Armi, acciaio e malattie – Jared Diamond

Un interessante saggio divulgativo che tenta di spiegare perché alcune civiltà si sono affermate prima, meglio, e a discapito di altre. Come recita il sottotitolo, la storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, letta in chiave socio-antropologica.

Liquidata come sciocca qualsiasi motivazione di carattere razziale basata sulla superiorità genetica di alcune popolazioni, l’autore, un biologo e antropologo americano, espone in modo chiaro e documentato le ragioni che hanno permesso all’uomo di evolversi, passando dalla condizione nomade di cacciatore-raccoglitore a quella stanziale di agricoltore-allevatore e poi successivamente di sviluppare conoscenze in campo metallurgico, scientifico, militare e culturale.

Ma soprattutto, perché in alcune aree del pianeta questo è avvenuto migliaia di anni fa mentre in altre solo da pochi decenni fa e unicamente in seguito al contatto con gli europei. In estrema sintesi, viene fatto risalire tutto alle condizioni geofisiche dei luoghi, alla disponibilità di risorse, la cui mancanza ha spesso stimolato gli individui, e soprattutto alla possibilità di interscambio con i vicini, cosa preclusa a molti popoli per questioni fisiche (orografiche o marine).

Quello che è certo, è che noi abitanti della terra siamo tutti mescolati fra noi, fin dalla preistoria, molto più di quanto certe teorie razziste sulla purezza del sangue vorrebbero far credere.
Forse eccessivamente lungo per un testo divulgativo, ma decisamente da leggere.

L’isola nell’isola

L’odore inconfondibile della macchia mediterranea si mescola a un vago effluvio di kerosene sprigionato dai motori ormai spenti dell’aereo che mi ha portato, per l’ennesima volta nella mia vita, in terra sarda. Mi basta allontanarmi di qualche passo dal velivolo e avanzare verso l’uscita per liberarmi dal retrogusto fastidioso di idrocarburi e inalare con pienezza il profumo delle piante resinose che, insinuandosi fra le rocce granitiche o lo scisto, ricoprono l’isola resistendo con eroica pervicacia all’azione devastante del vento salato. Ogni luogo ha una sua caratteristica, un tratto che lo connota in modo particolare se non unico; la Sardegna, fra gli altri, ha certamente il profumo del lentisco, del mirto, del cisto, dell’elicriso, del ginepro, del rosmarino, che confondendosi fra loro danno vita a una fragranza che in estate è così forte e inebriante da essere avvertibile, arrivando via mare, anche prima di avvistare terra.


L’aria è fresca, tonificante, quasi frizzantina, resa tersa dalle piogge dei giorni scorsi e dal maestrale, che soffia deciso e che ha reso l’atterraggio un po’ ballerino. In cielo, sparsi a distesa fino perdita d’occhio, piccoli e grandi cumuli sembrano promettere un ripetersi prossimo delle precipitazioni atmosferiche mentre si muovono veloci lungo la direttrice del vento. Anche la temperatura non rende giustizia al calendario in questa strana primavera che, come spesso negli ultimi anni, sembra uno strascico di inverno prolungatosi oltre i normali canoni meteorologici.

In Sardegna mi sento a casa: nei decenni è stata per me terra di vacanze, di amicizie, di amori, di avventura, di mare, di vela, di pesca, di cultura e di scoperte antropologiche. Venirci in aprile, quando l’orda vacanziera non ha ancora invaso ogni metro quadrato di costa e gli abitanti delle località turistiche non hanno ancora messo in scena lo show estivo fatto di locali alla moda e intrattenimento stereotipato con cui si guadagnano – giustamente – da vivere, offre il beneficio ulteriore di godere del privilegio della quiete.
Un breve tragitto stradale mi conduce fino a Palau dove mi aspetta il traghetto per la Maddalena.


