza Grande. Poi, dopo un bicchiere di ouzo e dopo aver evocato scenari biblici e cinematografici da invasione di locuste, la stanchezza ha il sopravvento e la cuccetta appare più invitante che mai. Il silenzio che avvolge l’isola non sarà certo mortificato dalle poche barche da pesca che a breve prenderanno il mare per dare la sopravvivenza agli esseri umani di Efstratios che hanno deliberatamente scelto una vita di esilio dalla frenesia del mondo.