Alcuni giorni fa c’è stata una forte tempesta sulla costa ovest della Corsica che ha causato l’affondamento di parecchie barche. Avendo letto su Facebook alcuni suggerimenti piuttosto pittoreschi su come affrontare situazioni del genere, ho scritto un articolo per provare a fare un poco di chiarezza e che Solovela ha avuto la bontà di pubblicare.
Dopo Tre piani, di nuovo tre racconti per Nevo, tre storie che più che intrecciarsi si sfiorano, o forse semplicemente si citano in modo fintamente casuale.
Tre personaggi che si ritrovano all’improvviso in situazioni terribili senza aver fatto nulla per finirci dentro. La loro quotidianità, le loro normali vite borghesi, stravolte dagli eventi. Le loro reazioni, la loro sofferenza. Il loro cercare una via d’uscita che non sempre si trova.
Nevo ha la mano del mestierante, di quello che ha studiato e imparato la professione, i suoi romanzi sembrano scritti con la testa e mai con la pancia; questo, in particolare, sembra un esercizio di stile, un compito svolto con diligenza.
Una lettura scorrevole ma, a parte il primo racconto, un po’ scialba, addirittura noiosa per l’ultimo dei tre. Buono per l’ombrellone, chi ha già finito le ferie può tranquillamente evitarlo.
Folgorato dai primi suoi romanzi che ho letto, ho iniziato una sistematica lettura delle opere di Houellebecq, raccogliendo però, dopo l’innamoramento iniziale, una mezza delusione (Serotonina) e una delusione a tre quarti, come mi sento di definire questo libro.
Non che manchino gli elementi che caratterizzano e rendono più che interessante la sua produzione, e neppure pregevoli pagine con profonde riflessioni e analisi sulla società contemporanea frutto di un acume fuori dal comune, ma nell’insieme il romanzo non avvince.
I fatti ruotano attorno alla vita di un artista di successo che nel racconto incontra e lavora insieme con Houellebecq, rappresentato da se stesso. Divertente che uno scrittore faccia di sé un personaggio di un suo romanzo, senza che questo, e qui si vede la grandezza dell’autore, paia eccessivamente agiografico. Divertente anche che la sua morte per mano assassina venga descritta con minuziosità da criminologo.
Rappresentate attraverso i personaggi principali, l’arte e la letteratura fanno da sfondo alle vicende del romanzo; i due modi che l’uomo ha escogitato per raccontare e raccontarsi vengono messi a confronto in un mondo che tributa loro successi curiosi o inaspettati e a volte, come nella storia qui narrata, più grazie al sapiente uso delle logiche di mercato che a reali valori artistici. Ma forse lo sapevamo già.
Giuseppe Berto è decisamente uno dei più grandi romanzieri italiani del Novecento, e possiede un talento davvero speciale nel descrivere minuziosamente i travagli interiori dei protagonisti delle sue opere. Ne avevo già avuto dimostrazione con il meraviglioso Il male oscuro, ne ho trovato qui una piacevole conferma.
Sono narrate le vicende amorose di Antonio, un giovane provinciale, spiantato e sfortunato, preda delle normali pulsioni sessuali dell’età ma represso da una morale rigida che all’epoca in cui è ambientato il romanzo, i primi anni Sessanta, non si era ancora liberata dai condizionamenti religiosi e borghesi. Attenzione a non leggere la bandella (almeno nell’edizione che ho comprato io) perché è svelata e per filo e per segno la trama, finale compreso, togliendo alla lettura il piacere di scoprire come reagirà il protagonista di fronte alle sue sventure.
Seppur scritto in terza persona, ha tutti i connotati del flusso di coscienza: un vero fiume in piena di parole e pensieri che travolge il lettore senza interruzioni di ritmo. Forse qualche virgola in più avrebbe agevolato la lettura di una prosa fatta di periodi lunghissimi (anche pagine intere) con numerose subordinate su cui a volte bisogna soffermarsi per suddividerle sintatticamente in modo appropriato.
A far da sfondo alle vicende, una Venezia minore, di campi e calli secondari, e i piccoli centri circostanti che mostrano un Veneto ancora povero e campagnolo. E su questo contesto urbano e suburbano fatto di freddo e nebbia, aleggia la depressione, quella stessa depressione che de Il male oscuro è il soggetto principale e che si esprime e prende forma negli interminabili arzigogoli della mente di Antonio, portandoci ora a compatirlo per le sue sofferenze, ora quasi a disprezzarlo per la sua dabbenaggine.
Da La cosa buffa è stato tratto un film, al contrario di un’altra sua famosa opera, Anonimo veneziano, il cui testo letterario è stato un riadattamento della sceneggiatura, scritta questa per prima. Grande romanzo, grande Berto!