Quale che sia il mezzo che ci porta, l’arrivo su una piccola isola è sempre un momento emozionante. Si ha il senso della meta raggiunta, dell’arrivo in un microcosmo che il mare protegge da tutte le brutture del mondo – e in questo momento, fra pandemia e guerra, il periodo è decisamente brutto – e che in una qualche misura proteggerà anche noi, isolandoci. Razionalmente sappiamo che non esistono isole felici, soprattutto in questa nostra epoca globalizzata e interconnessa a livello planetario, però a volte si ha bisogno di pensare che non sia così.

L’incomparabile bellezza della Maddalena e del suo arcipelago è cosa nota, e perdersi con lo sguardo fra i suoi colori accende l’anima: il mare che vira dal blu al turchese, le varie tonalità del granito, tra il rosa e il grigio, e il verde intenso della macchia mediterranea, ancora più vivido in primavera, fra cui spiccano il giallo della ginestra, il bianco dell’infiorescenza del cisto e dell’asfodelo, e i tappeti di carpobrotus, una pianta piuttosto invasiva conosciuta anche con il nome di fico degli ottentotti (vai a sapere perché) e che produce dei fiori a petalo di un colore viola molto forte. Chi è abituato alle distese brulle, al giallo spento delle sterpaglie estive resta facilmente a bocca aperta di fronte a questa stupefacente esplosione di natura e di vita.


Dai punti più alti si gode della vista delle tante isole, isolette e scogli che punteggiano la distesa azzurra del mare fino alla costa meridionale della Corsica, rendendo il panorama variegato come in pochi altri posti in Mediterraneo: ovunque si volga lo sguardo, non c’è un punto in cui il paesaggio appaia piatto e monotono. Avvicinandosi invece alle rive, si gode dell’esclusività di spiagge altrimenti affollate di bagnanti; la sabbia è spesso modellata dal vento che forma le tipiche piccole coste anziché rimestata in modo disordinato dai passi di migliaia di persone. C’è un qualcosa di poetico nell’osservare questo meraviglioso spettacolo ascoltando il leggero sciabordio della risacca sulla battigia appena sovrastato dal sibilo del vento.

La Maddalena ha anche un bellissimo centro abitato, antico e aggraziato, elegante e curato; anche qui la mancanza di turisti dà leggerezza e fruibilità al luogo. A differenza di molte altre piccole isole italiane, questa non si è votata esclusivamente al turismo, grazie anche alla consistente presenza di personale della Marina Militare che qui ha da sempre un importante presidio. La collocazione strategica, al centro del Tirreno, rende quest’isola un punto formidabile di controllo del traffico navale fin dai tempi antichi: Horatio Nelson, tra la fine del 1803 e il 1804, tenne ancorata qui la sua flotta per alcuni mesi per controllare i francesi prima di spostarsi a capo Trafalgar dove, pur vittorioso, perse la vita. La leggenda narra che si invaghi di una bella maddalenina, Emma Liona, ma in realtà il nome è una semplice italianizzazione dell’amante dell’ammiraglio, l’inglese Emma Hamilton, che da nubile faceva Lyon di cognome.


Prima di lui, nel 1793, giunse un giovane Napoleone che cercò di prendere l’isola ma si trovò ad affrontare l’inaspettata resistenza dei maddalenini, capeggiati dal luogotenente Domenico Lioni detto Millelire, che cannoneggiarono la flotta francese fino a costringerla alla fuga. A ricordo dell’impresa, la piazza che si affaccia su cala Gavetta si chiama XXIII febbraio, giorno in cui si svolsero i fatti e ospita un monumento a Millelire: una stele sulla cui sommità è posta una palla di cannone sparata allora dai francesi verso l’abitato.

Ma il personaggio che spicca su tutti nell’arcipelago della Maddalena è certamente Garibaldi, che qui scelse di finire i suoi giorni, sull’isola di Caprera, fra la gestione della fattoria che aveva messo in piedi e le tresche con le donne di servizio della casa. E qui venne sepolto, anche se qualcuno sussurra che in realtà, nel rispetto della sua volontà, la salma sia stata segretamente riesumata e cremata. La sua casa è visitabile e interessante è anche la visita al Compendio garibaldino, un’antica fortezza riadatta a museo del Risorgimento, dove è possibile ripercorrere tutti i momenti salienti del processo politico e miliare che ha portato all’unità d’Italia.


