La macchina del vento – Wu Ming 1

Gli anni della guerra e della disfatta militare e politica italiana visti da un osservatorio particolare: l’isola di Ventotene, nel Tirreno centrale, residenza coatta per i confinati politici più invisi al regime. Pertini, Spinelli, Longo, Terracini, Secchia, Ravera, nomi di spicco dell’antifascismo e poi della vita repubblicana postfascista.

I divieti, le botte, le speranze, le trame clandestine, la fame, le bombe, le malattie, la detenzione, la morte. Ma anche un dibattito politico accesso malgrado l’impossibilità di assembrarsi e discutere, che portò a quello che ha poi preso il nome di Manifesto di Ventotene in cui viene teorizzata un’Europa federale quale strada per il superamento dei nazionalismi che stavano devastando il continente e il mondo intero.

Che scrivano in gruppo o singolarmente, come in questo caso, gli autori del collettivo denominato Wu Ming danno la certezza di qualità letteraria e di ricerca storica accurata e documentata. Come anche in Proletkult, le vicende hanno leggero sconfinamento nella fantascienza, per essere però, in entrambi i casi, ricondotte nell’alveo della spiegazione razionale.

Una macchina del tempo sembra alla base della scomparsa del fisico Ettore Majorana, avvenuta misteriosamente nel 1938, ma la macchina diventa poi metaforicamente l’isola di Ventotene, che si è portata avanti nel tempo prefigurando quella che poi è diventata l’Europa dei nostri giorni. La stessa isola dove oggi andiamo sereni in vacanza, grazie anche al sacrificio degli eroi che vi abitarono forzatamente ottanta anni fa.

Supereroi (film) – Paolo Genovese

La trasposizione cinematografica di un’opera letteraria è un’operazione molto comune; sono migliaia i libri, famosi e non, capolavori o meno, finiti sul grande schermo. Spesso si tratta di operazioni commerciali, e il lettore che ha apprezzato la carta resta deluso dalla celluloide (o dalla sua riproduzione digitale). Meno comune è il viceversa. Mi viene in mente Anonimo veneziano: Giuseppe Berto, che aveva partecipato alla sceneggiatura, visto il grosso successo del film pensò di ricavare un romanzo breve riadattando ciò che lui stesso aveva scritto. Ne uscì un’opera notevole che, fra l’altro, possiede un’incipit strepitoso, fra i più belli che mi sia mai capitato di leggere. Ma era Giuseppe Berto, appunto.

Questo però avveniva in un tempo in cui il mondo, anche quello della cultura e dell’intrattenimento, viveva a compartimenti stagni: chi faceva un mestiere, faceva quasi esclusivamente quello. Oggi, invece, siamo nell’era dell’interdisciplinarità e della multimedialità, e le opere dell’intelletto vengono spesso già pensate e create immaginandone la distribuzione capillare in ogni settore: libro, film, serie TV, videogiochi, merchandising, ecc. Nei casi estremi, viene proposto, anche se certo non dichiaratamente, uno stile di vita, un modello sociale di riferimento, per cui l’opera viene abbracciata a tutto tondo dai suoi fruitori più appassionati.

Ho letto Supereroi qualche mese fa restandone terribilmente deluso, trovandolo decisamente banale, troppo per un autore come Paolo Genovese dalla cui mente è stato partorito quel capolavoro di analisi delle interazioni umane che è Perfetti sconosciuti. Chiudendolo, alla sensazione di banalità si era aggiunta quella che si trattasse di un testo scritto già per farlo diventare un film, una via di mezzo fra un romanzo e una sceneggiatura. Poi, casualmente, ho scoperto che il film lo stava già girando e che la medesima operazione l’aveva fatta per Tutta colpa di Freud.

Ieri ho visto questo film, scelto perché non ho trovato nulla di meglio, e iniziato con l’opzione “dieci minuti poi mollo”. Invece sono rimasto attaccato allo schermo per due ore, ininterrottamente, preso dalle vicende dei protagonisti malgrado le conoscessi sia nello sviluppo che nell’epilogo, perché il ritmo narrativo era pressoché perfetto e i continui flashback non creavano il minimo disorientamento.