Sono stato recentemente intervistato da SVN Solovelanet a proposito di Odessa e del libro che ho scritto sulla mia navigazione in Mar Nero. Se da un lato la cosa mi inorgoglisce per il prestigio di cui gode la rivista, dall’altro mi duole che sia una guerra a riportare l’attenzione mediatica su quel viaggio. Quella a Odessa resta una delle più belle esperienze di mare che abbia mai fatto. L’articolo completo è qui: SVN solovelanet – SVN 64 (uberflip.com) Il libro è questo: https://lucianopiazza.com/la-vela-di-odessa/
Da anni mi incuriosiva questo libro. Non di per sé, ma perché l’ho sentito consigliare anche da persone che so che leggono buona letteratura e che l’avevano definito “di spessore”. Mi ha però sempre scoraggiato la mole: cinquecento pagine dell’autobiografia di un tennista, per quanto ami i libri di molte pagine e in gioventù abbia giocato per diversi anni a tennis, mi sono sempre parse un impegno temporale eccessivo.
Qualche giorno fa, complice il caldo che incoraggia letture poco impegnative, ho deciso di dargli una chance che forse avrei fatto meglio a non dargli: la solita asettica prosa del ghost-writer, dichiarato solo nei ringraziamenti come collaboratore ma in realtà nientepopòdimeno che un premio Pulitzer, il quale secondo l'”autore” avrebbe lui stesso chiesto di non comparire in copertina (sì, vabbè!).
Sostanzialmente una biografia celebrativa, agiografica, con qualche frecciatina ai colleghi (Sampras in primis) e che, a parte il racconto dell’infanzia con il padre-padrone che lo obbligava a giocare, non ha molto di interessante. A meno di trovare interessante la specificazione di aver visto settantacinque leoni durante un safari in Africa con la moglie, l’attrice Brooke Shields, quella che ha sulla coscienza le diottrie e i calli alle mani di un paio di generazioni di adolescenti.
Peccato, perché qualche spunto c’è: le alterne fortune di uno sportivo di gran talento poteva essere un tema interessante, se questo non fosse stato ridotto molto spesso a una sterile cronaca di decine di match, praticamente identici fra loro dal punto di vista narrativo.
La vita è un continuo morire e rinascere, è la lezione del libro; onore al tennista Agassi che ha saputo riprendersi mille volte dopo essere altrettante volte precipitato nell’abisso, sportivo e personale. Ma è decisamente preferibile quando ha, o aveva, la racchetta in mano che la penna (o il microfono per registrare gli aneddoti da girare allo scrivano).
Un formidabile affresco lungo quattro secoli su un pezzetto di mondo che è stato spesso al centro di eventi storici tumultuosi le cui ricadute hanno cambiato a volte le vicende europee.
Abilissimo l’autore nel mescolare i grandi avvenimenti politici ai fatti privati dei tanti personaggi del romanzo, mostrando al lettore una Storia fatta di tante storie minute e apparentemente insignificanti. Una Storia subita, più che agita dagli abitanti di questa terra.
Abilissimo anche nel far ruotare il racconto attorno a un oggetto inanimato, un ponte, dalla sua costruzione nel 1500 alla parziale distruzione agli inizi della prima guerra mondiale, dopo essere stato cerniera fra imperi e nazioni ma anche strumento di travaso di popoli e religioni.
Una lettura utile anche per comprendere l’ascesa e la caduta dei domini ottomano e austroungarico, il formarsi delle spinte nazionalistiche del Novecento, e tutto ciò che è stato alla base dei sommovimenti degli animi e degli intelletti delle popolazioni balcaniche. E non solo: perché siamo tutti attori illusoriamente mossi dal libero arbitrio ma in realtà, molto spesso, semplicemente figli ciascuno del proprio tempo.
Se Kafka, nel Processo, ha raccontato un incubo angosciante e indefinito, Malamud lo ha trasposto dalla surrealtà alla vita reale. Anzi, a dire il vero, ci si è trasposto da sé, dato che la storia, come ho scoperto a lettura avanzata, non è inventata ma ispirata a Menahem Mendel Beilis, quasi un Dreyfus russo.
Un uomo viene accusato ingiustamente di un crimine orrendo, l’uccisione di un bambino, malgrado le evidenze siano a suo favore. Nel clima fortemente antisemita della Russia di primo Novecento, le autorità costruiscono scientemente, al fine di incolparlo, prove fasulle, basate per lo più su false testimonianze, pregiudizi e deliri razzisti, primo fra tutti che si tratti di un omicidio rituale: secondo un’assurda e secolare diceria, il sangue dei bambini cristiani serviva per preparare l’impasto del pane azzimo pasquale.
La fabbrica orwelliana della menzogna di Stato era attiva in Russia ben prima di Stalin, ma molti cittadini erano ben felici di prestarsi a sostenerla, vuoi per ricavarne qualche piccolissimo beneficio, vuoi per quell’atavico bisogno che hanno taluni di trovare un capro espiatorio per le loro miserie. E il capro espiatorio serviva anche al potere zarista, provato dai moti del 1905 e timoroso di quello che poi avvenne di lì a poco, nel 1917.