Ed è incredibile come un’isola così piccola possa essere stata tante volte al centro della Storia: nel 1943 venne condotto segretamente qui Benito Mussolini, deposto il 25 luglio dal Gran consiglio del fascismo, per nasconderlo nel timore che i tedeschi lo liberassero, come poi avvenne dopo che fu trasferito sul Gran Sasso, in Abruzzo. Venne fatto alloggiare a villa Weber, una costruzione in stile moresco fatta edificare da un nobile inglese nella seconda metà dell’Ottocento in località Padule, ma la sua presenza venne notata dagli isolani e rapidamente ne giunse voce ai militari tedeschi che organizzarono un colpo di mano per portarlo via. Le autorità italiane, però, ebbero sentore che il nascondiglio fosse stato scoperto e furono più leste: all’alba del 28 agosto un idrovolante decollò dallo specchio acqueo antistante l’ammiragliato con a bordo il prigioniero. Poche ore dopo, i tedeschi travestiti da marinai italiani, si recarono a villa Weber con la scusa di consegnare della biancheria lavata ma trovarono solo un carabiniere di guardia che li avvertì che in casa non c’era ormai nessuno.
La villa oggi è in totale abbandono e se ne scorge solo una torretta dalla strada che da Padule sale verso la collina.

Passeggiando la sera in paese si gode del fresco e della tranquillità: in giro quasi solo maddalenini e marinai, pochissimi i turisti, pochi gli avventori di bar e ristoranti che nel giro di un paio di mesi saranno invece pieni fino a scoppiare. Il bello della Maddalena è anche questo: essersi saputa mantenere nella sua identità senza lasciarsi snaturare completamente dal turismo, senza chiudere completamente i battenti per dieci mesi l’anno nella pigra attesa della stagione estiva. Una Sardegna nella Sardegna, un’isola nell’isola, una quiete vitale quale alternativa alla frenesia.

Mille anni che sto qui – Mariolina Venezia

Una saga familiare che, come spesso le saghe, vuole percorrere il doppio binario delle vicende familiari e di quelle storiche del luogo in cui è ambientata. La Basilicata in questo caso, una bella regione rimasta di frequente ai margini della Storia.

Molti i personaggi, troppi per le pagine che l’autrice ha concesso al suo romanzo, e che si accavallano senza che il lettore abbia avuto il tempo di familiarizzare sufficientemente con essi al punto da rimpiangerli o gioire quando escono di scena. Si fa un po’ di confusione, insomma, fra tutti loro.

Il senso del libro è quello tipico di certe saghe letterarie: il mondo vecchio che si sgretola e quello nuovo che avanza fra le macerie lasciate dal vecchio, spesso a tentoni perché ha perso i riferimenti secolari del passato.
Un’aspirazione all’epicità che, malgrado la buona qualità del romanzo, non sembra essere stata raggiunta, se non, forse, per chi ha dimestichezza con quei luoghi e non ha bisogno quindi dell’universalità della narrazione.

La prosa è spesso evocativa più che descrittiva, decisamente di grande livello ma poco narrativa o affabulatoria, come forse si converrebbe a un racconto del genere. Ha comunque vinto un Campiello, direi meritatamente.

Serotonina – Michel Houellebecq

Solita lucida, spietata, terribile disamina della società occidentale e degli effetti nefasti che ha sugli individui, per mano di uno scrittore che ha fatto di questo il tratto principale della sua opera.
La depressione quale fenomeno sociale, unica risposta possibile all’inevitabile sconfitta che attende la maggior parte delle persone in un mondo improntato sulla competizione estrema anziché sulla collaborazione.