Quella che leggendola mi era sembrata una storia ordinaria mi è invece apparsa in tutta la sua profondità; o meglio, me ne è apparsa la profonda lettura che ne ha saputo darne l’autore e che nel libro non traspare come nel film. Insomma, non so se per tenere in vita una coppia per molti anni bisogna davvero essere dei supereroi come nei fumetti; le generazioni dei nostri genitori e nonni hanno sicuramente sopportato situazioni molto più pesanti. Ma a noi, esseri fragili del XXI secolo, basta poco per sentirci tali, e a volte, come il finale del film mostra, un po’ lo siamo davvero per il fatto stesso di restare vivi.

Per dieci minuti – Chiara Gamberale

Snobbata da molti, considerata un’esponente di una letteratura minore e di facile fruizione, la Gamberale si è rivelata invece, nei due o tre suoi libri che ho letto, un’autrice interessante e per nulla banale. Non è certo Dostoevskij ma neppure Paulo Coelho, e riesce a trattare temi importanti senza eccessiva pesantezza ma non per questo con superficialità.

Lo stile, purtroppo o per fortuna, è quello di moda oggi: assertivo, assiomatico, fatto di proposizioni principali, senza o con poche subordinate, sempre con l’aria di essere in procinto di fare una rivelazione incredibile che modificherà le sorti, se non dell’umanità, per lo meno del lettore. Uno stile che non amo, ma in questo caso siamo ampiamente nei limiti dell’accettabilità.

Per dieci minuti è un racconto autobiografico e narra un momento difficile della Gamberale, che perde, improvvisamente e contemporaneamente, il lavoro, il marito e, a causa di un trasloco, la casa dove ha vissuto l’intera sua vita. Ritrovatasi senza riferimenti, accoglie il suggerimento della sua psicoterapeuta di provare a fare, ogni giorno per trenta giorni, per dieci minuti una cosa che non ha mai fatto prima.

È probabile che la scrittura stessa di questo libro, che nei fatti è un diario, abbia fatto parte del piano terapeutico e abbia dato il suo contributo significativo all’elaborazione del lutto per le perdite subite, ma leggerlo offre spunti di riflessione sul rapporto che si ha, nei momenti difficili della propria esistenza, con le persone e con il mondo in generale.

Il dolore dell’anima spinge generalmente a chiudersi in se stessi, a rintanarsi per proteggersi perché ci si percepisce fragili. Questo libro indica la via opposta, quella dell’apertura, mostrando come la vita si possa nascondere nelle pieghe delle esperienze più insospettabili. È un libro che apre la porta alla speranza, e di speranza c’è davvero un gran bisogno.

Estensione del dominio della lotta – Michel Houellebecq

Tra le cose che certamente colpiscono di questo romanzo, pubblicato quasi trenta anni fa, c’è quella di essere, quasi incredibilmente, l’opera di un esordiente. Spazia dall’analisi dell’essere umano a quella dei sistemi socio-economici, e il suo punto di vista sembra essere quello di chi ha toccato veramente il fondo del dolore e dell’emarginazione sociale e ne parla con cognizione.
Houellebecq scava in profondità nei meandri più reconditi dell’anima arrivando a frugare nell’inconfessabile di ciascuno, disvelandone le nevrosi, le paure, le fisime, l’incapacità di adattamento a una società fondamentalmente malata come quella in cui viviamo.

I suoi personaggi sono devianti semplicemente perché incapaci o indesiderosi di uniformarsi al consesso conformista e borghese che li vorrebbe inquadrati nel dualismo produzione-consumo.
La loro emarginazione a volte è volontaria, figlia del rifiuto e della denuncia di tutte le lacune e le pecche del sistema liberista occidentale, altre è la resa triste di chi non è all’altezza e soccombe di fronte a un mandato esistenziale alienato e alienante. Somigliano ai protagonisti dei romanzi di Philip Roth ma rispetto a questi sembrano possedere maggiormente i connotati del perdente. Il loro tormento non è solo dramma interiore ma vera e propria emarginazione, forse perché la società europea è più conformista e perbenista di quella americana e mal tollera chi non vi si adatta.