In un interminabile castigo senza delitto e soprattutto senza processo né formale incriminazione, l’accusato, un pover’uomo che si guadagna la giornata come tuttofare (il titolo originale dell’opera è The fixer) viene progressivamente annientato moralmente e plasmato, anche nel fisico, per farlo aderire allo stereotipo di colpevole che si vuole condannare insieme a tutta la sua gente, scatenando un ennesimo pogrom.
Tre quarti del romanzo sono ambientati nella cella di isolamento senza che la lettura (e qui si vede la grandezza di Malamud) accusi mai momenti di lentezza o vi sia ristagno della narrazione. La psiche del prigioniero viene scandagliata con incredibile accuratezza nei diversi stati d’animo che egli attraversa durante la detenzione, nell’attesa di notizie che lo riguardano e che molto sporadicamente gli giungono.
La tensione sale in modo vertiginoso nelle ultime pagine, si desidera quasi morderle per conoscere l’esito della vicenda, alternando speranza e rassegnazione quasi fossimo noi in attesa del verdetto. Il libro si conclude con un’analisi del senso della Storia sugli individui, ma soprattutto con il protagonista che rivendica non più, o non solo, la sua innocenza ma la sua stessa esistenza in quanto individuo. Indomito, non solo per indole ma perché, come egli stesso afferma “la sofferenza insegna l’inutilità della sofferenza“. Un capolavoro!
I grandi narratori, quegli scrittori, cioè, che hanno la capacità innata di conquistarti con ciò che raccontano, esercitano da sempre un fascino incredibile su di me. Possono non raggiungere le vette dello stile, ma quelle dell’affabulazione certamente sì: nel senso migliore del termine.
Questo romanzo cattura immediatamente, avvincendo il lettore pagina dopo pagina in un intreccio narrativo inizialmente semplice che si fa via via più complesso sia negli accadimenti che negli aspetti umani dei protagonisti.
Un medico, guidando di notte a velocità elevata in una zona semidesertica, investe un uomo che camminava sul ciglio della strada. In quanto chirurgo si rende immediatamente conto che la frattura cranica che ha provocato non lascia scampo al malcapitato, destinato a morire nel giro di pochissimo. Decide allora di scappare ma perde il portafoglio con i documenti sul luogo dell’incidente. La moglie della vittima lo ritrova e ricatta il medico, anche se non nel modo che si potrebbe facilmente pensare.
Un triste affresco sulla realtà quotidiana degli immigrati clandestini, sul loro non-esistere in quanto clandestini, sul loro sfruttamento, sul loro coinvolgimento in traffici illeciti, sulle violenze agite e subite. Di pari passo, la tragedia familiare di un uomo – il medico – che vede sconvolta la propria esistenza quotidiana fatta di quelle certezze spesso fasulle con cui costruiamo le nostre vite.
Non un romanzo pietista, ma un racconto che mette in luce senza partigianerie un mondo che vive nel sottobosco e fa capolino solo quando finisce in cronaca nera, e bravissima l’autrice a raccontarcelo senza sconti per nessuno dei personaggi, se non forse per il protagonista principale cui concede l’indulto e il riscatto attraverso l’espiazione, anzi la riparazione della colpa.
Rovistando tra le offerte stracciate delle case editrici a volte si scoprono delle perle, come questo romanzo di Osamu Dazai. Premesso che non sono appassionato di letteratura giapponese, l’ho preso perché invogliato dalla quarta di copertina e perché mi piace uscire ogni tanto dai sentieri letterari conosciuti (da me) e provare a leggere cose nuove.
In realtà questo libro, scritto nel 1948 e ambientato negli anni Trenta del Novecento, è un giapponese spurio, dato che l’influenza della letteratura occidentale è evidentissimo sia nello nello stile che nell’impianto. Ma è soprattutto la profondità psicologica a evocare certi romanzi otto-novecenteschi europei.
La trama è abbastanza semplice: la storia di un giovane di buona famiglia che, perso fra il rifiuto della società e il desiderio/bisogno di essere da questa accettato, finisce schiavo dell’alcol e del sesso (nel testo, delle donne: l’epoca impediva evidentemente all’autore di essere troppo esplicito), nel maldestro tentativo di esorcizzare la solitudine.
Più scorrevano le pagine, più mi salivano alla mente alcuni personaggi di Dostoevskij (soprattutto di Memorie del sottosuolo e Delitto e castigo). Sia per i tormenti di questi, sia per l’abilità dell’autore di descriverne gli stati d’animo con un’accuratezza tale da far pensare che descrivesse se stesso. Andando poi a leggere la biografia di Dazai, ho scoperto che in effetti la sua storia ricalca perfettamente la trama del romanzo, epilogo compreso.
Anche se pressoché sconosciuto da noi (il fatto che sia offerto a 5 euro la dice lunga), in Giappone ha venduto qualcosa come dieci milioni di copie e ha ispirato alcune serie di manga, disponibili anche su Youtube: evidentemente le tematiche affrontate restano, dopo più di settant’anni, decisamente attuali.