Sociopatia e sessuomania, ovvero fuga e lenitivo, in un alternanza che vede la classe media schiacciata da una globalizzazione malgestita dai governi nazionali e sovranazionali.
L’individualismo come rassegnazione e non come obiettivo. In altre parole quello che molti di noi già sono o saremo, perché i romanzi di Houellebecq lasciano sempre pochissimo spazio alla speranza.

È il suo terzo libro che leggo, forse quello che mi ha appassionato meno: non per le vicende e le tematiche, interessantissime, ma per alcune parti meno profonde di come ero stato abituato – bene – da lui.
Comunque da leggere.

Piccola curiosità: un refuso piuttosto clamoroso. Il disco Ummagumma dei Pink Floyd viene definito “il disco della mucca” mentre quello “della mucca” è invece di Atom heart mother. Clamoroso perché è una delle copertine più famose della storia del rock e la mucca la occupa per intero. Ma glielo si perdona tranquillamente.

Il mito della rozza

Un giorno, mentre navigavo nelle acque bulgare del Mar Nero in rotta per Odessa, ho avuto un problema al motore di Piazza Grande, dovuto alla presenza di morchia nel serbatoio del carburante. Ho trovato rifugio all’interno del porto di Varna, al riparo di un vecchio molto di pietra, e ho iniziato a darmi da fare per risolverlo. Per svolgere il lavoro dovevo prima svuotare completamente il serbatoio e, per farlo, mi servivano due cose: delle taniche dove riversare un centinaio di litri di gasolio e una pompa per aspirarlo. A entrambe le necessità ha provveduto un ex-macchinista di navi mercantili che ho conosciuto casualmente e che, molto gentilmente, mi ha prestato tutto quello che mi serviva. Mi sono ritrovato per le mani una vecchia pompa piuttosto ingombrante e mezzo arrugginita e ho avuto un attimo di smarrimento in cui mi sono chiesto se e come funzionasse: era un lungo tubo di ferro con una manovella che agiva evidentemente su una girante interna. Mi colpì la scritta in cirillico sul corpo della pompa: chissà cosa diceva – la marca suppongo – ma mi evocò immediatamente il mito della tecnologia meccanica sovietica di cui si favoleggiava da ragazzi.

Mi venne in mente anche un amico di allora che, pregno di questo mito, si era comprato una macchina fotografica Zenit, di fabbricazione russa. Rozza, ma efficiente, mi spiegò fiero mostrandomela. A me parve solo rozza, e neanche lontanamente paragonabile alla mia Canon, certamente più costosa ma di tutto un altro pianeta, anche se elettronica e quindi schiava delle batterie. «Questa non la fermi mai» mi disse l’amico. Nemmeno la pompa si fermò, ma certamente nell’anno 2016, quello del mio viaggio in Ucraina, il mercato internazionale offriva pompe per liquidi più versatili e comode da usare. Quella, probabilmente, era roba degli anni Cinquanta del Novecento, quando la Russia era chiusa completamente agli scambi con l’Occidente e la sua tecnologia procedeva in modo del tutto autocratico. Sarà un reperto, pensai, oggi l’interazione planetaria avrà modificato il corso dello sviluppo tecnico-scientifico anche nei paesi ex-comunisti. Ci scrissi anche un pezzo, poi ripreso in un capitolo del libro La vela di Odessa intitolato La pompa comunista.

Quella pompa mi è tornata tristemente alla mente in questi giorni in cui la tecnologia russa viene dispiegata nel suo più terrificante e mortale aspetto. E insieme alla pompa mi sono tornati in mente i dubbi sull’efficacia di questa tecnologia. Certo, in tempi di guerra la verità è difficile da trovare, ma diversi analisti militari hanno denunciato un numero altissimo di bersagli mancati da bombe e missili di precisione e le immagini dei campi di battaglia hanno mostrato moltissimi mezzi russi, cupamente marcati dalla lettera Z, completamente distrutti. Quaranta giorni di guerra sanguinosa, senza nessun successo significativo sul campo, indicano inoltre un esercito ben lungi dall’essere una macchina da guerra rodata e funzionante.