Alcune pagine, alcune riflessioni che l’autore fa esprimere al protagonista principale, un informatico trentenne insoddisfatto malgrado un buon lavoro, sono di una profondità e di un acume che affascina incredibilmente. La disamina del nostro vivere – nostro di occidentali di questa epoca – è impietosa: dolore e frustrazione ci lacerano ogni qual volta ci ritroviamo davanti a modelli e stili di vita inarrivabili per la stragrande maggioranza di noi. La felicità è un obiettivo irraggiungibile perché l’asticella del traguardo viene continuamente spostata un poco più avanti ogni volta che facciamo un passo nella sua direzione. L’appagamento esistenziale non è misurato solo in termini economici ma anche, ad esempio (e da qui l’estensione del dominio), sul metro del successo in ambito sessuale, ridotto anch’esso a mero oggetto di superficiale consumo.

Come anche Roth, Houellebecq sembra lasciare poco spazio alla speranza. Non si investe del compito di lenire il dolore, di rassicurare il lettore carezzandolo amorevolmente come un genitore di fronte al piccolo grande dramma di un figlio in età scolare. La sua letteratura si dà l’obiettivo di illustrare la realtà e spiegarla, di aiutare a prenderne coscienza e spingere a liberarsi da un giogo che strangola. In una delle ultime pagine lo dice chiaramente, riferendosi ai ricoverati di un manicomio: “A un certo punto ho cominciato a convincermi che tutte quelle persone non erano malate, avevano semplicemente bisogno d’amore”. La strada, è chiaramente indicata, la speranza pertanto è un privilegio per chi sceglie di reagire e quindi di agire.

Non è lavoro, è sfruttamento – Marta Fana

I mutamenti profondi nel mondo del lavoro avvenuti negli ultimi venti anni, qui descritti in tutta la loro crudezza.
I meccanismi perversi della gig economy, che delegano a un inesorabile algoritmo decisioni cruciali che riguardano la vita delle persone.

La legalizzazione del lavoro gratuito (stage, tirocini, alternanza scuola/lavoro) in cambio di promesse incerte e mai mantenute.
La truffa della meritocrazia che mette in concorrenza masse di disperati in una tragica asta al ribasso.
L’eterno precariato che rende impossibile progettarsi la vita.
Lavori interinali presso la pubblica amministrazione a 3 euro l’ora grazie alle scatole cinesi di cooperative e subappalti.

Gli stessi temi sono stati trattati nel bel film di Pif recentemente uscito, E noi come stronzi restammo a guardare. Questioni di cui si parla poco e marginalmente, eppure sono cose che riguardano tutti noi: direttamente; in seconda battuta per chi ha figli; in terza per tutti, perché portano con sé un impoverimento terribile della società.

Malgrado alcuni aspetti un po’ troppo ideologizzati e che non mi hanno trovato d’accordo nelle conclusioni “politiche”, il libro ha l’indiscusso pregio di spiegare in modo chiarissimo il mercato del lavoro di oggi, e c’è da restare allibiti.
Oltre un certo limite, la flessibilità è negazione totale dei diritti del lavoratore; sfruttamento, appunto.

L’ingorda – Barbara Chiappa

La biografia romanzata della donna che divenne la regina del Moulin Rouge di Parigi, soprannominata la goulue, l’ingorda, appunto.
Sullo sfondo, descritto con dovizia di particolari, quello straordinario periodo che è stato la belle epoque, fatto di progresso tecnologico e voglia di divertimento sfrenato con sconfinamenti nella trasgressione

Renoir, Toulouse-Lautrec, Hugo e tanti altri personaggi della cultura e dell’arte incrociano la strada della ballerina che fece del can-can uno spettacolo conosciuto in tutto il mondo.
La parabola artistica e personale della protagonista, figlia di una lavandaia, assurta a star dello spettacolo e poi precipitata in una miseria, umana oltre che economica, più nera di quella da cui era partita.

Una scrittura delicata e precisa, l’affresco di un mondo scomparso che ancora oggi non manca di affascinare.

