Carver è fantastico e ve lo dice uno che non ama molto i racconti. Fantastica è la sua capacità di fissare su carta istantanee di vita quotidiana della provincia americana, quella che si arrabbatta per vivere, che non ha soldi nè cultura, nè una vita in qualche modo interessante. I suoi personaggi sono l’antitesi dell’american dream, sono il dolore del fallimento, a volte senza nemmeno la consapevolezza dello squallore che ne consegue. Non si venga a menarla sullo stile: qualunque ricercatezza linguistica striderebbe terribilmente con l’ambientazione dei suoi racconti, qualunque artificio letterario ne eleverebbe indebitamente i protagonisti dall’ordinarietà delle loro esistenze quotidiane a qualcosa che essi stessi non sono riusciti ad essere. Carver fotografa, non giudica, non fa introspezione nè analisi sociologica, almeno non apertamente. Ma questo suo apparente tacere dice molto di più di quanto molte penne illustri di là dell’Atlantico si sforzano vanamente di dire. Carver cattura l’attenzione del lettore senza mettere in scena eroi, veri o fasulli che siano, ci parla piuttosto di noi, di ciò che siamo o avremmo potuto essere se qualcosa non fosse andata per il verso giusto. Leggetelo se volete capire, se volete capirvi.