La sensazione è che il sistema bellico russo sia ancora oggi come la pompa a manovella e come la reflex del mio amico: rozzo e basta. Il perno centrale sembra essere l’insensibilità verso l’essere umano in quanto tale, sia esso il civile ucraino o il giovane soldato di leva russo, considerati niente di più che carne da macello da sacrificare, senza alcuna remora, per conseguire la vittoria. Niente di nuovo, se vogliamo: il regime zarista era sanguinario e quello sovietico non era da meno. La Russia ha una storia fatta di atrocità incredibili e di uso smisurato della violenza (pogrom, rivolta del Pope Gapon, gulag, Holodomor, le prime che mi vengono in mente) che hanno provocato milioni di morti, trasversale alle forme di governo e che l’attuale sistema politico sta confermando nella forma e nella sostanza. Soldati mandati a mani nude a scavare a Chernobyl, come già i pompieri nel 1986.

Crudeltà a parte, l’unica cosa per cui la potenza militare russa è al momento temibile è l’atomica. Ma è anch’essa una cosa rozza, che distrugge tutto, rade al suolo città intere sterminando in un solo istante un numero impressionante di persone. Senza quella e senza le ripetute minacce di usarla nel caso l’Ucraina ricevesse un supporto militare estero, l’Occidente si sarebbe impegnato in modo diretto nel conflitto, risolvendolo probabilmente in tempi rapidi. Del resto, la Canon produce ancora macchine fotografiche mentre la Zenit ha chiuso da vent’anni; anche se la mentalità che l’ha generata sembra sopravvivere ancora, sfilacciando nel terzo millennio brandelli consunti del Novecento peggiore.
Come oggi a Bucha.

Arrendetevi!

Arrendetevi. Non siete circondati, come dicono nei film di terz’ordine, ma arrendetevi lo stesso, tanto comunque non avete scampo. Soccombere e morire è l’unica alternativa alla vostra resa. Il nemico è soverchiante, arrendetevi prima che vi distrugga. Arrendetevi e, in cambio di una decorosa sottomissione, avrete salva la vita. Forse. O forse no, ma che importa; voi arrendetevi a prescindere.

Arrendetevi, anche voi neri del Sudafrica dell’apartheid, accettate la superiorità dell’uomo bianco. Non sarà una superiorità genetica, come sostiene chi vi ha reso schiavi, ma una superiorità di forze sicuramente sì. Quindi accettate la vostra condizione di inferiori, una situazione tutto sommato auspicabile di fronte all’eventualità di essere annientati anche fisicamente. Avrete bagni e autobus solo per voi, un privilegio, no? In fondo vi si chiede solo di restare tranquilli e servire il vostro padrone, ossequiarlo, riverirlo.

Arrendetevi, voi ebrei degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, senza alcuna possibilità di contrastare la forza bruta dei nazisti. Accettate il vostro destino, non complicate le cose ai vostri carnefici e non turbate la quiete delle famiglie europee, soprattutto quelle perbene. Incamminatevi disciplinatamente verso i campi di sterminio, fate quello che vi viene detto di fare. Certo, a Roma, Kappler vi aveva promesso la salvezza se aveste consegnato cinquanta chili d’oro entro tre giorni ma poi, intascato il prezioso carico, si è immediatamente rimangiato la parola deportandovi tutti. Ma tanto, per voi, cosa è cambiato? È comunque la camera a gas il vostro destino.

Arrendetevi, voi indiani d’America, ricacciati sempre più a ovest dall’avanzata degli invasori europei. Sarete decimati dai fucili e dalle malattie sparse ad arte con coperte infette, imbrogliati da accordi che la controparte, con pretesti fasulli e cavilli che voi non potevate comprendere, non rispetterà mai; quindi arrendetevi. Alzate le mani in alto, anche se vi spareranno lo stesso: come a Wounded Knee, come sul Sand Creek. Fate risparmiare le pallottole ai cecchini che vi puntano, abbiate almeno la compiacenza di fare questo. Lo so, gli uomini saranno scalpati e le squaw violentate, ma un po’ di esuberanza da parte del vincitore va messa sempre in conto.