L’isola – Aldous Huxley

A seguito di un naufragio, un uomo si ritrova su un’isola immaginaria dove la comunità locale ha realizzato una società ideale in cui si mescolano socialdemocrazia e buddismo. Intraprendendo una serie di conversazioni con alcuni abitanti, il protagonista ne scopre le peculiarità restandone progressivamente affascinato.

Il mito del buon selvaggio portato ai suoi estremi filosofici, la shangri-là dei mari orientali, l’utopia sociale di un sistema libero dai condizionamenti educativi delle moderne società occidentali.
Il progresso cattivo (non che abbia tutti i torti) contrapposto allo sviluppo buono (tanto per parafrasare Pasolini), ecologismo a go-go e spruzzate di droghe naturali che espandono la coscienza aumentando la sua capacità di percezione.

Non stupisce che Huxley fosse un punto di riferimento per gli hippy degli anni Sessanta, ma il romanzo, letto con gli occhi di oggi, appare banale e sempliciotto. O forse è anche per questo che l’autore divenne popolare fra i giovani di allora.

Le particelle elementari – Michel Houellebecq

Definirlo romanzo è riduttivo. È un fantastico trattato di sociologia, psicologia e antropologia che descrive l’evoluzione della società occidentale (francese in particolare) negli ultimi decenni del Novecento attraverso le vicende personali di due fratellastri, diversissimi per carattere e per indole.

Il primo, solitario al limite dell’ascetismo, dedica la vita alla scienza, arrivando a sfiorare il Nobel; il secondo ricerca nel sesso sfrenato un lenitivo al suo dolore esistenziale. Entrambi, però, chiusi nel proprio microcosmo di difesa o appagamento, appaiono come il prodotto di un epoca che ha portato l’individualismo al suo massimo storico. E l’autore spiega molto bene le ragioni di questo percorso generazionale e antropologico.

Inumerevoli le pagine contenenti digressioni profonde che stimolano la riflessione nel lettore, ragionamenti acuti esposti con incredibile chiarezza che spaziano dalla filosofia positivista alla fisica quantistica e alla biologia molecolare. Affascinante come Houellebecq appaia ferrato in tutti questi campi, mostrando uno spessore culturale davvero fuori dal comune.

Ma nel finale spiazza, spostando progressivamente l’azione in un futuro prossimo di alcuni decenni, mostrando un’umanità nuova sorta dalle ceneri della vecchia, ormai geneticamente superata, cui viene però riconosciuto il merito, pur avendo vissuto nell’individualismo, di non aver mai smesso di cercare il bene e l’amore universali.
Bello, bello, bello!

Tre piani – Eshkol Nevo

Tre piani di una palazzina borghese in un quartiere residenziale e tranquillo, tre storie diverse e disgiunte fra loro che si sfiorano appena, osservandosi con l’educato distacco che in certi ambienti si conviene fra vicini per bene.

Ma anche i tre piani freudiani dell’essere – Es, Io e Super-io – rappresentati ciascuno rispettivamente in uno di questi tre racconti, attraverso tre vicende esemplari: un uomo onesto ma pulsionale che si mette nei guai proprio a causa del suo carattere; una donna persa in un intreccio sfumato di realtà e fantasia; una giudice in pensione, vittima indiretta della severità che il suo stesso ruolo professionale impone.

Tre modalità diverse di raccontare: la confidenza verbale con un amico, una lunga lettera e un curioso monologo con una vecchia segreteria telefonica cui risponde la voce registrata di una persona scomparsa; tutte in forma autobiografica di flusso di coscienza, un altro evidente richiamo freudiano.

All’autore il merito di una narrazione che ha il giusto pathos senza provocare inutile ansia nel lettore, malgrado tutte e tre le storie abbiano una forte carica di suspense. Di contro, un libro che, malgrado sia molto coinvolgente e decisamente azzeccato nel disegnare personaggi e situazioni, sembra costruito a tavolino più che scaturito direttamente dalla pancia dello scrittore.

In altri termini, l’ottima opera di un artigiano piuttosto che il guizzo geniale di un artista, che solo nelle ultimissime pagine sembra invece ammantarsi di passionalità per quanto forse inutilmente venata di moralismo.