Arrendetevi, tutti voi che per secoli avete subito la dominazione delle potenze coloniali, la protervia di uomini ignoranti e rozzi che a casa propria contavano zero ma nella vostra diventavano improvvisamente qualcuno. Accettate le loro usanze, le loro leggi, le loro abitudini, la loro architettura, la loro cultura, il loro governo. Non sfidate mai il potere da essi costituito, rassegnatevi a fare ciò che vi viene ordinato di fare: con malagrazia, quando va bene, con violenza negli altri casi. Anche se vi umilieranno davanti ai vostri figli, se non rispetteranno la vostra età, la vostra educazione, il vostro ruolo sociale. Fate ciò che vi viene detto di fare, senza agitarvi, senza protestare. Senza ribellarvi mai. Sentitevi gratificati di essere il loro esotico zimbello.

Arrendetevi, voi popoli senza terra, schiacciati da assurdi nazionalismi, stritolati da un’idea di stato-nazione troppo ristretta per contenervi, messi a margine da altri popoli più numerosi, più ricchi, più forti, più organizzati a tracciare confini che vi comprendessero senza per questo riconoscervi per ciò che siete. Dimenticate la vostra lingua, le vostre tradizioni, il vostro passato. Scordate la vostra identità e fate vostra quella di chi detiene il potere. Ne va del vostra stessa sopravvivenza, anche se ne verrete fuori completamente snaturati.

Arrendetevi, voi che avete avuto la sfortuna di nascere in un paese debole, in un momento in cui il capo di un paese vicino, forte, aveva fame di potere, di ricchezza, di terra, di vanagloria. O anche solo voglia di distruggere le vostre case, le vostre vite. Rassegnatevi a essere insignificanti microbi di fronte all’avanzata inarrestabile di un nuovo impero: Romano, Barbaro, Cinese, Bizantino, Arabo, Ottomano, Mongolo, Spagnolo, Portoghese, Britannico, Austro-Ungarico, Russo, Sovietico, di nuovo Russo. Arrendetevi. La Storia non si arresta, la Storia si subisce e basta, non si fa.

Arrendetevi, perché da noi è quasi primavera e con la bella stagione ribellarsi e combattere non sta bene: il rumore degli spari è molesto e gli schizzi di sangue, anche se arrivano semplicemente dalla TV, sporcano i germogli sui rami degli alberi.
Arrendetevi all’ignavia, all’indifferenza, all’accidia: queste sì che vi circondano in modo inesorabile.

Ineluttabile destino

Ieri sera, tornando a casa, ho visto un gruppo di giovani che dava fastidio a una ragazza. La spintonavano, la insultavano, e sembravano in procinto di violentarla. Lei chiedeva aiuto ma io, nel timore di essere coinvolto, mi sono guardato dall’intervenire: erano almeno cinque o sei, tutti piuttosto grossi, le avrei prese sicuramente. Altre persone, come me, si sono fermate a guardare.

“Chiamate la polizia!” urlava. Stavo per farlo ma poi ho pensato: magari sono armati e quando arriva la pattuglia loro gli sparano. Anche se non amo le divise, Dio non voglia che ci vada di mezzo un bravo ragazzo delle forze dell’ordine che non ha fatto nulla di male. Lui.

La ragazza, invece, è possibile che abbia provocato quei giovani: forse con l’abbigliamento, o qualche occhiata di troppo. E i giovani, si sa, sono reattivi, reagiscono alle provocazioni.

Ma poi, è proprio la famiglia di lei che non mi piace: i fratelli hanno idee politiche strane, normale che dopo capitino certe cose. Uno, tempo fa, l’ho visto scavalcare i tornelli della metro senza biglietto e poi imbrattare i treni con lo spray.

Quando l’hanno buttata a terra, con la mano ha cercato di afferrare un bastone per difendersi da sola, visto che nessuno l’aiutava. Non ci arrivava, e quando i nostri sguardi si sono incrociati, mi ha fatto capire che con il piede avrei potuto avvicinarglielo. Ma benedetta ragazza, ti rendi conto dell’escalation di violenza che si innescherebbe in questo modo? Tutto quello che otterresti è di incattivire ancora di più i tuoi aggressori!

I quali, nel frattempo, hanno cominciato a spogliarla e colpirla. Al ventre, in faccia, dappertutto. Sanguinava, poveretta. Pregavo per lei, per la pace sua e di tutti. Perché la pace è importante, viene prima di qualunque cosa. Infatti, a un certo punto, qualcuno si è affacciato dalla finestra, gridando: “Basta, piantatela, vogliamo stare in pace a casa nostra, è l’ora di cena e abbiamo il diritto di avere la nostra tranquillità”.

La stavano violentando a turno, lei piangeva, si dimenava, quando a un tratto, un uomo tra la folla ha detto: “Dobbiamo fare qualcosa! Io quei ragazzi li conosco, sono i proprietari del supermercato sul viale, da domani non andiamo più a fare la spesa da loro”.
“Sì, bravo”, ha risposto un altro, “così poi ci tocca andare al negozietto all’angolo che ha i prezzi più alti. Io sto risparmiando per fare le vacanze in Sardegna, mica posso andare a Ostia quest’estate”.
Alle mie spalle ho sentito più di uno dargli ragione.

Alla fine non ce l’ho fatta più, non ne potevo più di tutto quel sangue, tutta quella violenza. Mi sono avvicinato e le ho detto: “Perché ti ostini a fare resistenza? Sono più forti di te, lasciati andare e dagli quello che vogliono. Prima lo fai, prima ti libererai di loro. Del resto, in molti qui si stanno spazientendo con te che non vuoi accettare il tuo destino. Se non vuoi farlo per te, fallo almeno per noi. Noi siamo contro la violenza. Sempre.”

Un pugno sferrato da uno degli aggressori sul suo volto già tumefatto le ha fatto saltare due incisivi , poi ha perso conoscenza. A quel punto non c’era più nulla da salvare e ce ne siamo andati tutti a casa, anche se quelli non hanno smesso di accanirsi sul suo corpo ormai inerte.

Odessa nel cuore

L’arrivo, navigando in solitaria, a Odessa è stata una delle cose più emozionanti che abbia mai fatto in vita mia. Come scrissi allora, era il 2016, avevo l’impressione di entrare non in un porto ma nella Storia.

Odessa è una citta piuttosto giovane (è stata fondata nel Settecento), ma ha vissuto gli ultimi due secoli al centro degli eventi mondiali, da quelli del commercio, di cui divenne un importante snodo, ai primi moti rivoluzionari del Novecento (la corazzata Potëmkin si è ammutinata qui) al terribile sterminio della popolazione di religione ebraica che ammontava a trecentomila persone e costituiva un terzo degli abitanti.

Gli odessiti mi erano sembrati riservati ma comunque sempre gentili, e non ho mai avuto alcun problema nonostante le guide turistiche avvertissero dei pericoli in alcune zone della città. Percepivo solo una gran voglia di vivere, più che legittima dopo decenni di oppressione sovietica. Ma forse bisognerebbe dire russa, perché il regime comunista è stato un’oppressione non solo politica e militare ma nazionalistica.

Durante lo stalinismo l’Ucraina ha patito una terribile tragedia di cui fuori dai suoi confini non si parla molto: l’Holodomor. Stalin, con un pretesto, avviò un genocidio silenzioso degli ucraini sequestrando i raccolti, entrando nelle case a perquisire le dispense e uccidendo chi aveva anche un solo un uovo nascosto invece che consegnato alle autorità: russe, perché nei posti di comando erano stati messi i russi in tutte le repubbliche dell’Unione.

La Storia purtroppo si ripete e, come spesso accade, il nazionalismo, inteso come incapacità di convivenza pacifica con il diverso da sé, è alla radice del conflitto: se non come reale ragione, come foglia di fico per interessi economici. Che pena per chi sta patendo e patirà le terribile conseguenza di questa inutile guerra, che pena per la bella Odessa e i suoi abitanti!

Per approfondire: www.laveladiodessa.it

L’era del singolo – Francesca Rigotti

Il concetto di individuo presenta una discreta ambivalenza: da un lato, quando si è affermato ha implicitamente dato il suo impulso alla determinazione dei diritti dell’essere umano in quanto tale. Sembra scontato, oggi, ma quello della responsabilità penale individuale è un principio giuridico relativamente recente: si pensi alle legislazioni su base etnica o religiosa che si sono avute nel corso della Storia e che imputavano le colpe collettivamente.

Dall’altro lato, negli ultimi decenni tale concetto si è esasperato al punto da smarcare, secondo l’autrice, l’essere umano dal consesso sociale in cui è inserito, creando di fatto una società, più che di individui, di monadi che operano ciascuno per il proprio fine e non organicamente tutti insieme.

Difficile darle torto: sia leggendo questo libro che semplicemente guardando le trasformazioni avvenute nella società e nel nostro modo di vivere. L’individuo è esaltato per la sua unicità e ritenuto meritevole (dal marketing, in primis) di qualcosa di speciale, creato esclusivamente per lui: si pensi al personal trainer, al private banking, alle diete personalizzate, ecc. Nulla viene più pensato e organizzato in modo collettivo.

Sicuramente Internet ha dato una grossa mano al processo nel momento in cui ha inserito l’individuo in una rete relazionale in cui ciascuno di noi rappresenta il centro, il fulcro unico centrale da cui tutto il resto arriva o si dipana. E quest’esaltazione dell’individuo si è affermata un po’ ovunque, politica compresa dove ai partiti si sono sostituiti i personalismi di grandi e piccoli leader le cui organizzazioni si chiamano spesso con il loro stesso nome, riportato anche sul simbolo.

Ormai siamo convinti che tutto ciò che ci riguarda sia nelle nostre mani, che siamo gli artefici unici del nostro destino, che se ci impegniamo come si deve la vita ci darà quello che certamente meritiamo. L’altra faccia della medaglia è la frustrazione doppia in caso di insuccesso: al dolore del fallimento si aggiunge il senso di colpa di non sentirsi all’altezza.

Lo shtetl perduto – Max Gross

Un romanzo delizioso, nella pura tradizione della letteratura yiddish.

Gli shtetl erano i villaggi rurali dell’Europa orientale dove vivevano gli ebrei; una realtà sociale, antropologica e culturale completamente annientata dallo sterminio nazista. Per una serie di circostanze, fortuite e tutto sommato realistiche, uno di essi è scampato alla shoah ed è rimasto isolato dal resto del mondo fino ai nostri giorni, quando casualmente i suoi abitanti entrano in contatto con la realtà odierna.

Divertenti le reazioni di incredulità di entrambe le parti nello scoprire uno stile di vita che per ciascuno è inconcepibile, e abile l’autore a mostrarci i limiti etici, economici, politici e quant’altro di entrambi. Il racconto intreccia le vicende personali di alcuni protagonisti e le ricadute sulla vita degli abitanti dello sthetl e della Polonia, paese in cui la storia è ambientata.

Tutto il libro è scritto in una prosa meravigliosa e affabulatoria, semplice ma assolutamente coinvolgente. Rapisce dalle primissime pagine e si fatica a staccarsene. Unico piccolo neo, il finale, forse un po’ troppo ecumenico che però, al netto del significato religioso che non condivido, può essere letto come un trovare dentro di sé le energie per fronteggiare le avversità della vita.

Interessantissimo anche da un punto di vista antropologico, per capire un mondo purtroppo scomparso per sempre.